Questo articolo nasce da una conversazione con Gabriele Traversa, nel corso della quale avevo tentato di capire se il suo interessamento per i gruppi metal di carattere sanremese avesse, o meno, origini morbose. Nel domandargli dov’è che scovasse quegli innati talenti, ricevetti per risposta: “Napalm Records, è una specie di IperCoop”.
Verso la fine del 2019 mi ero prefissato di scrivere un po’ di pezzi su alcune etichette discografiche, approfondendone le origini e, in particolar modo, andando a indagare su quel processo che ha portato molte di loro a investire su un determinato settore per più lustri, mirando infine a una sorta di buttadentro generale. Non giriamoci intorno, il concetto di base è la Nuclear Blast.
Napalm Records era tuttavia perfetta per un primo articolo. Nonostante il palese divergere dalle sue origini, essa ha mantenuto – ben più di altre etichette – una caratterizzazione riconoscibile e costante nel tempo. In azienda si ricercano con ostinatezza due cose: che nel tuo gruppo canti una donna e che facciate un’innocente caciara da pub tedesco, e cronologicamente il gentil sesso è arrivato per primo.

Abigor
La Napalm però è austriaca e non tedesca, come precisava, alla stazione di Graz, Heinrich Harrer nel romanzatissimo Sette Anni in Tibet. Come altre etichette europee nate in quel periodo, Napalm Records ebbe un discreto occhio per il metal estremo, mettendo sotto contratto una serie di gruppi i cui risultati sarebbero stati piuttosto alterni. Si cominciò osservando nel vicinato, individuando così gli Abigor. Non so cosa ne pensiate voi degli Abigor, ma personalmente ritengo sia uno di quei gruppi che ho sempre detto d’apprezzare, senza mai averne riascoltato per la seconda volta una qualunque pubblicazione. Abigor a parte, per Napalm Records firmarono anche i Summoning, e si restò in tema, dato che condividevano con essi la figura di Silenius. E poi si guardò sempre più a nord, perché è in Scandinavia che girava la roba più interessante di tutto il panorama.
Con Nord del 1996 videro la luce i Setherial, con quello che è ad oggi il loro album che preferisco. Spostandoci dalla Svezia alla Norvegia, Einherjer e Morgul completavano un roster dal carattere sempre più deciso. Un altro debutto pazzesco fu quello di Falkenbach di Vratyas Vakyas, dalla Germania, e grossomodo nel 1998 a firma Vintersorg si sarebbe conclusa la prima ed entusiasmante fase: quella del black metal che si risollevava dal ciclone Euronymous/Vikernes, andando a ricercare nuove vie da percorrere attraverso l’epicità, la maestosità delle atmosfere, e, molto spesso, l’aiuto di una marcata vena folk. Tutto molto bello, seppur in apparenza.

Vintersorg
“No!”
Pensate un po’, ho conosciuto Napalm Records proprio nel 1998 con Vintersorg. All’epoca ero totalmente all’oscuro del sentiero già percorso dall’etichetta austriaca, e così, a forza di indagare (sinonimo di girare innumerevoli cd sul retro, nell’atto di ricercarne il logo), sarei risalito agli Abigor e tutto quanto il resto, facendomi così un’opinione. Da quel punto Napalm Records non fu più la stessa, poiché in lei irruppe una cosa denominata gothic metal.
A conti fatti attribuisco la colpa di tutto questo nientemeno che ai Dismal Euphony.
Soria Moria Slott era un prodotto Napalm Records in tutto e per tutto: black metal con la particolarità d’esser caratteristico e non entro i ranghi di Nocturno Culto e Fenriz. Di base avevamo sì il black metal, ma, come accaduto a casa nostra con gli Evol, i Dismal Euphony fecero ampio ausilio di voci femminili. In seguito a quel titolo, ogni pubblicazione firmata dai norvegesi registrò una lenta e inesorabile discesa negli abissi del gothic metal, al punto di mettere le linee vocali femminili al centro dell’attenzione e d’intitolare un album Python Zero. Il loro gothic metal si autocertificava tale in quanto rispettoso di pochi ma fondamentali criteri: vi cantava una donna, non era facilmente catalogabile come doom, e nemmeno come black metal, e i recensori dell’epoca erano tutti in evidente imbarazzo poiché negli anni Novanta si dovevano inventare nuove etichette da affibbiare prima possibile a qualcuno. Inoltre il gothic metal di quei tempi nulla aveva in comune con quello dei Katatonia, ossia, la perfetta reinterpretazione del gothic rock in ambiti metallari attraverso un titolo come Discouraged Ones.
Voci femminili, tastiere e scazzo generale da vendere un tanto al chilo: era il gothic metal di Napalm Records e presto sarebbe entrato nelle vostre case.

