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E mentre tutti cambiavano rotta, loro incisero DIVINE INTERVENTION

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Il mio primo pensiero una volta entrato qua dentro è stato, oltre a trovare le parole per descrivere Remains degli Annihilator su Avere vent’anni, che mi avrebbe fatto piacere buttare giù un articolo sia su Schizophrenia dei Sepultura, sia su quest’album. Diciassette anni fa, insieme ad altri amici, mi trovavo sulla webzine con la peggiore veste grafica d’Italia e ci venne in mente di aprire delle rubriche a tema: per esempio, una che riguardava album thrash metal che neanche le band stesse avevano il coraggio di riascoltare, mentre un’altra aveva il titolo di Underrated ed era concentrata su uscite che – per chi scriveva – valevano molto più della considerazione generale che il tempo aveva riservato loro. Appunto, due titoli rappresentativi da portare in quest’ultimo contenitore potevano essere esattamente quelli che ho appena menzionato.

Che poi, underrated un cazzo. Divine Intervention fu disco d’oro in Stati Uniti e Canada, debuttò all’ottavo posto nelle classifiche degli album più venduti del proprio paese, e fece a spallate su Billboard con robe come Superunknown, The Division Bell, Jar Of Flies e – ahimè – la malsopportabile colonna sonora de Il Re Leone. Fu anche tenuto in gran considerazione dalla Def American, che pretendeva ad ogni costo da Tom Araya e soci un singolo di successo perché così andava a quei tempi. Gli Slayer gli risposero “scrivetecelo voi, noi al limite lo suoniamo” e non parlarono più con l’etichetta della futura pianificazione degli album. Anche se in futuro, sotto sotto, a qualche piccolo e non troppo fastidioso compromesso sarebbero scesi eccome. Piacque un sacco praticamente a chiunque, Divine Intervention, al punto di tornare a registrare un concerto che includesse il materiale inedito (Live Intrusion, a pochi anni da Decade Of Aggression), stavolta azzardando il salto all’edizione video. Fu anche un disco incredibilmente “mediatico”: testi controversi e che fecero rivoltare le budella e gli avvocati di un sacco di persone, immagini di arti incisi col logo della band, l’acronimo Satan Laughs As You Eternal Rot recuperato dai tempi di Show No Mercy e quella celebre foto con King che portava ancora i capelli lunghi, spezzata su un lato, ovvero quello in cui avremmo trovato incollato un certo Paul Bostaph. 

Gli Slayer avevano di fatto reclutato un nuovo batterista, che alla prima prova con un gruppo di punta dopo i trascorsi nei Forbidden, venne subito chiamato a non far rimpiangere Dave Lombardo, appunto il frammento di immagine mancante. La sua prestazione fu impressionante, forse troppo accentuata dal mixaggio di Toby Wright di cui parleremo più avanti, e solo in Mind Control – il brano più classico e lineare dell’intero lotto – si sarebbe effettivamente sentita la mancanza del membro originale. Paul Bostaph – che era già un ottimo musicista – si sarebbe mantenuto per molti anni su ottimi livelli: a partire dalla relativa semplicità con cui ha dettato il ritmo in Diabolus In Musica, passando per l’energia sprigionata a palate in God Hates Us All, o dietro alle pelli di Exodus e Testament. Oggi la sua creatività è crollata ai minimi storici e basta sentire Repentless – il disco col titolo sbagliato e non solo – per rendersene conto. Questo, mentre Dave Lombardo è ancora lì che spacca culi a piacimento, dai Dead Cross ai Suicidal Tendencies, uscendo da schemi che in Christ Illusion lo avevano legato troppo, e che solo in World Painted Blood, grazie anche alla sua scarna produzione dal sapore quasi live, aveva finalmente spezzato. Non ho una particolare preferenza fra i due, sull’eterna disputa riguardo chi meritasse maggiormente questo posto, né mi considero al pari dei più un oltranzista “pro-Lombardo”: dico semplicemente che in Divine Intervention e fino a God Hates Us All, l’ex-Forbidden si rivelò semplicemente perfetto, e che proprio qui offrì la sua prova definitiva.

Il metallo sotto quattro potentissime forme

Oggi, in molti hanno rivalutato al ribasso Divine Intervention, a partire dalla band che, ci avrete fatto caso, non ne ripropone quasi niente dal vivo. Si parla soprattutto dell’album con la produzione sbagliata e non sono per niente d’accordo con ciò: di base i suoni del disco del 1994 erano potentissimi, spinti da bassi capaci di mettere paura. Dopo l’intermezzo ai limiti dell’heavy metal offerto da South Of Heaven e da certe cose di Seasons In The Abyss, la sensazione di “distacco” da quel periodo condito da materiale un po’ più soft – lo sviluppo di certe mid-tempo oscure, per esempio – fu netta. Il problema nel duo Rick Rubin / Toby Wright riguardò soprattutto il mixaggio: la differenza insensata nei volumi di Killing Fields con lo scorrere dei secondi, così come la batteria eccessivamente in vetrina e la sensazione di “impastato” relativa alle chitarre; tutti elementi che non aiutarono Divine Intervention ad affermarsi come un possibile Reign In Blood parte seconda, concetto che in un primo momento aveva pubblicizzato in prima persona la sua release. Divine Intervention spartisce col terzo album della band californiana soprattutto la tendenza alla velocità e quella al ridurne il minutaggio al minimo essenziale: non ha molto altro in comune con esso, un capolavoro immortale che rappresenta al meglio il concetto di perfezione per gli amanti del metal estremo e delle sue radici, ma è ad ogni modo uno dei tre loro album che preferisco. L’altro è Hell Awaits, perché dagli Slayer ho sempre preteso ritmi alti, oscurità e cattiveria a palate; e sebbene gli ultimi lavori con Lombardo fossero ottimi, uscivano comunque da queste coordinate che ritengo non solo necessarie, ma fondamentali. Fermo restando che consiglierei a chiunque Seasons In The Abyss per avvicinarsi al loro nome. Altro aspetto importante, e per alcuni limitante, il ridotto contributo di Jeff Hanneman alla scrittura dei brani: è significativo che fosse esclusivamente sua la firma su 213, perché sarà l’unico punto di incontro con certe corazzate del passato a velocità ridotta, come Spill The BloodDead Skin Mask. Ma nonostante un’intro ed un riff promettente, il pezzo sembra funzionare a metà.

Kerry King scrisse buona parte dell’album, fra cui interamente il capolavoro Dittohead, quella del videoclip in cui non si capiva un cazzo ma si godeva ugualmente una cifra. Due minuti e mezzo di durata, una prova spaventosa da parte di Bostaph ed un riff centrale semplicemente indimenticabile: thrash metal ai limiti dell’hardcore che ricordava vagamente – per attitudine, velocità ed energia sprigionata – un’altra perla quasi contemporanea, Strenght Beyond Strenght dei Pantera. Niente, la colpa di Divine Intervention sulla lunga distanza resta quella di avere innescato lo stile definitivo degli Slayer in pilota automatico, quelli che avevano terminato di evolversi con God Hates Us All per ritornare a pestare come fabbri, ma con l’anima ovviamente invecchiata; la sua forza è quella di suonare come il loro album più violento senza tenere conto delle radici ed essere realmente un Reign In Blood parte seconda. Divine Intervention era semplicemente sé stesso ed era estremo da far paura, in un periodo storico in cui le grosse major avevano fatto a pezzi tutti i “compagni di classe” degli Slayer, dirottandoli un po’ dappertutto e nella maggior parte dei casi con scarsissimi risultati.

