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Dalle fiere del disco a Bandcamp, storia di una dipendenza

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crisis

In gioventù mi tenni alla larga dal vinile come se si trattasse d’eroina. Ero, in compenso, uno sputtanatore terminale di paghette settimanali; un gesto piuttosto ingrato, dato che comportava la trasformazione dei soldi ricevuti ogni sabato (senza fare niente in cambio, aggiungo) in pinte di birra al pub oppure in album dei Crisis raccattati alle fiere. Il lunedì piangevo sistematicamente miseria, ma avevo pur sempre collocato roba come Deathshead Extermination sullo scaffale, nella posizione elevata e luminosa che riservavo ai nuovi arrivi. Dopodiché cominciai a lavorare, il che aggravò le cose.

La faccenda si fece preoccupante. Prendevo lo scooter e mi avventuravo per quarantacinque minuti lungo le colline del Pacciani, per raggiungere l’Autostrada e fare il caffè a milanesi come Bargone, tutti intenti a raggiungere Roma per affari o per visitare un Duomo differente dal loro. Stipendio alla mano, capii subito che avrei sputtanato molti più soldi di prima. Le fiere del disco si moltiplicavano, e il cuore pompava sangue e adrenalina dappertutto mentre su quei tavoli imbanditi individuavo Coping With the Urban Coyote degli Unida un attimo prima del bifolco al mio fianco.

unida

Ero come un drogato, con la differenza che gli amici non se ne accorgevano. Ci sono bar che non riescono a vendere le paste del giorno prima, con la crema pasticcera all’interno che è già rancida, e allora installano qualche slot machine e prendono a selezionare la clientela. Gli ultimi irriducibili del Crodino spariscono di colpo, poiché detestano il suono ossessivo di quelle macchinette infernali. Il loro posto viene preso da questi elementi solitari e dallo sguardo assente, assai più fattoni di tutto Rainier Fog, col cervello impegnato a osservare il posizionamento degli sgabelli per dedurne se il cash uscirà prima da Himalayan Adventures, da Treasure of the Witch o da un altro cassone pieno di led e spiccioli, intitolato di merda e con su appiccicato il bollino che ne contrassegna la messa in regola.

Ci sono quelli che si bucano di eroina, speedball o di qualunque altra cosa gli capiti a tiro in tempi di magra. In fin dei conti è con alcuni di loro che mi sono avvicinato al rock, ma io mi bucavo di dischi. Avevo una cameretta lunga quattro metri e larga tre, arredatissima e dunque per nulla spaziosa. Su una parete c’era questo scaffale pieno di piccoli souvenir ricevuti da molti angoli della Toscana, tipo Monte Amiata o Castiglione della Pescaia. C’era anche la foto della mia vecchia gatta, Briciola, un baule di dieci chili che mangiava qualunque cosa gli capitasse a tiro. Scomparì tutto. Lo scaffale iniziò ad assomigliare a una visuale aerea dell’agglomerato urbano di Prato, dove le famiglie autoctone gettavano la spugna per trasferirsi a Pieve a Nievole e al loro posto comparivano i cinesi, i quali avrebbero aperto all’istante un’attività. Briciola si trasferì di fianco al mio letto, e da lì poteva osservare come al suo posto fosse comparsa la scarna discografia dei Death Angel, affiancata però dai The Organization. Infine misi tutto in ordine alfabetico per non perderci più la testa: il quartiere si era assettato per un’ultima volta, sebbene stesse assumendo le sembianze di una dannata metropoli. Mancavano solo i fumi di scarico e i ratti nei vicoli, anche se la cassetta originale di Reload era la similitudine più plausibile.

A una fiera come tante feci bottino pieno: None Shall Defy degli Infernal Majesty e Paradise Lost dei Cirith Ungol nella stessa settimana in cui Ebay mi aveva inviato il raro debutto degli australiani Hobbs Angel of Death. Nello stesso periodo mi arrivò pure il meraviglioso Technocracy dei Corrosion, tutto scassato dai corrieri o dal postino. Ero all’apice. Inoltre frequentavo Data Records in centro a Firenze, un negozio di vinili ove regolarmente sfogliavo vecchie riviste per leggervi che cosa dichiarassero i Metallica negli anni del Black Album, o gli Iron Maiden dopo aver preso Nicko alla batteria. Non avevo vissuto quegli anni e pretendevo di saperne di più. Ero lì per le riviste, di cd ce ne erano pochissimi – il che mi faceva sentire potenzialmente al sicuro – ma l’occhio mi cadeva sempre più sui vinili. Ogni ripiano ne era colmo, dai Vicious Rumors ai semisconosciuti Harppia, brasiliani. Non gli mancava niente.

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Le persone appendono in stanza la riproduzione di un Cézanne, la foto ricordo alla pineta di Baratti oppure il calendario di Alessia Merz. Esibii a lungo solo l’ultimo di questi simulacri, e nell’attuale redazione non sono stato il solo. Probabilmente una generazione intera ce l’aveva e si mantenne magra per mezzo di esso. Alla Data Records ebbi l’idea di prendere uno o due vinili per sistemarli sulla parete Merz a scopo puramente decorativo, che ne so, nell’intento di esaltare un qualcosa di significativo ed embrionale. Kill’em All andava benissimo, immagine minimale e di impatto. Master of Reality pure. Sarebbe stato come farsi una pera per provare: entro una settimana avrei acquistato un oggetto più grande del lettore Aiwa per musicassette, e anche del Sony in cui mettevo i miei compact disc. Ci sarebbero entrati i vinili: una bella siringa al posto del filtro da mettere davanti a un banale cannone. Avrei iniziato a farmi senza soluzione di continuità, sarei tornato alla Data Records per svaligiarla, e, successivamente, avrei proposto al direttore qualche ora di straordinari, lì, alla stazione in cui Milano e Roma facevano riprender fiato ai loro migliori yuppie a suon di brioche scongelate. Ma non acquistai immediatamente quei vinili, perché dentro di me albergava ancora un lato relativamente ragionevole. Tornai a casa e rimuginai a lungo, e mi portai dietro un paio di vecchissimi Metal Shock per poterli studiare con attenzione. A un certo punto una voce femminile mi interruppe. Era la Merz, sul muro verticale:

MA TE LA VUOI FARE UNA SEGA?