Vibeke Stene (Tristania)
La cosa prese a espandersi a macchia d’olio, gli ci vollero uno o due anni. Prima fu il turno dei Tristania, con Widow’s Weeds e Beyond the Veil. Nomino quei due perché, in seguito ad essi, credo che i Tristania non abbiano avuto granché da dire. Nemmeno con World of Glass, che a molti piacque. Nella fattispecie Beyond the Veil fu l’album capace più di ogni altro di rappresentare il gothic metal per ciò che esso era divenuto: ne comprendeva ogni cliché acquisito, prescindeva dalla definizione scaturita dalla metamorfosi dei Katatonia e in un certo senso formava una cosa – almeno all’apparenza – inedita.
Toccò anche ai Lacrimas Profundere, probabilmente il gruppo più gothic metal – nel senso classico del termine – che Napalm Records avesse mai messo sotto contratto. Sentitevi Burning: A Wish, istiga a buttarsi dalla finestra più vicina ma è semplicemente meraviglioso. Poi fu il turno dei Trail of Tears, dei The Sins of Thy Beloved e di un sacco d’altra gente. Tutto in rapida successione.
Di tanto in tanto fece timidamente capolino il metal estremo: con i Belphegor, anch’essi austriaci, e con gli Enthroned. Come due pesci fuor d’acqua. In linea di massima si guardò più a rimescoloni paraculo come gli Hollenthon che al metal estremo vero e proprio.

Korpiklaani
Ci stiamo avvicinando alla terza e penultima fase, forse la più importante. Il colpevole stavolta è Jonne Jarvela, il finlandese degli Shaman. Quest’ultimo formò i Korpiklaani, e in Austria, un paese statisticamente pieno di birra, ai piani alti sembrarono gradire.
A quel punto ecco che le donne insorsero, riempiendo le piazze d’ogni cittadella della Stiria di manifesti e cori che accusavano Napalm Records d’ogni nefandezza immaginabile. Inveirono con tutte le loro forze, alleate e non più in preda ai tipici bisticci.
“Ridateci la nostra visibilità! Ridateci il nostro posto! Ci avete illuse! Non è vero che i Tristania sono peggiorati così tanto! Stanno in piedi anche senza Morten Veland!”
Le tapparelle degli uffici di Napalm Records sembravano tutte chiuse, ma dall’interno qualcuno sbirciava e meditava sul da farsi. Si stabilì di tirar dritto, basta roba depressa e sinfonica, basta con i Leaves’ Eyes.

Alestorm
“È il tempo della caciara generale: fuori le pinte!”
Gli austriaci diedero prova delle loro conoscenze tattiche e militaresche, e lo fecero gettando un’esca: misero sotto contratto i moderni baluardi del gothic metal, i Moonspell, che in sostanza si segnalavano in calo dai tempi di The Antidote. In parallelo furono racimolati i gruppi più cazzoni del pianeta: innanzitutto i Grave Digger – “solo il suono d’una cornamusa può coprire i conati delle sbronze da birra!” – servivano con urgenza i cori, e inoltre pure loro erano dei veterani, ancor più dei portoghesi. Ebbero molto culo, i Grave Digger: il primo album su Napalm Records uscì fuori ispirato e deciso, a titolo Ballads of a Hangman. Dopodiché fu dura, anzi durissima, continuare a sopportarli.
Si arrivò così agli Alestorm. Come nel caso dei Korpiklaani, anche gli Alestorm, oggigiorno, mi procurano un relativo ribrezzo, rientrando di diritto in una categoria di metal da bollino verde che onestamente non ho mai compreso né voluto approfondire. E vi includo i Turisas (su Century Media) e relativa parentela di primo e inferiore grado.
“Volete fare del trambusto senza che giri uno spinello?”