Me lo sono goduto ancora una volta oggi, e riesce sempre a sorprendermi: quel singolo pazzesco che era Serenity In Murder, con la sua strofa catchy inserita in una delle composizioni più veloci della tracklist; il singolare ritmo che avviava SS-3 per poi lasciare posto al thrash metal totale ed ai rutti di Hanneman nel break centrale, oppure la classicissima Mind Control, uno dei pochi ponti con brani passati come Born Of Fire. La sottovalutatissima Fictional Reality condita da un break centrale irresistibile, oppure la devastante accoppiata che apriva il disco. Tutto di ottimo livello tranne la copertina, in linea con la tendenza ad utilizzare la grafica in maniere orribili tanto in voga in quegli anni; anche se forse non ho ancora capito che opinione ho di Circle Of Beliefs, eccessivamente lineare e con quella voce effettata di Tom Araya che proprio non sopporto. Dettagli, si tratta pur sempre di uno dei miei tre dischi preferiti degli Slayer nonchè di quello per cui provo il maggior affetto, perché in fondo, fu a metà fra la sua uscita e quella di Undisputed Attitude che li conobbi. (Marco Belardi)

 


Il tramonto del power metal americano: VICIOUS RUMORS

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Adoro senza mezzi termini il power metal americano, e in particolar modo il suo lato più pesante e confinante con lo speed’n’thrash. Questo a lieve discapito di tutto ciò che andò a farsi definire prima come “epic”, e che in anni più recenti avrebbe dato il là ad una corrente dalle forti tinte prog metal. Lasciando per un attimo da parte le etichette, che dopo un po’ rompono solamente i coglioni, potrei riassumere il concetto dicendo che del power metal americano ho sempre trovato più appetibile il materiale pesante, volto al dinamismo e ad uno sfruttamento della tecnica che non fosse semplicemente fine a sé stesso. Si tratta di un genere a cui mi sono affezionato molto presto, e senza mai disamorarmene, per cui è probabile che ne scriverò in più di un’occasione.

Nel momento in cui cominciarono a comparire come funghi i “miei” album, fu un po’ come se il meglio fosse già uscito: forse perché si trattava di lavori più bilanciati, e perché lasciandosi alle spalle lo speed metal minimale degli esordi, in questi album i rispettivi gruppi si erano comunque mantenuti ancorati alle radici classic metal; in questo modo non solo gli fu possibile accontentare un po’ tutti, ma anche esprimersi nella migliore maniera possibile. Inoltre, quei classici sono venuti alla luce fra gli ultimissimi Ottanta e il biennio immediatamente successivo, quando ancora le major non avevano strappato i contratti a chiunque per buttarsi sui Tad, o su cose del genere. I primi anni della crisi del power metal americano ebbero ancora molto da dire e offrire, proprio perché chiunque lo suonasse si stava adattando alle circostanze, ma non aveva ancora avuto il tempo di snaturarsi, sbagliare una sola pubblicazione, o iniziare in maniera esplicita a fare schifo. 

Prima di tutto vi parlerei quindi dei Vicious Rumors. Quando nominate qualche band sostenendo che essa porta sfiga, dovete sempre rammentare a voi stessi che sono esistiti i Vicious Rumors di Word of Mouth, e che gli altri hanno automaticamente perso in ogni confronto. Il disco si intitolava come il celebre album di Jaco Pastorius, ma aveva una copertina molto più brutta, segnando inoltre l’ingresso di un nuovo bassista: dentro Tommy Sisco e fuori un altro reduce dei primi anni, Dave Starr. Non erano di certo nuovi ai cambi di formazione i Vicious Rumors, noti infatti per avere vantato fra le proprie file un fuoriclasse come Vinnie Moore degli UFO, ma soprattutto Gary St. Pierre alla voce. Chi era quest’ultimo? Lo scoprii durante un pomeriggio di shopping compulsivo al pc, quando acquistando il primo album degli Hawaii di Marty Friedman direttamente da un crucco su Ebay, non potei fare a meno di notare che alla voce c’era la stessa persona che avrebbe di lì a poco cantato nel bel Soldiers Of The Night dei Vicious Rumors.

In sostanza, St. Pierre era più un collaudatore che un vero e proprio cantante: registrava l’episodio pilota, dopodiché si toglieva gentilmente dalle palle in favore di volti più o meno noti. Assorbita la scarica adrenalinica di quel titolo datato 1985, ho sempre ammesso di preferire i Vicious Rumors successivi per il fatto che erano giunti al punto con cui ho iniziato l’articolo: suonavano il mio personalissimo esempio di power metal americano, quello favorito dalle loro radici californiane, il che li tenne simbolicamente a braccetto con la musica della Bay Area senza mai sconfinare, almeno in primo momento, dalle sue parti. Geoff Thorpe era un animale sputa-riff come non se ne vedevano molti in circolazione, e il capolavoro l’avrebbe centrato con quel Welcome To The Ball che alternava bordate assolute come Abandoned (uno dei miei brani metal preferiti di sempre), a chicche di squisita raffinatezza come la meravigliosa Children. A rendere il tutto più facile e ai limiti dell’ordinario fu Carl Albert, che, tanto per restare nell’ambito delle classifiche da bar, è stato anche il mio cantante preferito in ambito classic metal. In assoluto, dico. Il riccioluto frontman americano, però, li avrebbe lasciati orfani nel 1995. Quando la band pubblicò Word Of Mouth, con esso sancì anche il suo ultimo buon titolo prima della debacle assoluta dei successivi lavori (inascoltabili, pretenziosi e senza coordinate da raggiungere, anche se il Brian O’Connor di Cyberchrist, perlomeno ci aveva offerto una prova più che valida).

 

L’ultimo Carl Albert aveva saputo adattarsi agli anni Novanta senza sputtanare il suo stile canoro, anzi, ascoltando una fast-track come Sense Of Security sembrava di essere ancora dalle parti del 1991. Con il singolo The Voice provarono addirittura a bissare Children, mescolandola ad un vago sentore della musica che andava per la maggiore in quegli anni, ed in particolar modo agli Alice In Chains di Facelift. Non fu l’unico episodio ad andare velatamente in quella direzione, e per convincersi di ciò basterebbe proseguire con l’ascolto, e confrontarsi con una Dreaming. Il botto al disco, però, l’avrebbe potuto favorire No Fate, che aveva di base un tiro a dir poco incredibile, insieme alle prime due tracce. Impossibile dimenticare il riffone conclusivo di Against The Grain (che iniziava nel peggiore dei modi, ma almeno andava solo ed esclusivamente in crescendo), oppure il momento in cui Carl Albert iniziava ossessivamente a pronunciare il titolo di All Rights Reserved, rallentando: giochetti cari ai Pantera e che avrebbero portato per le prime, percettibili volte, i Vicious Rumors ad abbracciare i canoni del nuovo thrash metal di quegli anni. In sostanza, fu come se i nostri si fossero accodati in parte al riffing cupo degli Overkill di I Hear Black, mantenendo però una certa estetica chitarristica ottantiana, il che era particolarmente riconducibile al nome di Mark McGee. Quest’ultimo è ciò che manca oggi ai Vicious Rumors, ed è realmente ingiusto che non lo nomini mai nessuno, ma si trattava di un chitarrista dal talento e gusto davvero incredibili.

E poi è successa la cosa di Carl Albert.

In pratica, in Word Of Mouth avevano dedicato questo pezzo – diviso in due atti e intitolato Thunder And Pain – al compianto Criss Oliva. Non fu l’unico, pure gli Overkill scrissero qualcosa in sua memoria, e lo trovate dentro a W.F.O. dello stesso anno. Il chitarrista dei Savatage era deceduto in un incidente stradale nel 1993, non molto tempo dopo che la band aveva messo in commercio l’ottimo Edge Of Thorns; e non è un caso che il successivo Handful Of Rain sia stato fra i più cupi mai incisi dalla band proveniente dalla Florida. Concettualmente, Word Of MouthHandful Of Rain rappresentano il più evidente punto d’incontro fra le due band, non tanto per il 1994 che li accomunò, ma per una serie di motivi che avrebbero coinvolto suoni, attitudine, e pure la sfortuna.

In poche parole, i Vicious Rumors dedicano questo pezzo a Criss Oliva, che aveva perso la vita in uno sfortunatissimo frontale con un camionista. La band va in tour con i Savatage stessi, che avevano nel frattempo reclutato l’ottimo Alex Skolnick dei Testament, e poco dopo Carl Albert muore in un incidente stradale. La fine formale dei Vicious Rumors, i quali avevano già seminato per strada l’epicità dilagante del debut album ed il fortunato contratto con Atlantic Records, e che qui avrebbero perduto non solo il loro cantante, ma quello che molte altre band gli avrebbero a ragione invidiato. Non sono mai stato scaramantico, ma queste cose fanno seriamente schifo al cazzo quando accadono.