Fu come una schiarita in cielo subito dopo la tormenta. Stabilii tassativamente di non prendere alcun vinile, e seppi resistere all’inumana tentazione nel momento che ne preannunciava il totale sopravvento. Continuai ad acquistare i pratici cd, i quali si mischiavano ai promo e agli originali che arrivavano per la webzine MetalManiacs, rimasta attiva sino all’estate del 2006 con una grafica che rasentava i canoni imposti da MS-DOS. Camera mia assomigliava a un negozio dall’unico cliente in condizioni disastrose. Sguardo assente su un booklet, proprio come quelli delle slot.

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Ma il giorno in cui comprai Christ Illusion si ruppe qualcosa. Ricordo che eravamo in pieno agosto, il sito stava chiudendo, con le news aggiornate una volta ogni dieci giorni e sempre meno articoli da pubblicare. Il paradosso: io con zero voglia di ascoltare inediti e scrivere. Tenni tutto in balia della polvere per qualche tempo, e lentamente smisi di interessarmi a cosa bollisse nella pentola di casa Century Media. Scelsi di darci un taglio nel modo più forzato possibile, da un giorno all’altro. Al metal avevo dedicato un tempo (e denaro) che non riuscivo minimamente a quantificare. Era come il virus dei collezionisti, quello che porta le persone a spendere un patrimonio per un artefatto Mox delle Magic The Gathering: drogati, dappertutto. Che il tuo nome sia Warhammer, Minerali e gemme o l’heavy metal in persona, per chiunque cada nella tua ragnatela saranno cazzi davvero amari.

Ricordo bene un altro dettaglio di quei tempi. Ero particolarmente affezionato al libretto dei cd: avevano le dimensioni ideali e un sacco di informazioni al loro interno, tranne quando i Metallica facevano i cazzoni e scarabocchiavano i testi col Tratto Pen. A un certo punto fu come se del libretto non m’importasse più nulla, perché quello che dovevo metabolizzare l’avevo metabolizzato, e del booklet delle nuove uscite non mi fregava granché. Ci fu un periodo storico da cui pretendevo quel genere d’informazioni, e la piega generale che la scena intera stava prendendo non mi aiutava a restare altrettanto curioso. Avevo concluso un ciclo della mia vita, e sebbene oggi abbia ripreso a scrivere con una costanza che spesso fa preoccupare il Carrozzi, nulla potrà essere paragonabile ad allora. Per mia fortuna.

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Sono passato in tutto e per tutto al digitale e so benissimo che se mi riazzardassi a comprare l’ultimo Blood Incantation rischierei di fottermi cervello e portafoglio come da principio. Ho stabilito di lasciare le cose così come stanno, ovvero affogate nella pratica freddezza di un account Spotify. Ho lentamente ripreso ad andare a qualche concerto, talvolta con la scusa della fotografia, ed altre, giusto per bere un paio di birre e godermi la musica che amo. Inoltre convivo a forza col giudizio del militante metallaro di stampo bolscevico, il quale è solito affermare, con voce grondante cameratismo:

– che è opportuno contribuire alla scena a oltranza, il passato è passato!, brandire subito la vanga e portare in camera altri dischi ad ardere.

– che non si deve mai arretrare al sopraggiungere d’un evento 1:00 AM fino all’alba, poiché il lavoro al mattino seguente non rende liberi.

– che una volta recluso in una casa di riposo dai cari che non sopportano le tue fughe notturne dall’appartamento, sarà lì che dovrai far pervenire le ultime novità del catalogo Unique Leader.

Non biasimo in tutto e per tutto il bolscevismo metallaro ai limiti dell’appartenenza sindacale. Ma che io abbia “dato” o non dato a sufficienza – a patto che questa soglia esista – ho già avuto un passato da ventenne che fa il cazzo che gli pare senza recare conseguenze all’ambito personale. E quel passato è passato.

Ho tuttavia un nemico, BandCamp. Con lui è la stessa e identica cosa di allora. BandCamp infogna, logora, lavora ai fianchi. Ne sto alla larga finché posso, ma poi mi capitano sotto tiro gli Hazzerd, canadesi, e ho paura. Se entro in BandCamp e inizio a ispezionare l’ispezionabile farò una brutta fine, e in più c’è Ciccio Russo che provoca e tira fuori a sua volta questi crucchi, i Traitor, che hanno una combo di chitarre e basso vecchia scuola e una voce che ricorda vagamente il Petrozza dei tempi che furono. Non sono gli Assassin o i Bonded che ti arrivano comunque nella lista delle uscite mensili di Loudwire, o nei suggerimenti di Google. Questa è la roba che sgorga da BandCamp, una fontana piena di gente spesso priva della benché minima personalità e fortunata di trovarsi nel movimento giusto al momento giusto: e quella roba, per una serie di motivi che non sto a elencarvi perché già li conoscerete, sono e sarò sempre tentato di comprarla tutta. (Marco Belardi)

 


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