Ogni volta che Traversa accende il computer e si mette a digitare, finisco per apprendere nuove cose sui lati oscuri del metallo contemporaneo, ossia su tutto ciò che corrisponde all’esatto contrario della mia idea di heavy metal. Meticolosamente lui studia e analizza questo genere di aberrazioni e le riporta alla luce, pur essendo nefandezze che meriterebbero di rimaner celate in profondità, per proteggerci.
Oggi ero in cucina, avevo appena terminato le mie penne al sugo di trombette da morto e stavo riflettendo su quale album dei Manowar rimettere su. Pensieri del genere mi portano sempre nel solito vicolo cieco: preferisco i primi quattro, ma puntualmente riascolto i quattro che li seguirono. Agli esordi erano ispirati e perlopiù indirizzati a un pubblico settoriale, e quel che trasudava dall’ignobile copertina di Into Glory Ride era degno di trovare un riscontro in musica. Non sono mai andato pazzo per quel gruppo, ma se dici una cosa del genere e poi ne conosci a menadito una trentina di canzoni vuol dire che sei automaticamente in torto. Merito della ruffianeria: l’ingrediente che nell’heavy metal è sempre stato presente e che noi metallari abbiamo silenziosamente preteso, senza mai ammetterlo apertamente.
I Manowar di Fighting the World e della discografia che ne fuoriuscì erano tamarri, spregiudicati e autentici cecchini della canzone. Li ho presi per il culo per una vita, eppure sono andato a vederli due volte senza riuscire a staccare occhi e orecchie dal palco per un solo minuto. Vivevano l’heavy metal in parallelo alla brutalizzazione del medesimo per mezzo di MTV, con i mostri sacri del mainstream che ostentavano tutta la loro predisposizione – reale o presunta – verso il cosiddetto “salto”. Per un Alice Cooper che azzeccava Constrictor, un Ozzy Osbourne metteva in fila due album costituiti da altrettanti ottimi singoli e niente di più, con Diary of a Madman che sembrava un lontano ricordo. Erano gli anni dei capelli cotonati, dei synth e dei videoclip in posa, gli anni della poca sostanza in cui ai Manowar non servì ricorrere a tutto questo battage mediatico. Eppure, esattamente come gli altri, anche loro avevano fatto un evidente passo indietro rispetto a Sign of the Hammer, il quale, non dimentichiamolo, segnò la loro definitiva consacrazione a livello mondiale. Ai Manowar voglio sostanzialmente bene, ne ascolto un album ogni tre anni e non attendo impaziente il prossimo disco, l’ennesimo concerto o uno di quei comizi alla Beppe Grillo in cui Joey racconta cose e Bargone non solo ascolta, ci fa pure il report: le puttanate più insostenibili dei Manowar non risalgono agli anni della loro ampia commercializzazione, in cui un album era seguito da tour lunghi due o tre anni. Risalgono ai tempi morti emersi da Louder Than Hell in poi, quei tempi in cui Joey, l’imprenditore, tra un disco e l’altro, ebbe il modo di pensare a cosa altro fare.
In un periodo a cavallo tra 1997 e 1998 ero parte di una congrega di matti fissati con Ultima Online e qualche gioco di ruolo da tavolo, e non riuscivo a far piacere niente agli altri. Gli Anthrax carini, ma giusto un paio di canzoni, i Megadeth belle chitarre, gli Slayer madonna che casino. I Metallica, tuttavia, erano dei venduti pure per loro che non conoscevano neanche Whiplash, e, se avessero sconfinato nel death metal avrebbero di sicuro chiamato un prete per disinfestare l’appartamento. Le loro esigenze erano le stesse del metallaro a cui si rivolge la musica narrata dal Traversa: divertimento, fare da sottofondo a qualunque cosa tu stia facendo e non più fungere da credo, stato mentale o scarica adrenalinica. Ecco che andarono matti per i Finntroll delle prime pubblicazioni: quella roba arrivava precisa per loro, col suo dilagante carico di ruffianeria.

Trombette da morto – Ph: Marco Belardi
In rigetto ai Finntroll, ho sempre ritenuto l’heavy metal un qualcosa che non può prescindere completamente dalla cattiveria e dall’aggressività, e che ha il dovere d’incarnare in maniera non strettamente giovanile un profondo senso di opposizione. L’heavy metal è quella cosa che misi in cuffia ai vicini d’appartamento a Pinarella di Cervia, più o meno fanatici di Innuendo, suscitando in loro naturale ribrezzo. Di cosa parlerà mai questa roba? Non gli leggevo in faccia altro, e avevano perfettamente centrato il punto: non fa per voi, fa per me e non ho il minimo interesse che un giorno possa fare per voi. Un’altra risposta non era teorizzabile. Nel diventare celebre, l’heavy metal ha sistematicamente sputtanato tutti questi meccanismi, obbligando sé stesso a rivolgersi anche a loro, ai fan di Innuendo, nuovi potenziali clienti di un mondo che stava lievitando già da un decennio. Ecco quindi che la gente degli anni Ottanta si reinventò, cacciando fuori i giri di basso e la batteria minimale di supporto ai Judas Priest di Turbo, o agli Accept, che già in Balls to the Wall mi parevano un’altra cosa, e che in Eat the Heat, pur rimanendo di base gli Accept, con un singolo come Generation Clash si resero quasi irritanti. Eppure i Manowar avevano soltanto aggiunto un punto esclamativo alla ricetta base: i più fricchettoni di tutti, una volta premuto play, diventavano i meno fricchettoni di tutti a un solo televisore di distanza dai frequentatori fissi dei palinsesti americani: erano il gruppo americano con la mentalità più europea che potessimo immaginare. Forse è per quello che ce li ho dentro, nonostante ritornino un bersaglio facile a ogni visione di quella copertina, Into Glory Ride, con addosso tutta quella roba che si vergognerebbero di vendere persino da Primark.