Sentitevi ad ogni modo Word Of Mouth, il loro ultimo lavoro di spicco, anche se negli anni più recenti devo comunque ammettere che qualcosa di carino l’hanno pur combinato. La fine formale di un gruppo che era stato pressochè impeccabile per cinque album consecutivi, di cui Word Of Mouth fu sicuramente il meno celebrato; ma anche il più coraggioso e il più capace di staccare col precedente, senza con questo lasciare nell’ascoltatore sensazioni di abbandono delle radici o cose del genere. Un gruppo, il loro, che mi emozionò, quando sempre per tornare a parlare del famoso shopping compulsivo di cui ho menzionato sopra, ero finalmente riuscito a trovare l’allora rara prima edizione in cd dell’omonimo album del 1990. Bello, pure quello, ma l’ho sempre considerato un pelino inferiore al precedente Digital Dictator. Prossimamente vi parlerò degli Helstar, altra mia fissazione personale che in questa settimana di forte vento, e conseguenti febbre e bronchite, mi ha naturalmente tenuto compagnia come mi accadeva ai vecchi tempi. (Marco Belardi)

Così nacque la scena estrema italiana – parte 1

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Un ringraziamento speciale a Marco “Peso” Pesenti dei Necrodeath e ad Alberto Penzin, ex Schizo, ora nei Camera Obscura Two. Ho già parlato del clamoroso Into The Macabre, adesso cercherò di tirare fuori qualche altra chicca nel giro di un paio di articoli.

I primi di cui mi accingo a parlare sono tutti inquadrati nel periodo 1989-1993. Gli anni del Monsters Of Rock, in cui un David Lee Roth rischiava di confondersi fra i tanti. Case discografiche che cavalcavano l’onda dell’hair metal, Skid Row e Motley Crue fissi a rilasciare interviste su MTV, inconsapevoli che dopo qualche giro di boa i Metallica – oppure il grunge – li avrebbero lentamente soppiantati dalla cosiddetta heavy rotation. Era diverso tempo che girava del rock fuori dai canoni, come quello dei Jane’s Addiction per intenderci, cosicché nell’aria tutti potessero sentire odore di cambiamento.

Erano gli anni dei grossi guadagni fatti con la musica, e così sarebbe stato almeno fino alla fine del decennio. Personalmente non ero neanche un pischello, mi sono appassionato al rock nel 1994 ed al metal due anni dopo, e una cosa è certa: sebbene fosse fisicamente impossibile, mi rode dentro non avere potuto vivere quei tempi da appassionato. In Italia il metal ha preso campo tardi, il boom mediatico c’è stato a tutti gli effetti con i Lacuna Coil, preceduti sulla linea temporale dal botto del power metal di Rhapsody, Labyrinth o Domine, che a livello pubblicitario era un’altra cosa ma ci rendeva molto orgogliosi. Eppure, anche queste band, una volta presentate al pubblico hanno inizialmente fatto i conti con una disorganizzazione generale che penalizzava da tempo immemore la nostra scena, impedendogli di esportare i prodotti migliori con la velocità tipica delle più rinomate piazze.

Che fosse colpa delle etichette, della distribuzione o di altri fattori lo lascio discutere a voi. Il punto è che, mentre la nostra scena prendeva o riprendeva una forma che più avanti ci avrebbe consegnato – e consentito di esportare – i Fleshgod Apocalypse e molto altro ancora, Strana Officina, Sabotage, Death SS o Vanadium avevano già calcato i palchi per svariati lustri, in parallelo con un fronte estremo composto da ben altri nomi di cui – facendo riferimento a quegli anni, ed a quei dischi di cui oggi è necessario ricordarci – andrò a scrivere insieme ad alcuni dei protagonisti che li composero e suonarono. Ho chiesto ad Alberto Penzin, ex basso degli Schizo, ed a Peso, batterista dei Necrodeath, di scrivere un pensiero liberissimo, le prime cose che gli sarebbero venute in mente riguardo quegli anni. E nel frattempo, parlerò di Main Frame Collapse, del crossover Project One che coinvolse entrambi all’interno dei Mondocane e del debut dei Sadist, collocato esattamente al termine di quel periodo temporale.

SCHIZO – Main Frame Collapse (1989)

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A Catania era nato questo gruppo, che ebbe svariato tempo per incidere una serie di demo fra cui fece non poco rumore Total Schizophrenia. Avevano il problema del cantante, il ruolo passò per diverse figure fino a che l’uscita di Ingo dai Necrodeath avrebbe risolto temporaneamente il tutto. L’ho già scritto altrove, per me Ingo è stato uno dei migliori cantanti di metal estremo di sempre, e non mi riferisco all’Italia né ad un periodo storico limitato. Aveva tutto, dinamismo e cattiveria in particolar modo. Il suo innesto in un comparto musicale come quello degli Schizo fu, in principio, dinamite pura: la band suonava quello che definirei a tutti gli effetti thrash/death, che è un termine letteralmente abusato ma che qui trovo avesse un riscontro perfettamente sensato.

Immaginate di portare avanti nel tempo il proto-black degli Hellhammer, ed in Removal Part 1 & 2 avrete la risposta italiana ai Sarcofago di I.N.R.I.. Main Frame Collapse non dà tregua, neanche quando rallenta – o fa finta di farlo – in Make Her Bleed Slowly, un pezzo di cui ogni metallaro dovrebbe sentir risuonare in testa il ritornello alla sola lettura del titolo. C’era pure una componente hardcore/crust fortissima, che ricadeva dalle parti dei Discharge, mentre la vena inglese associabile ai Venom di cui disponevano i Bulldozer era un po’ nascosta, ma non del tutto assente. In fin dei conti avrete capito perché gli Schizo si chiamassero così (oppure andate a rovistare dentro a Welcome To Hell).

L’hardcore punk, inteso come punto di riferimento principe, emergeva soprattutto nella seconda metà dell’album, capace di scorrere sorretto anche solo dalla sua incontrollata violenza, e che per il sottoscritto corrisponde ad uno dei migliori cinque titoli italiani di sempre. Roba impressionante, uscita negli anni dei Terrorizer che contavano ed in cui blast-beat e cacofonia necessitavano una straordinaria dimestichezza per poter portare a casa risultati che fossero anche solo decenti. Non era terribile neppure la produzione, anche se il mixaggio diede molto risalto ai microfoni panoramici, ed in sostanza i piatti vennero a trovarsi un po’ ovunque.

MONDOCANE – Project One (1990)

 

Ho trovato questo CD nella colonnina degli usati alla celebre Super Records (R.I.P.) di Firenze. L’avevo cercato a un paio di fiere del disco senza successo, dopodiché, nello stesso giorno finì che mi sarei portato a casa – alla modica cifra di diecimila Lire – Project One e pure Technocracy dei Corrosion Of Conformity. Il secondo già ce l’avevo, preso su Ebay dalla Germania e arrivato in cassetta della Posta praticamente distrutto. Leggendo i titoli di Project One me la ridevo di brutto, c’era Fuck The U.S.L. che era una riedizione di un brano dei The Exploited, c’erano chicche come Mario, Please Don’t Cry e altre cose che probabilmente potevano capire solo loro. Ovvero Reder degli Schizo alla voce con Penzin al basso, e Peso alla batteria in una delle sue migliori prove di sempre.

Il paragone lo faccio sempre con Igor Cavalera dei Sepultura: non che i due si assomigliassero, ma il brasiliano su Beneath The Remains stava a quello di Chaos A.D. come il qui presente Peso stava a quello che avremmo ascoltato su Tribe del 1996. Nel secondo caso, entrambi i musicisti avevano totalmente raggiunto la maturità e lo stile d’interpretazione dello strumento che li ha resi celebri nel tempo. Nel primo, invece, suonavano thrash metal con una personalità non del tutto definitiva, ma con risultati eccellenti sia riguardo l’uso dei rulli, sia sui frequenti passaggi a due pedali. E poi c’era in gioco la stessa scuola di pensiero che prevedeva, nel mixaggio, una batteria in primissimo piano che già non avremmo udito né in Arise, né in Above The Light. Downtuning, una netta influenza da parte dei Morrisound Studios e tanti altri fattori avrebbero fatto scomparire, nel thrash così come nel death metal, sonorità tali e quali a quelle proposte dai Mondocane.

