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Due modi opposti di pensare il thrash metal: HAVOK e WARBRINGER

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Havok

A inizio millennio il thrash metal quasi m’insospettì nell’intraprendere la via del ritorno alle origini. La strada da percorrere era ancora molto lunga, ripida e piena d’ostacoli, ma il processo era ben avviato. Avevo per le mani un disco di questi giovincelli spagnoli, i Legen Beltza, e pensai che qualcuno si stesse finalmente occupando del thrash senza passare per le derive estreme affrontate dai vari Dekapitator, Nocturnal Breed o Aura Noir. O nel peggiore dei casi da Eric Peterson. Il loro approccio era in tutto e per tutto classico, e sulle prime mi vennero in mente proprio i Testament. Di lì a poco, come funghi, Municipal Waste, Toxic Holocaust, Lich King e tutti quanti gli altri: fu un’invasione e probabilmente anche uno dei motivi per i quali sarei tornato a interessarmi al metal, “a gradini”, esattamente come una volta. Ovvero interessandomi alle uscite da vetrina come Surgical Steel dei Carcass e, in parallelo, a gente sconosciuta e intenta a muovere i primi passi verso una carriera tutta da decifrare.

Seguire un gruppo fin dalle sue prime pubblicazioni è una soddisfazione enorme, aiuta a comprendere meglio ogni suo album successivo e in un certo senso crea una specie di legame con esso. Ad esempio ho approfondito i Gama Bomb quando erano già alla quarta o quinta uscita, e non potrei mai affermare d’essermeli goduti fino in fondo.

Vi ho detto che i Legen Beltza mi ricordarono i Testament, ma ciò non significa che non avessero una loro personalità. Il retro-thrash transita obbligatoriamente per i nomi grossi degli anni Ottanta, che siano Metallica o Anthrax, le celebrità tedesche, il techno-thrash o lo speed metal. Per forza di cose, comporre e produrre un album thrash alla maniera degli anni Ottanta invocherà nomi più o meno comodi. Se questo non accade allora vuol dire che l’hai combinata grossa, o più difficilmente, che hai inventato qualcosa di nuovo.

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Quando ero pischello pranzavo con Italia Uno sul televisore e il programma Grand Prix a tutto volume. Nei servizi sul motociclismo c’era sempre questa musichetta basata su uno o due riff heavy metal, generalmente una banalizzazione dei pattern del Black Album sommata a un fastidiosissimo assolo occupante i due terzi della durata. Ogni speciale sulle moto aveva la sua musichetta, inedita ma generalmente uguale a tutte le altre. Rispecchiava l’idea che quello stronzo d’un compositore doveva avere dell’heavy metal: un branco di ignobili motociclisti intenti a invadere un supermercato per farsi divorare dagli zombi che lo popolano, e che, giusto un mese prima dell’Apocalisse, organizzavano motoraduni etilici per confrontarsi le marmitte. L’heavy metal ideato da quel genio visionario non passava per la pesantezza dei Pantera né per il purismo priestiano, ma per il farmaco generico contenente il medesimo principio attivo di Sad but True, seppur con il metronomo accelerato, i suoni sintetici in netto anticipo su Hatebreeder e una sezione solista che definirei oltraggiosa per le orecchie.

Non si sarebbe mai potuto banalizzare il thrash metal nella medesima maniera, almeno, non nel mio immaginario.

Penso che il thrash debba trasudare attitudine e sprigionare energia in ogni direzione. Se non c’è irruenza allora non sta funzionando. È facile prendere i riffoni del (fondamentale) Black Album e farne una merdaccia da televisione, identificando l’heavy metal in roba sì televisiva, ma sotto sotto sufficientemente potente da non essere catalogata altrimenti. Il thrash metal non lo potevi minimizzare alla stessa maniera, non sarebbe stato più lui.