Una volta infiltrato all’interno della summenzionata compagnia di disgraziati supporter del peggior power metal europeo, sdoganai con furore gli Helloween. Me li ero appena visti dal vivo, Better than Raw era un album pazzesco e tutti loro mi diedero ragione finendo per comprarlo. Al contrario non avevo mai sponsorizzato niente dei Manowar perché già li ascoltavano ventitré ore al giorno, con l’eccezione che pareva avessero inciso solo Kings of Metal. L’unico di loro che aveva una ragazza la faceva puntualmente incazzare con Pleasure Slave. La mia azione di consigliere sugli Helloween mi portò a pronunciare le parole che attualmente, più di tutte le altre da quando ho iniziato a avere a che fare con l’heavy metal, non so se rimangiarmi o meno. Mi chiesero quale fosse il loro album migliore, e io non esitai: Keeper of the Seven Keys part II.
Gli Helloween non sono i Manowar, eppure il discorso è in un certo senso intercambiabile. I miei Helloween sono quelli di Walls of Jericho, Better than Raw, Time of the Oath: non necessariamente i primi, ma nemmeno quelli di Kiske. Quando consigliai Keeper II non lo sapevo, ma in loro presenza lo avrei riascoltato a oltranza, per intere settimane. Fino alla cosiddetta saturazione. Un titolo che prescindeva dalla cattiveria e dall’aggressività, e che non si opponeva a un cazzo di niente: ai credenti, al capitalismo, all’ipocrisia e nemmeno alla società in senso generico. Keeper II era gente contenta con lo sguardo rivolto al cielo, presa dal canto corale e in attesa d’essere annaffiata da una nuvola carica d’acqua santa (e doppi sensi) spedita in loco dal Cristo redentore, mentre Glen Benton, costretto in una gabbia, sbraitava, imprecava e si rompeva le costole urtando l’acciaio delle sbarre, non potendo porre alcun rimedio all’orrendo scenario che gli si stava manifestando davanti. Keeper era ed è tutto quello che non ho mai voluto nell’heavy metal, neanche da lontano, e il profondo fastidio che il ritornello di Dr. Stein riesce a procurarmi viene sormontato solo dal clima parrocchiale che regna in Rise and Fall. Ma ci rifletto sempre, come con i Manowar, più che con i Manowar.
Eppure, che cosa ho risposto quando mi hanno chiesto un consiglio musicale? Ho risposto Walls of Jericho, e cioè un album che non si sarebbero cacati neanche di striscio? Ho risposto Time of the Oath? No, ho detto loro la verità. Ho abbracciato il fastidio estremo del secondo Keeper, il disco più bello degli Helloween. Conosco o non conosco a menadito Eagle Fly Free, il suo testo, ogni singolo passaggio che la compone? Certo che sì, e allora cattiveria e aggressività di cosa? Black Album un cazzo. La ruffianeria aveva già vinto nel 1988, tempi non sospetti in cui roba neppure destinata a regnare sul grande schermo venne creata, plasmata, ripensata per rendere appetibile, talvolta in maniera estremizzata e indigesta, il nostro genere musicale preferito. Oggi il fattore mediatico è stato in tutto e per tutto sostituito dal narcisismo, ed eccovi servita la roba di cui scrive Traversa.
Apro YouTube, nello specifico un videoclip dei Jinjer: trentasei milioni di visualizzazioni, più una, la mia. Un baule di metalcore, un pochino di djent negli arrangiamenti, un pubblico talmente vasto che t’immagini sotterranei pieni di bambini ucraini, legati e imbavagliati davanti a sudicie postazioni pc, obbligati a fare selvaggiamente click su quei video, cambiando IP ad ogni minuto grazie all’ausilio di sofisticate applicazioni fornite dalla Napalm. La città cinese di Chongqing vanta trentasei milioni di abitanti, e non riesco a teorizzare come un numero simile di persone abbia voluto aprire, in pochi anni, un video dei Jinjer senza che sia avvenuta la totale privazione del libero arbitrio.
L’heavy metal è da sempre predisposto all’appeal mainstream, devi solo saper abbinare le due cose e proprio per questo non può essere il caso dei Jinjer. Gli Accept di Eat the Heat finirono per prendersi a pugni in faccia perché non avrebbero dovuto sconfinare oltre Udo, e la loro ricetta priestiana per un pubblico che si ciba di crauti. Ozzy Osbourne dovette attendere Zakk Wylde per ritrovare la strada giusta, quella di singoloni come No More Tears. Ma il successo dei Jinjer e mio fallimento nell’ascoltare questi ultimi prescinde dalle problematiche di quegli anni.
Che cosa si sia interrotto nella lunga catena che per anni ha fatto funzionare l’heavy metal come entità commerciale, dai Type 0 Negative di Black no. 1 ai Sentenced di quel capolavoro dell’easy listening che fu Crimson, fa parte di un argomento molto più ampio. Ma forse la cattiveria, l’aggressività, l’epicità, il forte sentimento che hanno mosso questo genere musicale per intere decadi, al momento di mutare pelle sono rimaste – come caratteristiche e peculiarità – ben insite all’interno degli artisti che crebbero in quegli anni, ed oggi le abbiamo gradualmente sostituite con la ricerca scrupolosa del rumore misto a pulizia sonora, del make-up cattivo abbinato all’esaltazione della bellezza, e con una serie di contraddizioni ben peggiori dell’heavy metal sorridente che mi fece amare ma un po’ odiare un album capace di insegnarti a mente March of Time o I Want Out, senza che fra le due canzoni ci fosse un solo attimo per rifiatare. (Marco Belardi)