Project One è un album fondamentalmente thrash metal ed è la sua attitudine a riferirsi all’hardcore punk, ma non pensate con ciò di ritrovarvi davanti a qualcosa che assomigli ai Negazione, o ai pesantissimi Raw Power. Couldn’t Take Anymore Shit è uno dei pezzi che mi impressionarono di più, per i continui passaggi da fasi mid-tempo ad altre che lasciavano trasparire la ferocia delle due band madri. Sentitevelo.

SADIST – Above The Light (1993)

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Prima dell’avvicendamento con Zanna e di quello con Trevor, semplicemente, avevamo i Sadist di Andy, Tommy e Peso. A sette anni da quel Lego che mi avrebbe fatto esplodere le budella a partire dalla copertina, i Sadist avevano inciso il mio album preferito dell’intero comparto death metal tricolore: Above The Light. A dire il vero, se la vedeva con gli Electrocution di Inside The Unreal, che era più una sorta di via di mezzo fra il thrash metal di Arise, i Pestilence del periodo migliore e una sincera strizzata d’occhio al sempre più dirompente death metal tecnico. Ma di questo parlerò in un altro articolo.

Il primo album dei Sadist, che conoscerete più facilmente degli altri due che ho nominato sopra, non era raffinato quanto Tribe ma aveva al suo interno pezzi mostruosi come Breathin’ CancerSometimes They Come Back. Personalmente lo preferisco al suo successore, ci sono più legato così come mi capita con molti altri album, belli ma incompleti, che ci mostravano la band che li ha composti alle prese con qualche temporaneo problemino di rodaggio. Purtroppo, in Italia, il metal estremo stava ancora facendo i conti con una difficoltà oggettiva nel riuscire a emergere con mezzi puramente propri: a farne le spese furono anche i Detestor, i Gory Blister (debuttanti solo molti anni dopo essersi formati) e i nomi di maggior rilievo. La roba però c’era, non dimentichiamocelo. Quindi scriverò qualche riga in meno riguardo un album celebre come Above The Light, per lasciarvi al pensiero dei due ospiti di Metal Skunk.

Marco “Peso” Pesenti: (Necrodeath, ex Mondocane e Sadist): Mondocane fu un progetto nato per caso e per gioco. In realtà nacque anche dall’esigenza di fare un qualcosa di diverso e di collaborare tra musicisti che erano ormai diventati amici, nonostante la notevole distanza tra Genova e Catania avesse messo dei paletti, anche perché in quegli anni non c’era la tecnologia che abbiamo oggi, con file che viaggiano ovunque. 

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Gli altri Necrodeath non erano cosi interessati a questa cosa. Fu più che altro una mia voglia di suonare con Alberto e Santo, e di produrre uno disco alla S.O.D.. Partii dunque per Catania col mio trenino e mi chiusi una settimana circa da loro per provare e impostare i pezzi, mettendo insieme le mie idee e le loro, e realizzammo così i brani compresi nella facciata A. Di più non riuscii a fare a livello di composizione, anche perché dovevo tornare a Genova per i miei impegni personali. La facciata B la realizzarono solo loro due, e io mi limitai a suonare la batteria senza intervenire in nessun arrangiamento. L’album ha degli aspetti anche molto ironici come “Mario, please don’t cry” o la cover di “Fuck the U.S.L.”, rivista nel testo dall’originale degli Exploited. Fu una bella esperienza per quanto mi riguarda, e nonostante siano passati tanti anni la mia amicizia con Santo e Alberto non è cambiata! (Peso)

Alberto Penzin (Camera Obscura Two, ex Schizo): L’amico Marco mi chiede di buttare giù qualche riga a proposito della vecchia cara scena italiana estrema, dei suoi album di punta, di com’erano quei tempi e cosa eventualmente non ha funzionato. Potevo dire di no?

Non starò qui a farvi una cronistoria sugli albori del movimento, c’è gente molto più brava di me per quello. Credo però non vada trascurata anche la micidiale scena HC che nei primissimi anni ’80 ha indirettamente dato il la anche ad una certa radicalizzazione del nostro amato metallo. Band come CCM, Wretched, ed a ruota Raw Power e Negazione hanno rappresentato enormi pietre miliari apprezzate poi in tutto il globo.

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Pochi anni dopo i Bulldozer iniziarono a tracciare una nuova via, sulla scorta di Venom e Hellhammer (il mitico 7 pollici Fallen Angel), i Necrodeath a seguire più sul versante Slayer/Sepultura (Into the Macabre miglior disco metal italiano di tutti i tempi), e i miei Schizo influenzati di brutto da certo Hardcore “metallizzato” tipo Discharge, anche se il moniker fu ovviamente “clonato” dall’omonimo brano contenuto su Welcome to Hell. Parlando di quest’ultimo rammento benissimo quando, dopo aver letto la delirante recensione del disco sulle 4 paginette 4 dedicate al metal di Rockerilla, vergata dal maestro Beppe Riva, mi fiondai subito a procurarlo. E da lì in poi cambiò tutto per me, fu come vedere la luce, azzardo. E credo idem per un significativo numero di diverse altre persone.

All’epoca il massimo della “tecnologia” era l’amico che lavorava dal Contempo di turno; faceva sentire qualche solco del disco che ti interessava via telefono, e tu poi nel dubbio quasi sempre lo acquistavi, magari solo per il titolo, oppure per la copertina se ti trovavi in negozio o l’avevi vista su qualche magazine. Il tuo migliore amico (o nemico, a seconda dei casi) era il postino. Serviva un lungo e complesso lavoro di alta psicologia per ingraziarselo, ed evitare che la preziosissima fanzine americana o la rivista inglese a cui eri abbonato venissero ripiegate in due per entrare nella buca delle lettere. Quasi peggio degli angoli rovinati di una copertina LP, insomma. Il fatto che magari si avessero i capelli lunghi, poi, non aiutava di certo.

Ricordo ancora l’ottima impiegata della posta (luogo di processione settimanale in cui si bivaccava per adempiere alla doverosa routine di spedizione demo) che si rivolge al sottoscritto con un “prego signora”; al mio “come??” di risposta con voce roca più bassa possibile, la nostra campionessa provinciale del francobollo bissa con un “ah mi scusi, signorina”. Fantastico. Non era neanche tanto miope, eh!

Cosa non ha funzionato? Non lo so. Eravamo tutti molto naif e la passione forse non bastò a colmare il gap con le altre scene europee più organizzate e dinamiche. Di certo nessuno di noi potrà però mai dimenticare. Okay, ho divagato abbastanza, credo. Una trentina di anni dopo eccoci qui, col nostro Spotify ed i CD a prendere polvere. Per non parlare degli album. Mi viene in mente l’aggettivo “vacuo” ma non voglio passare per dinosauro. Meno male che ci sono ancora i concerti. Spero di non essere stato troppo cattivo. (Alberto Penzin)

Il disco maturo dei CLUTCH e il dito amputato di MATT PIKE

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Quest’anno lo stoner rock è andato davvero molto forte: un album bello sfrontato a nome Monster Magnet e quello più ordinario degli Orange Goblin, nonché l’ottimo – ma non impeccabile – disco firmato Sleep ci hanno coralmente ricordato quanto Joshua Homme possa tranquillamente continuare a girovagare per gli aeroporti con indosso manganelli, motoseghe o strap-on anziché comporre nuovo materiale in studio. Ma ci eravamo dimenticati dei Clutch e degli High On Fire, che poi non è che suonino proprio stoner, ammesso e concesso che quel termine indichi realmente un qualcosa di circoscritto. Io sono uno di quelli che danno contro alle etichette, per poi rotolarmici sopra come un maiale sul fango e sulla merda in attesa di ricevere altre ghiande da sgretolare, quindi non faccio testo. Bando alle ciance, il clima fumoso delle feste natalizie è o non è la migliore occasione per mettere sotto all’albero due band come queste?

