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italianoChitarra [Manuel Fiorelli]

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(italianoChitarra raccoglie i piùdi5menodi10 dischi italiani a cui l’interpellato si sente più affettivamente legato. Dopo aver finito con i redattori di MS, abbiamo iniziato ad allargare a esterni che per i più svariati motivi sentiamo vicini attitudinalmente. Il primo è stato Tony Aramini, oggi è il turno di Manuel ‘Conan’ Fiorelli, anch’egli ex writer del Metal Shock cartaceo e oggi redattore di Classix e Classix Metal)

C’è una pila spaventosa di vecchi e gloriosi Metal Shock nel mio archivio; il primo con Ozzy in copertina, tutti quelli degli anni d’oro, alcuni dei tempi duri dei nineties e c’è anche l’ultimo mai uscito in edicola, numero al pari di diversi precedenti per i quali è stato bello e coinvolgente dare un contributo… Quando si torna, anche se occasionalmente, in quella che per parecchio tempo si è chiamata casa non è mai malaccio, no? Sono lieto di seguire cronologicamente la scia dell’amico Tony Aramini,anche se l’aver scoperto che non ama il parmigiano sulla pasta al sugo mi costringerà a rivalutarne la reputazione. Questi sette dischi? Diciamo che sono qui in rappresentanza di settanta e che quando nella cernita la mente fa fatica, è il cuore che pesca il jolly. Saluti Conaniani.

FORTY WINKS – st (2005)
Tante cose succedono per caso, tranne che seguire un amico che si chiama Klyster perché “stasera c’è un gruppo che non dobbiamo assolutamente perdere”: lì vai sul sicuro. Ovviamente avrete presente quei raduni con dodici gruppi che inizi a confondere piuttosto presto; improvvisamente però si materializzano sul palco questi Forty Winks che già con un paio di brani fanno il culo a strisce a tutti, costringendo ogni presente a strabuzzare occhi e orecchie, indipendentemente dal numero di birre scolate… Logico che poi ti lanci famelico sul nuovo cd che, con colpevole ritardo, scopri essere il terzo della loro storia. Dall’incipit di basso e batteria di Somethin’ To Say alle ultime fiammate di Knockout, passando per la scarica di adrenalina di Why Worry?, trascorrono otto cazzutissimi minuti e mezzo che costringono ad amare questo disco, ancor prima di ascoltare il resto di una scaletta che potrebbe a questo punto anche proseguire a suon di rutti e peti perché sarebbe fantastica comunque. Niente rumori molesti però: in realtà qui risuona energica e scattante una miscela micidiale di ottimo punk rock, da ascoltare ad libitum. Ah, vuoi vedere che la stessa Blondie avrebbe preferito suonare Hangin’ On The Telephone come l’hanno riletta i Forty Winks?

“Il rock è nato in Abruzzo”

IVAN GRAZIANI – Parla Tu… Dal Vivo (1982)
Il Rock è nato in Abruzzo! Non perché io sia abruzzese ma perché nella seconda metà dell’800 c’erano più miei conterranei che indiani in America”. In un’Italia allora completamente immersa nel cantautorato folk impegnato, e pur sempre sanremocentrica, condurre a un unico omogeneo comun denominatore cronaca nera ed esposizione poetica, ballate struggenti e accordi spessi come una parete era già impresa titanica; farlo suonando la chitarra come mai nessuno prima in questo paese, ancor di più! Questo live è uno scrigno, dai super classici che non sto nemmeno a citare ad altri numeri che il riflettore l’hanno guadagnato sul campo come l’affresco onirico di una splendida Fuoco Sulla Collina o le stilettate velenose di Motocross… Più che una raccolta di successi proposti dal vivo, questo sembra un excursus piuttosto esauriente che testimonia poliedricità, energia e talento infinito di un autore che come tanti ha fatto le spese di una mentalità fin troppo spesso sorda, cieca e muta. Ecco l’impatto, l’ironia, l’italianità e ovviamente la melodia di un chitarrista immenso che il mestiere di musicista l’ha intrapreso per fronteggiare lo stomaco vuoto; fame e passione sono un impasto imbattibile, l’eredità di Parla tu… dal vivo lo testimonia in modo imperituro. “Sto anche diventando più peloso, a volte avverto l’istinto di salire sul palco a quattro zampe” Mi manchi Ivan, grandissimo rocker!