Il problema esce allo scoperto con nomi del calibro di Bonded by Blood e Suicidal Angels. Gente come questa è riuscita a far suonare il thrash metal in una maniera talmente “scarica” da non trasmettermi emozioni e nemmeno annoiarmi, perché non dispongono di sufficienti elementi – personali o derivativi – nei quali io riesca a identificarli. E allora, e qui entro nello specifico dei Warbringer, ecco che occorre il metal estremo pur di risaltare un elemento che sia uno: in Weapons of Tomorrow troviamo i blast-beat, l’introduzione in screaming a uno dei brani (non a caso uno dei migliori, Defiance of Fate) e talvolta un vago retrogusto di black metal, che, anziché causarvi svariate setticemie agli organi interni, come nel caso dei Dragonlord, vi desterà temporaneamente dal torpore.

 

Il thrash metal, pur girando alla larga da questi, ha un vitale bisogno di riferirsi ai maestri degli anni Ottanta se le sue nuove leve vorranno cavare qualche ragno dal buco: questa è la sensazione che sto consolidando, anno dopo anno, dopo essermi incuriosito e successivamente appassionato al retro-thrash dei giorni d’oggi. Altrimenti non funziona, non lascia il segno, perché se vuoi vivere di vecchia scuola non potrai mai azzerare tutto e pretendere dei risultati.

Nel caso i Warbringer siano già pane per i vostri denti, fiondatevi pure su Weapons of Tomorrow. È senza alcun dubbio il loro migliore album, l’unico che, al termine del primo ascolto, ho preteso di approfondire ancora come se mi fossi accorto che qualcosina in più, qua dentro, effettivamente c’era.

Caschiamo da tutt’altra parte con gli Havok, anche se il livello del loro nuovo full length, dall’insospettabile titolo V, è molto simile a quello dei Warbringer. Eppure mi pare che V sia svariati gradini sopra a Weapons of Tomorrow. E non ho dubbi che rimetterò su l’album degli Havok, se un giorno dovessi sceglierne uno.

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La differenza sta tutta nel concetto alla base dell’articolo: gli Havok avranno anche tutti i difetti del mondo, non sono dei mostri nello scrivere canzoni memorabili e hanno un cantante talmente fastidioso che potrebbe stare negli Arch Enemy. Eppure fanno dello stile, dell’attitudine e del relativo citazionismo un’arma nucleare. Perdono tempo dietro alle composizioni e le arrangiano con perizia, motivo per cui troverai sempre quei guizzi che ti faranno assaporare con piacere un qualcosa di non esattamente eclatante. Rifletteteci un attimo: quanto thrash metal americano degli anni Ottanta era esattamente così? Siamo impazziti per dischetti nella media che avevano soltanto il mood giusto, il cantante schizzato che ci ricordava i Vio-lence o le chitarre tecniche e in perfetta sintonia come solo dalle parti dei migliori Megadeth potevamo sentirne. Siamo impazziti per album privi d’una Leper Messiah, o d’una In my Darkest Hour, per registrazioni in cui niente valeva l’esatta metà di quei celeberrimi titoli. Eppure diventavamo matti: nel thrash metal il mood, lo stile, il “come”, contano più di molte altre cose. In certi casi più delle canzoni stesse.

Non pretendo che ogni gruppo spari fuori roba epocale, ma gli Havok hanno davvero pochi difetti strutturali, e come si suona il thrash metal l’hanno capito benissimo. Avranno una batteria un pelino troppo complessa e tecnica per gli standard del genere, quella voce annichilente e qualche album non esattamente indimenticabile come lo era stato Conformicide pochi anni fa. Ma ci sanno fare, hanno compreso come si ricrea uno stile vincente e gli stanno andando incontro. I Warbringer avrebbero pure più talento, sì, ma per quello che mi riguarda suonano un thrash metal talmente banalizzato, e privo d’attributi, che dopo quindici anni di carriera si può soltanto sperare vorranno spostarlo in territori più distanti possibile da quelli del retro-thrash. Altrimenti faranno la medesima fine dei Suicidal Angels, bravi interpreti, ma decisamente sterili. (Marco Belardi)

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Warbringer


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