Procediamo con ordine. Verso i Clutch posso confessare di nutrire una contrastante sensazione divisa fra amore (90%) e odio (il restante 10%). Il perché è riconducibile al fatto che sono talmente forti da meritare più fama e successo di quanto il fato gli riserverà mai: la loro è la classica situazione per la quale i vecchi rocker pronuncerebbero quelle frasi da bar, tipo se solo si fossero formati nel 1990… Cazzo, sì che sono nati più o meno allora, ed è proprio quello che mi fa rabbia. Il loro materiale è generalmente andato in crescendo, e della prima decade discografica ne ho pure rivalutato l’omonimo e quel The Elephant Riders con cui iniziai a interessarmi alla musica di Neil Fallon e soci. È in quel periodo che avrebbero potuto ritagliarsi un posto fra i nomi che non passeranno mai di moda, ma le cose straordinarie si sono messi a farle dopo, cioè quando l’industria musicale iniziava lentamente a contare quanto un televisore a tubo catodico. 

Per cui Earth RockerPsychic Warfare, i miei album preferiti dei Clutch, mi lasciano quella sensazione di fico ma potete fare ancora di meglio, come se avessi in qualche maniera appurato che il loro lento crescendo un giorno li porterà alla realizzazione del capolavoro definitivo, il quale, lo do in realtà per scontato, probabilmente non uscirà mai oppure è già lì sugli scaffali da anni. E’ una sensazione difficile da spiegare, ma arrivati a The Book Of Bad Decisions constato che i Clutch hanno finalmente raggiunto la capacità di sfornare un album “summa”, maturo e completo, ma che allo stesso tempo hanno letteralmente cacato fuori dal vaso con l’eterna questione dell’esagerato numero di brani, e pure perso un po’ dell’irruenza che rese irresistibili i due dischi precedenti – peraltro usciti nel pieno dei problemi fisici che avevano afflitto Neil Fallon a metà decennio. Ho pensato questa cosa fin dal suo primo ascolto: parte Gimme The Keys e ti ritrovi a disposizione, chiavi in mano, tutto ciò che vorresti dai Clutch. Ma non è all’ennesima potenza come una Sucker For The Witch o una X-Ray Visions, e la faccenda ti puzza di merda molto più di quanto dovrebbe.

È quel mezzo gradino sotto che mi dà noia come se avessero inciso una pippa clamorosa, con l’aggravante impazienza di utilizzare una (soltanto) buona Gimme The Keys per aprire la strada al nuovo album. Insomma, aspettandomi sempre di più dai Clutch sono finito per ritenere ordinario un lavoro che in realtà è più che dignitoso, ma sicuramente inferiore a Psychic Warfare sotto moltissimi punti di vista. Per il resto sono sempre loro, ma stavolta rendono meglio quando rallentano: Emily Dickinson è la mia preferita per distacco e pure la conclusiva Lorelei lievita con lo scorrere dei secondi, sigillando meglio che si può l’interminabile scaletta. Fra le più tradizionali ho sicuramente apprezzato How To Shake Hands, mentre la successiva In Walks Barbarella ha due contro-coglioni che non finiscono più per come è stata impostata, e per l’energia che riesce a sprigionare senza nemmeno provare a pestare come una dannata. Bravi, ma con la sensazione che il picco massimo sia già stato toccato, e che ora si possa temere l’inizio di una fase calante di questa leggenda – o poco ci manca – dell’heavy rock.

A Matt Pike invece non si può dire nulla, neanche se il suo album è oggettivamente molto meno efficace di quello del quale ho parlato qui sopra. Ho apprezzato tanto The Sciences, anche senza finire per tenergli da parte un posto in top ten. Questo perché c’è qualcosa di fondo che comunque non mi ha convinto, mentre per quello che riguarda gli High On Fire li ritengo in fase calante da diversi dischi, nonostante Luminiferous mi avesse fatto fare delle discrete scapocciate. È che non mi sorprendono più, ora che con Electric Messiah – in contemporanea al disco degli Sleep, capace di generare un hype da fare esplodere i rospi – Matt Pike ci presenta un album feroce e perfettamente suddiviso fra le classiche sfuriate di thrash metal rivestito dal grasso di balena, e quei pezzi doom/sludge usciti fuori dall’Inferno che il musicista del Michigan dovrebbe semplicemente insegnare nelle scuole. Electric Messiah è un album piuttosto prevedibile, ma se ci sono due motivi per salvarlo, questi sono gli – apparentemente – ostici pezzi da dieci minuti ciascuno di durata. Uno ve lo ritroverete davanti subito dopo l’ottima e prevedibile opener Spewn From The Earth, mentre l’altro è indubbiamente il brano del disco e porta il titolo di Sanctioned Annihilation. Matt Pike è allucinato per tutta la sua durata, c’è un riff che pare sputato fuori da The End Complete degli Obituary e generalmente si gode di brutto a oltranza. È convincente pure Drowning Dog in chiusura, o perlomeno capace di far pensare alle vecchie cose della band, quelle composte prima che al frontman venisse in mente di suonare nella maniera più pesante e metallara possibile, superando a più riprese il limite posto.

Electric Messiah è anche il classico album a cui darei tipo un sei e mezzo. Odio i voti specie per il fatto che mi ricordano i miei alle superiori, ma mettiamo in chiaro una cosa: il nostro beniamino, dopo essersi ispirato ad una visione notturna riguardante Lemmy Kilmister per la sua realizzazione, ha annullato un tour con i Municipal Waste poiché costretto ad amputarsi il dito di un piede. Ha pure messo la foto su Instagram, c’è questa cancrena mozzata con i punti di sutura, e immagino il colosso Google che ora si ritrova intasato da criteri di ricerca che solo ieri erano simili a caterina balivo feet ed oggi vertono sul matt pike feet per una non chiarita ragione. Non lo sanno il perché di questa faccenda, neanche se tutti gli hanno dato il consenso ad accedere a qualunque cosa presente sui dispositivi mobile, tramite ogni applicazione installata.

Mettereste cinque di voto a un alunno a cui è appena schiantato il gattino? Io tollererei qualunque album da Matt Pike in un momento nel quale il chitarrista di Holy Mountain si ritrova con un dito in meno, per seri problemi fisici oppure perché esattamente come avrei fatto io, ha inventato un presupposto per annullare il tour con una band sopravvalutata e che inizia a rompere i coglioni come i Municipal Waste. Onestamente, ho ben apprezzato l’effetto sorpresa scaturito dai primi due album composti dai thrasher della Virginia, dopodiché non mi hanno mai detto molto, e quindi avrei preso anch’io le tronchesi in fretta e furia. Electric Messiah è in definitiva un album caruccio, caratterizzato da una metà abbondante dei brani che non riesce a superare di gran lunga la sufficienza: ma a Matt Pike vogliamo e vorremo un bene infinito, soprattutto noi di Music To Light Your Joints To. (Marco Belardi)

Si continua a non vivere di solo metallo (ovvero speciale synthwave di quei puzzoni di Metal Skunk parte II)

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Vista la risposta positiva dei nostri ventiquattro lettori (o erano ventisette? Ciccio e Barg, aiutatemi voi che tenete i conti dell’osteria) (ventiquattro, ventiquattro, ndbarg), mi sono sentito in dovere di continuare quanto stavo dicendo l’altra volta in tema di synthwave o retrowave che dir si voglia, per segnalare un altra bella porzione di musica malata e sintetica al 100%.

Recentemente ho scoperto che il già citato John Carpenter ha prestato la sua voce per una breve intro narrata sul tema apocalisse incombente per gli stratosferici GUNSHIP, ovvero tra i migliori produttori di synthwave “cantata” che potreste mai sentire. L’album omonimo è di tre anni fa ma, se fosse di quest’anno, sarebbe pure top album, o comunque in playlist di sicuro. Quindi siete avvertiti. È come essere proiettati in un cyberspazio creato dalle menti degli inglesi Dan Haigh and Alex Westaway, rei di aver creato uno dei lavori più emozionanti degli ultimi dieci anni. Non si può invece dire lo stesso di Dark All Day. Uscito nel 2018, diciamo che non ha avuto chance di entrare in playlist: troppo ruffiano e spompato rispetto alla fucina grondante emozioni e dannatamente perfetta che fu l’omonimo. Ma, come al solito, lascio a chi legge stabilire se ho ragione o meno.