MISS DAISY – Pizza Connection (1988)
It’s only rock’n’roll, we like it e se ci metti anche una scaletta da urlo, un gran tiro e la giusta attitudine finisci con lo stringere tra le mani un disco che molte band sognerebbero di sfornare ma che comunque, poiché questo mondo è una merda, faranno più soldi. Li ricordo bene gli anni dei Miss Daisy, della considerazione di cui godevano, dell’atmosfera che si annusava quando ci si avvicinava a quella sala prove in zona Colosseo con l’intima consapevolezza d’essere spazzato via da un’onda sonora travolgente, la stessa che ha lasciato a bocca aperta fans di Motorhead, Ramones o Blue Oyster Cult che pensavano stoltamente di assistere a un supporting act di basso profilo. Bella sveglia, buon per loro! Non si scomoda un tizio come Fast Eddie Clarke (dei santissimi, dico Fast Eddie Clarke, cazzo!) dalla perfida Albione, per produrre tre ragazzi romani solo perché hanno il look giusto. Ok, bando alle ciance, qualora aveste commesso il tremendissimo errore di aver snobbato Pizza connection, procuratevelo oggi che è stato ristampato in cd con il demo del 1988 come bonus, correte ad ascoltare Skywalker, When An Angel Falls In The Jungle o The Wolfsong (ma dovrei citarle tutte) e risparmiate gli improperi per il tempo perso pensando a quello che ancora resta!

THE RAFF – Gates of Fortune (1981)
Questo disco non è un disco, e il naufragio della Steve King Records ne rappresenta una delle cause. In effetti stiamo parlando di un prodotto che non ha mai avuto una pubblicazione ufficiale, e del quale esistono registrazioni più o meno pirata che comunque hanno contribuito a tramandarne il mito, vicenda comunque raccontata più volte e in maniera più compiuta da altre fonti. Che il supporto sia il un nastro di quinta generazione conservato gelosamente dal vecchio cugino stempiato e panzuto, o un pugno di Mp3 recuperati sul web, non bisognerebbe trascorrere altro tempo senza le scudisciate hard’n’heavy della band romana dei fratelli Bianco; basta andare oltre aspetti (stavolta) secondari come una qualità audio ovviamente non brillante e fregarsene beatamente se le informazioni reperibili in giro siano più o meno lacunose; io stesso potrei proferire emerite stronzate citando titoli sbagliati ma le canzoni, quelle non mentono, entrano prepotenti nelle orecchie sebbene vittime di un fato che non ha permesso di vederle alla luce al massimo del loro potenziale. Totenkopfer Band, Dreamer, Running Like Hell, l’inno Rafforce Commando o anche la stessa title track vi spingeranno a smadonnare fragorosamente ogni volta che penserete al numero impressionante di ristampe che hanno invaso mercato e scaffali mentre le bobine di Gates Of Fortune restano tali.