Mina Caputo (Life Of Agony)
“Ci sono i Monster Magnet e i Karma To Burn in gita in Austria, stanno proprio qua sotto. Li facciamo salire per un caffè corretto?”. La risultante fu Last Patrol, uno dei miei album preferiti degli anni Dieci, una roba su cui avrei voluto leggere Man’s Ruin, mentre quest’ultima etichetta risultava già preistoria.
L’esperimento Grave Digger suggeriva piuttosto d’insistere sul power metal caciarone, mentre un’orda di femministe capitanate da Mina Caputo dei Life Of Agony urlava e strideva a pochi passi dai laboriosi uffici della Napalm Records. Furono ancora le autorità a cantar vittoria: si misero sotto contratto i Powerwolf, in sostanza la versione non guerrafondaia ma orrorifica dei Sabaton. In altre parole, un gruppo che riesco a tenere su per cinque, massimo dieci minuti, dopodiché inizio automaticamente a maledire il cielo. Firmarono pure gli Hammerfall, fu il degenero totale. Nel pensare che si fosse toccato il fondo fui un illuso: il peggio stava giusto per venire.
Un piccolo esercizio didattico: ho segnato in grassetto i nomi delle band: scorrete per un attimo su, leggete da cosa siamo partiti e ritornate fin qui senza aver bestemmiato nemmeno una volta. Non è questione di preferire il black metal al power metal, o i gruppi che non fanno quattrini ai gruppi che ne raccolgono
A quel punto Mina Caputo, non si sa con cosa, riesce a sfondare il portone.

Xandria
Siamo ai giorni d’oggi: Mina Caputo irrompe, porta dentro gli Xandria di Dianne van Giersbergen assieme ai Sirenia di Morten Veland (ex Tristania), e dissotterra gli W.A.S.P. poiché ritiene di poter andare d’accordo con quel che rimane di Blackie Lawless.
Quello che le femministe rinvengono all’interno dello stabilimento è un’orgia senza criterio di stili musicali, di uffici impegnati a giocare a Clash of Clans sul cellulare e segretarie prese a rispondere agli spazientiti Candlemass, assicurando loro che la situazione è assolutamente sotto controllo e che non debbono vergognarsi di starsene lì dentro. Ci sono pure i DevilDriver di Dez Fafara su Napalm Records, insomma, c’è il tipo dei Coal Chamber.
Mina Caputo si siede a una scrivania e guarda in faccia il capo, mentre, da sotto la giacca, gli fa intendere che lo sta puntando con qualcosa che potrebbe benissimo essere una pistola di grosso calibro. Vince con la minaccia dell’arma e di proposte ora irrifiutabili, fra cui quella di pubblicare il nuovo dei Life Of Agony esattamente su Napalm Records. Sarà il turno di A Place Where There’s No Pain, il titolo più petaloso e i contenuti più improponibili dagli autori d’un mezzo colosso degli anni Novanta come River Runs Red.

Delain
A quel punto, sotto la minaccia di un’arma che probabilmente non c’era, o era ben altro, Napalm Records si occuperà dei Temperance e dei Delain e darà un sacco di lavoro a Gabriele Traversa. E tutto questo ebbe inizio con gli Abigor, col voler variare sul tema di un black metal che già negli anni di Nemesis Divina (a proposito, indovinate per chi è uscito l’ultimo dei Satyricon) ci mostrava moltissimi limiti e una longevità in netto calo. Tutto questo ebbe inizio da un progetto ben preciso e da idee limpide, e finì in preda alla ruffianeria e alla volontà di sommare, alle linee guida Nuclear Blast, una mancanza di pudore ancor più marcata della loro. Ora l’assalto agli Amaranthe, ultimo anello mancante per cambiare, una volta per tutte, la definizione di fossa biologica. (Marco Belardi)