Il discorso qua intrapreso su i Gunship non può che portare ai THE MIDNIGHT, altri rappresentanti della stessa branca di synthwave cantato che però hanno nelle atmosfere più nostalgiche il proprio marchio di fabbrica. Possiamo paragonare la loro proposta ad un malinconico film di genere coming of age, ambientato negli anni Ottanta, ovviamente. Personalmente penso che il loro ultimo Kids sia un bel dischetto, riservandomi però di sentirne la versione strumentale, uscita in contemporanea, che potrebbe darmi ragione quando individuo il limite dei nostri nel cantato stesso, che a volte intacca l’espressività degli arrangiamenti di synth, a tratti davvero emozionanti, seppure non al livello dei migliori Gunship. Vi farò sapere. 

Ne approfitto qua per approfondire e contraddire un mia precedente affermazione: ho riascoltato Roboror del giapponese VHS GLITCH e niente, spacca quanto se non più dell’ultimo, il comunque bellissimo They Made Me an Animal. Energetico e sinistro allo stesso tempo, conferma ancora una volta il nostro amico del Sol Levante come una delle realtà più interessanti e continue del genere.

Fatemi adesso parlare del lato più tamarro e accostabile alla techno di questo stile, ovvero quello del danese DANIEL DELUXE, per esempio. Troverete alcune atmosfere horror e ipertecnologiche ma con una tamarraggine di fondo che riporta appunto ad una discoteca dove la gente si cala di tutto e vede i Visitors che camminano sui muri. Inquietante. Titoli consigliati per capirne appieno la “filosofia”: il terrificante Corruptor, anche se il nostro appare sempre su numerose compilazioni, in cui ovviamente lascia il suo marchio acido e orrorifico. Non è un caso che infatti ultimamente faccia parecchie serate assieme ai Dance With the Dead, di cui abbiamo già parlato. Da ascoltare assolutamente in determinate situazioni, e se lo sentirete capirete quali.

Ogre

Sempre sul versante orrorifico vi segnalo OGRE SOUND, meno techno ed energetico del nostro Daniel ma ugualmente raccapricciante. Il loro Ballard, uscito quest’anno, suonerebbe perfetto se John McNaughton decidesse di fare un altro Henry Pioggia di Sangue oggi. Sentite la allucinante Deep Schizos Irreversible Paranoids, giusto per darvi un assaggio.

Continuiamo con gli spaziali ZOMBIE OVERDRIVE, che a dispetto del nome, e al contrario dei due di cui sopra, non vi faranno sentire come Richard Ramirez che cammina di notte in cerca della prossima vittima quando lo sentirete in cuffia per strada. Belle atmosfere però, con assoli di chitarra senza chitarroni distorti e plasticosi come quelli che ahimè abbondano in certi dischi synthwave soprattutto ultimamente, ma belli e melodici e che calzano a pennello in pezzi come Red Eyes, dall’album Hyperion. Ogni tanto fa pure capolino un synth che ricorda le atmosfere create da un organo hammond. Questo è l’unico album loro di cui ho conoscenza e vi prego di commentare se mi son perso qualcosa nel mentre.

E chiudiamo, per oggi, con l’australiano DROID BISHOP (e chi non intende la citazione si vergogni), che ha già all’attivo sei album di cui però conosco solo Beyond the Blue del 2014 e Lost in Symmetry del 2016, disponibili sia su Spotify che sul sempre ottimo Bandcamp. Sono questi begli esempi di una wave melodica e cibernetica che vi riporterà sulle stesse strade intraprese da gente come l’ottimo Nightstop e i più classici synthwavers in senso stretto, in un mondo di videogames e dance coinvolgente.

Vi invito come sempre a lasciarvi suggerire da Spotify e ad ascoltare, scoprire e farvi trasportare da un genere ricco di emozioni e pieno di sorprese. E soprattutto a continuare a segnalare nuovi nomi e dischi.

Until next time… (Piero Tola)

I DESTRUCTION non erano bravi a Risiko: lo dice la scienza

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Pochi generi cinematografici mi hanno appassionato quanto i film di guerra. Addirittura per un periodo avevo allargato i confini della mia fissazione per il bellico, procurandomi e leggendomi mensilmente questa collana di fumetti chiamata Super Eroica; insomma ero finito totalmente sotto con quella roba, e il Vietnam fu sicuramente il conflitto capace di intrigarmi di più. Questo perché, in quell’occasione, tutto fu impostato davvero malissimo.

Un film su tutti descrisse abilmente le maldestre strategie militari statunitensi di quegli anni: Hamburger Hill: collina 937 di John Irwin. Il regista inglese aveva appena fatto il botto con il caciarone Codice Magnum, e si lanciò in un progetto un tantino più cruento e politicizzato, una pellicola che a dire il vero passò in secondo piano a causa dei quasi contemporanei Platoon e Full Metal Jacket. Nel cast c’erano perfino un giovanissimo Don Cheadle e Dylan McDermott, l’inseminatore seriale della prima stagione di American Horror Story. In sostanza, la narrazione era incentrata su di una missione secondaria che prevedeva la conquista di un obiettivo geografico, e questa cosa è realmente avvenuta nel 1969, trasformandosi rapidamente in una disastrosa perdita di unità. Gli Stati Uniti la presero per davvero quella collina, situata ai confini con il Laos e presidiata da poche unità nemiche, che avevano il netto favore della postazione di sparo rialzata ed una visuale di tiro pressoché a 360°. Ma una volta conquistata, non seppero effettivamente che cosa farsene. Si trattava semplicemente di ripulire un territorio non propriamente strategico dalla presenza del nemico, ed impiegarono una sorta di esercito per togliere di lì giusto qualche anima ben mimetizzata.

La stessa cosa è accaduta in Germania a fine anni Ottanta, ai Destruction ed in particolar modo a due soggetti poco avvezzi agli estenuanti tatticismi del Risiko come Schmier e Sifringer. I due erano rispettivamente bassista/cantante della band e chitarrista: come trio, al terzo slot riguardante la batteria avrebbe potuto esserci chiunque (per un breve periodo li aiutò in tour Chris Witchhunter dei Sodom, dato che non avevano ancora rimpiazzato Tommy Sandmann) ma è l’abbandono di una delle due figure principali che avrebbe mandato in malora tutto quanto. E puntualmente, accadde. Ma che c’entra il Vietnam con il gruppo autore di Eternal Devastation?

Hamburger Hill: collina 937

Ai due scalmanati generali tedeschi capitò qualcosa che, se ci pensate bene, è tipico di un po’ tutte le band. A partire da quella in cui avete suonato in prima persona, passando per qualche moniker underground e per i nomi più influenti e celebri, l’evoluzione di un gruppo dipende molto spesso – più che dalla ragionata pianificazione – dall’accrescimento tecnico dei suoi singoli membri. Il chitarrista è quello che, in due casi, può apportare le maggiori migliorie, spostando con un rischio incalcolabile gli equilibri che il tempo aveva consolidato: sarà così se è lui ad occuparsi della scrittura dei riff o se si occupa dell’arrangiamento degli stessi, e di sicuro farà almeno una delle due cose. Di conseguenza è impossibile che una band proto-black mantenga le caratteristiche di In The Sign Of Evil, se in soli tre anni il leader è passato da un Grave Violator a Frank Blackfire. La storia dei Destruction differisce da quella dei Sodom per il fatto che Mike Sifringer aveva gradualmente cominciato a suonare meglio, curando gli arrangiamenti e delineando uno stile che, purtroppo e per cause di forza maggiore, il gruppo non avrebbe potuto mantenere intatto a lungo termine. I grandi classici della band li colloco tutti nel primissimo periodo, da Total Disaster a Curse The Gods, e passando per la mia canzone preferita dei tedeschi che era senza alcun dubbio Death Trap. Ricordo pure che Eternal Ban era diventata la mia hit simbolo di quel periodo in cui girellavo per vari canali mIRC bestemmiando, e facendomi cacciare senza una precisa ragione. Ma ricordo anche che nessun album dei Destruction è complessivamente bello quanto lo è Release From Agony per il sottoscritto. E’ come se la maturazione dei due musicisti simbolo fosse giunta al punto d’un botto: in esso vennero ridotte ai minimi termini le caratteristiche minimali ed estreme tipiche dei precedenti, ma non per questo Release From Agony finiva per risultare meno oscuro di essi. Vi basterebbe Signs Of Fear per convincervi di ciò, e in linea di massima era tutto quanto molto bello fatta eccezione per un paio di pezzi un po’ più ordinari, e situati nella seconda metà della scaletta. Survive To Die in chiusura, però, la trovai meravigliosa. Era il cosiddetto lavoro della maturità, un po’ come Terrible Certainly dei Kreator, ovvero quell’istante in cui una bella fica va per la prima volta dall’estetista, ma in un primo approccio conserverà il buon senso necessario a non lasciarci cinquecento euro, per uscire di lì conciata come un grottesco albero di Natale con le tette. Si da’ un’aggiustatina che risalterà le sue migliori caratteristiche e – una volta tornata in giro – costringerà tutti i maschi del quartiere a girare il capo. Pochi anni dopo, ci si farà anche prendere la mano con quest’estetista, conciandosi come una escort di lusso e pubblicando Coma Of Souls. Che è ganzo per davvero, ma è proprio lì che iniziano a mancarti tantissime cose di lei.