corner al minuto 89

THEE S.T.P. – Troublemakers #1 (2002)
O famo strano?’ No, famolo sudicio, diretto e senza fronzoli, come il rock’n’roll di una delle più coinvolgenti live band italiane che ricordi, una formula brillantemente incastonata nei solchi di questo disco. Non so quante volte tra me e me abbia canticchiato Lazy Liza in attesa di un nuovo disco di Thee S.T.P. che riuscii finalmente ad artigliare alla fine di un concerto nell’ambito di uno tra mille rassegne e raduni festival italici ormai morti e sepolti: dal loro furgoncino/rivendita i ragazzi dissero che non avrei rimpianto i miei soldi… Beh, da quel momento non c’è stato un solo minuto nello scorso decennio in cui abbia potuto dar loro torto. Ai tempi del “Mi fai una cassettina con qualche brano per vedere com’è?” avrei buttato dentro James Cagney, Lessons e una fantastica Good Clean Fun con l’assoluta certezza di dover riversare il resto della scaletta e magari anche i dischi precedenti non più tardi del giorno dopo. Onestamente per il successivo Paradise & Saints la scintilla non sarebbe stata la stessa e con parsimonia anche maggiore avrei ascoltato Success Through Propaganda ma tra le pieghe di Troublemakers #1 continua imperterrita a infuriare una sequenza entusiasmante di frustate hi-octane rockarolla che in dieci anni non si è minimamente mitigata. See ya in a town called Misery!

NEGAZIONE – 100% (1990)
Senza punti fermi non si campa; io ne ho qualcuno a cui tengo particolarmente: penso alla serie tv Sanford & Son, al gruppo T.N.T. (quello del Conte Oliver, non di Ronnie LeTekro), al corner perfetto di Leovegildo Lins da Gama detto Júnior con inzuccata vincente di Aldo Serena al 89mo del derby della Mole del novembre ‘84 e ovviamente a 100% dei Negazione. Quello che per qualcuno sarà il disco di Brucia Di Vita (che già di suo basterebbe) per il sottoscritto è anche quello di Fall Apart An’ Tear It Down, Back To My Friends, Parole, Yesterday Pain e via via tutte le altre, compresa I Think I See The Light, cover di Cat Stevens disponibile solo nella versione cd. Per quanto abbia amato e magnificato oggetti di culto hardcore come Lo Spirito Continua e Little Dreamer, 100% ha conquistato il posto più comodo all’interno del cuore ma ciò che più conta ha fatto guadagnare ai torinesi la vetrina del Monsters of Rock di Modena, magari inconsueta per chi metallaro non si è mai sentito ed era abituato alle assi malferme dei centri sociali (ma anche del glorioso CBGB’s). La coerente e orgogliosa uscita di scena datata 1992 è stata l’ennesima dimostrazione di  forte idiosincrasia verso il vocabolo compromesso. Nel dubbio, andate pure a chiedere in giro quale fosse la rock band italiana più rispettata all’estero in quegli anni…

STRANA OFFICINA – Ritual (1986)
Tra il 1985 e il 1986 ero solito ascoltare Orgasmatron, che non era solo un album dei Motorhead ma anche un programma radiofonico che Rai Stereodrome trasmetteva una volta a settimana (mi pare di lunedì), condotto da Rupert poi affiancato da Cristiano Gentili. Sessanta minuti di hard’n’heavy distribuiti tra classici e novità, un breve spazio news (dove fu anche annunciata l’uscita in edicola di una nuova rivista, Metal Shock) e per un periodo un bel ciclo di interviste alle band italiane. Intervennero tra gli altri Skanners, Unreal Terror, gli Astaroth appena ridotti a quartetto e in procinto di partire per Los Angeles ma, senza nulla togliere a nessuno, l’intervento in diretta della Strana sarebbe stato il più coinvolgente per schiettezza, disincanto e simpatia. La band presentava il nuovo ep del quale furono trasmessi i tre quarti, escludendo curiosamente Metal Brigade, destinata poi a diventare uno degli inni del gruppo; già al primo ascolto ero irrimediabilmente schiavo di Gamblin’ Man, impetuosa cavalcata metal interrotta soltanto dal rumore dei dati a fine traccia. Intendiamoci, la Strana si ama in toto, Rising To The Call è entrato a piedi uniti nella mia top 10 del 2010 ma la citazione di Ritual va inquadrata in questo contesto specifico e nella favolosa atmosfera di scoperta e novità di quell’irripetibile periodo. (Manuel Fiorelli)



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