Se Release From Agony risultò così affinato fu anche merito di un certo Harry Wilkens, dato che la band era diventata un quartetto da circa un anno, e non in molti lo avrebbero notato. Dopodichè ci fu il Vietnam. Sifringer, in questa cosa dell’avere iniziato a suonare meglio ci si rotolava con piacere, ed anche se la produzione di Release From Agony non rese giustizia a questo aspetto, le cose stavano esattamente così. Non era diventato di colpo Tommy Vetterli, ma un buon mestierante dotato di una certa capacità nella scrittura. Gli venne in mente di evolvere il thrash metal dei Destruction, poichè in quegli anni tirava forte il techno-thrash e pure in madrepatria si era venuta a formare una corrente tutta sua, alimentata dai Deathrow del bellissimo Deception Ignored, dai Mekong Delta e perfino dai Sieges Even dei fratelli Holzwarth. O almeno per quello che riguardava Life Cycle, piuttosto che il resto della loro seguente e folle discografia. Questo aspetto devastò Schmier dall’interno, dato che già Release From Agony – lì la sua migliore prova vocale di sempre – non lo aveva soddisfatto.

I Destruction finirono di scrivere Cracked Brain e in pratica Schmier cominciò a rompere sempre più le palle fino ad essere licenziato: a detta sua, le coordinate della band avrebbero dovuto rimanere inchiodate sull’aspetto più truce e minimale, mentre Sifringer necessitava di sfoggiare i suoi miglioramenti tecnici e creativi, sempre all’interno della stessa creatura in cui era cresciuto. Ne risultò un album per niente brutto, estremo quanto lo potevano essere i Paradox e cantato da un certo André Grieder, nato in Svizzera. Questo tizio aveva già fatto le backing vocals per la band in passato, ed era noto per i suoi trascorsi nei Poltergeist dei quali – se proprio volete sentire qualcosa – potreste mettere su quel Behind My Mask che mi comprai a scatola chiusa in un negozietto di Firenze, come se avessi trovato un lingotto d’oro fra i suoi scaffali. Quell’album, giusto per ritornare ai Kreator, da’ la stessa sensazione di passo in avanti che poteva trasmettere un Extreme Aggression, ma è molto meno riuscito di esso e in molti lo avrebbero ricordato – più che per altro – per l’ennesimo tentativo da parte di un gruppo musicale di qualunque filone, di coverizzare la solita My Sharona (The Knack). Furono opzionati pure Robert Gonnella degli Assassin e Flemming Ronsdorf degli Artillery per rimpiazzare il deluso Schmier, e se posso dire la mia, quest’ultimo ne sarebbe stato il sostituto ideale. Ma non ci fu niente da fare, Sifringer voleva portare avanti il suo discorso e farlo possibilmente a modo esclusivamente suo, un po’ come chi pretese di stanare ogni Charlie dai labirinti sotterranei costruiti nella giungla più ostile.

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Schmier overreacts to Cracked Brain’s songwriting process

In contemporanea, si poteva quindi presagire che Schmier avrebbe fondato la band capace di incarnare il Male meglio di ogni altra, una sorta di Sarcofago biondi e pieni di lentiggini o giù di lì. Tutte cazzate, Schmier poteva tranquillamente restarsene nei Destruction anziché aspettare dieci anni per tirar fuori All Hell Breaks Loose con essi. Avremmo infatti riascoltato la voce acida del cantante di Friburgo sotto forma di un progetto chiamato Headhunter. Che poi non erano un grappolo di perfetti sconosciuti con lui al microfono, dato che alla batteria ci sarebbe stato un certo Jorg Michael: gli Headhunter cacciarono fuori ben tre dischi negli anni Novanta, e vennero alla luce sotto forma di un power/speed mediamente caciarone, ma comunque più reale e sopportabile dei più recenti Panzer (ennesimo supergruppo di casa Nuclear Blast, che sentitamente ringrazio per non avermi fatto sentire la sua mancanza). Con gli anni sono venuto a maturare l’idea per cui Schmier, in realtà, sia stato violentemente cacciato dai Destruction perché colto ad acquistare wurstel di pollo, o qualcosa di simile. Sul serio, non ci credo che Release From Agony fosse un discorso da non portare avanti perché gli frullavano in testa gli Headhunter, favorendo così l’abbandono totale di uno come Sifringer, il quale sarebbe finito in balia delle peggiori cose mai incise da una band tedesca. Permettere a Sifringer di combinare quelle cose, fu pura cattiveria.

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Non impiegherò più di qualche riga per descrivervi i tre album che Sifringer mise alla luce per evolvere i suoi personalissimi Destruction. Che poi erano l’omonimo, rarissimo ma in qualche modo ce la feci e quindi mi toccò ascoltarlo originale, seguito dal terrificante Them Not Me e da The Least Successful Human Cannonball, una sorta di competizione con gli stessi Headhunter volta a scrivere il peggior titolo possibile, vinta da questi ultimi con A Bizarre Gardening Accident del 1992. Gli album dei Destruction che nessuno vuole mai nominare allo specchio, col timore che gli si materializzino alle spalle, consistevano in un inconsistente groovy-thrash avvelenato dai Novanta, e che in Europa già altri avevano provato a mettere in pratica con risultati sempre migliori, tipo i Gurd di Addicted nei quali appunto militava V.O. Pulver dei Poltergeist. Se vi piacciono i Forbidden dei due album più criticati, Distortion e Green, date una chance ai Gurd. The Least Successful Human Cannonball finì per risultare uno dei peggiori album di sempre, caratterizzato da qualche riff simpatico come potrebbero essercene in Remains degli Annihilator, e da canzoni che in nessun caso sfociano in qualcosa di realmente utile. E batte i due predecessori poiché entrambi erano degli EP, mentre alla terza uscita fu presentato molto più materiale: quindi ci fu molto più lavoro dietro, e Sifringer ebbe molti mesi per ripensarci e tornare sui propri passi, ma sappiamo quanto quegli anni abbiano fatto malissimo a una marea di gente.

Aggiungo inoltre che quella roba fu tutta quanta autoprodotta, chissà per quale motivo, e che in un’epoca revivalista come quella che viviamo non attendo altro che il tour in cui, per qualche oscuro motivo, i Destruction decideranno di risuonarli da cima a fondo richiamando per l’occasione Thomas Rosenmerkel al microfono, mentre Schmier ri-registra i vecchi classici degli Headhunter. Non ascoltatelo, e piuttosto ripensate a quella volta in cui Mad Butcher distrusse tutto quanto al Rock Planet di Pinarella di Cervia, ovviamente in compagnia di Sodom e Kreator, oppure ai migliori album post-reunion, come The AntichristMetal Discharge oppure Spiritual Genocide. Ma quello, vi prego, lasciatelo a macerare su YouTube. (Marco Belardi)

 

Dave Lombardo, Chuck Schuldiner ma soprattutto quel chiavatore di PHILLIP BOA

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Voi come state smaltendo tutti i ricciarelli, panettoni o sacchetti di datteri che vi hanno regalato nelle settimane scorse? Personalmente sono entrato in un pericoloso loop, che prevede io mi prepari un Earl Grey dopo il lavoro; me lo verso nella mia adorabile tazza nera dei Black Sabbath e lo accompagno con un po’ di questa merda dolciastra e un album, fine. Il caso vuole che dopo mesi intensi ed emozionanti all’insegna di Judas Priest prima, Voivod e Witherfall poi, in questo momento non stia uscendo proprio un cazzo. Il travaso di bile è dietro l’angolo e me lo causeranno di sicuro i Bring Me The Horizon fra una settimana scarsa, ma nel frattempo ho scelto di ritirare fuori un po’ di quella roba vecchia e che una ventina d’anni fa mi faceva diventare matto, in linea di massima perchè dovevo averla tutta quanta originale. Ecco l’unico motivo per scrivere qualcosa sui Voodoocult.

Immaginate questo tizio che suona new wave in Germania – e per un decennio scarso intorno agli Ottanta di mezzo – pure con un discreto successo. Cinque o sei canzoni le ho pure sentite, e ricordo me ne piacesse una intitolata A Crown For The Wonderboy che deve essere addirittura recente. Lui ha un nome con cui non sfonderesti neanche come proprietario di una creperia, così decide di chiamarsi Phillip Boa, il che, in abbinamento al capello da chiavatore seriale di cui dispone, dovrebbe sistematicamente farne il nuovo Dieter Bohlen (uno dei due Modern Talking). Sfortunatamente le sue idee sono malsane, e posso solo presupporre che di ritorno da un concerto dei KMFDM – strafatto – il Boa abbia acquistato una qualche rivista metal finendo per rimanere ulteriormente traviato dai suoi ignobili contenuti. Di sicuro ha letto le recensioni di Individual Thought Patterns e qualche altro signor disco, e si è messo a telefonare come un pazzo di là dall’Atlantico. 

La risultante è che tutti gli hanno detto di sì, e il leader dei Phillip Boa and The Voodooclub aveva appena fondato una delle band meno longeve e concrete di sempre, con i seguenti effetti di ricaduta:

Innanzitutto il lancio dei Grip Inc., che a dire il vero già esistevano ma avrebbero di fatto debuttato un anno dopo i Voodoocult, in occasione di Power of Inner Strenght.

La composizione di uno dei più brutti brani che io ricordi, tale Albert is a Headbanger, qui pure in buona compagnia.

Da qualche parte negli Stati Uniti Phillip Anselmo stabilisce che, una volta litigato con tutti, formerà i Phillip H. Anselmo & The Illegals.

I Voodoocult di Phillip Boa hanno inciso due album per poi andare definitivamente a puttane. Una volta leggevo questo tizio scrivere che avrebbero dovuto cambiare cantante per trovare la quadra; la realtà era che lui impersonificava la band, e in occasione del secondo e omonimo lavoro cambiò quasi tutti (più probabilmente messi in fuga dall’evidente insuccesso di Jesus Killing Machine del 1994) naturalmente rimanendo al comando di questa nave mezza affondata e che continuava a imbarcare tanta altra acqua. La prima line-up sembrava quello che ti ritrovi in mano alla prima partita di Magic: The Gathering. Un’accozzaglia di elementi tanto diversi e incompatibili, un numero di chitarristi tale da rendere piccini gli Iron Maiden, ma giuro che a un certo punto di non ricordo quale canzone, in Jesus Killing Machine riuscii chiaramente a distinguere un passaggio memore del Chuck Schuldiner dei suoi lavori più orientati all’heavy metal. Quelli che non aveva ancora composto, per intenderci. Nonostante questa cosa da lacrima che scende lenta, Jesus Killing Machine si presentava come una sorta di zuppa post-thrash in cui erano a proprio agio sia Waldemar Soryctha, sia il Gabby Abularach a quei tempi impegnato coi Cro-Mags. Non che si capisse, dato che tutti suonavano sopra a tutti gli altri, ma lì dentro c’era pure l’elemento segreto nonché portato dalla Germania di cui il Boa era nativo, ed avente il nome di Mille Petrozza. Quest’ultimo avrebbe lavorato di lì a poco sul violentissimo Cause For Conflict, ma era evidente quanto si trovasse in una fase di rigetto nei confronti delle sonorità classiche a cui oggi lecca morbosamente il culo, quindi non fu sorprendente trovarcelo coinvolto, rispetto al Chuck Schuldiner che aveva da pochissimo lavorato insieme ad Andy LaRocque. E niente, il tutto suonava come avrebbero suonato gli Strapping Young Lad se fossero stati delle persone normali.

Prendete gli Anthrax di Sound Of White Noise per il groove, i Forbidden di Green ed i Gurd per il riffing, infine Renewal dei Kreator per l’attitudine indubbiamente punkettona. Escono fuori i Voodoocult, che in Jesus Killing Machine si giocavano le poche carte buone a disposizione quasi subito, fra una feroce Killer Patrol (il brano più aggressivo del lotto insieme a quello che prendeva in prestito il nome dalla band stessa) e una ottima Metallized Kids, per poi rallentare i ritmi di colpo con quella title-track davvero vicina allo stile di Youthanasia dei Megadeth ed alle sue possenti mid-tempo. E sorretta, aggiungo, da linee di basso seriamente impeccabili. A suonare queste ultime c’era David Ball, ovvero uno dei successori del rimpianto Paul Raven dei Killing Joke e dei Ministry: ma ovviamente non se lo inculò nessuno, questa era la nuova band di Schuldiner e di Lombardo, punto. Il batterista, messo alla porta dai contrasti interni presenti negli Slayer si venne a trovare in una fase di scarsa vena creativa. E’ ben riconoscibile a dispetto delle ottomila linee di chitarra che facevano pensare anche ad amici di Phillip Boa qui presenti in forma uncredited, ma un po’ il rullante effettato sulla scia dei suoni di fine anni Ottanta, un po’ il suo dirompente stile qui ridotto ai minimi termini come sarebbe accaduto anche su certe composizioni dei Grip Inc., non resero di certo memorabile la sua prova dietro alle pelli. Il Dave Lombardo definitivo lo trovammo in South Of Heaven e Seasons In The Abyss, e chiudo la parentesi perché ho in cantiere un articolo su batteristi in cui – se mi dilungo ora – poi non so che scriverò.

Dopo la decente Born Bad And Sliced! prende tristemente campo una parte centrale nella quale Jesus Killing Machine finisce per rivelarsi una autentica atrocità per l’ascoltatore. Si riprenderà un po’ verso la fine, ma non è abbastanza. A dirla tutta, trovo più continuo l’album omonimo del 1995, che forse peccava sul fronte delle hit (trovateci una Metallized Kids, no, non c’è) ma perlomeno non aveva quella mezz’ora abbondante di pezzi capaci di sfiancare quanto una gastroscopia fatta da uno stagista a cui tremano le mani. Piccola nota finale sul secondo disco e poi la finisco, lì avremmo riabbracciato Jim Martin dei Faith No More, o meglio in fuga da essi dopo Angel Dust, e la coppia formata alle chitarre con Gabby Abularach sarebbe finalmente divenuta compatta e dotata di una maggiore identità. Alla batteria, invece, si collocò un altro ex compagno di Waldemar Sorytcha, ovvero Markus Freiwald con cui suonò nei Despair (uno dei gruppi storici della Century Media di cui prima o poi parlerò, erano in sostanza un act thrash metal, erano anche molto avanti rispetto al resto del carrozzone per l’epoca e particolarità delle loro composizioni). Freiwald è stato di recente un membro dei Sodom, ma non racconterà di questo ai nipotini poiché si parla di roba come Epitome Of Torture e Decision Day.

Date una chance a Jesus Killing Machine, ma non dategliene due o rivomiterete cotechino, lenticchie e tutto quanto il resto. (Marco Belardi)

Mina, Sanremo, Sid Falck e altri traumi da Black Album

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L’inizio delle riprese dell’episodio pilota di Walker Texas Ranger, serie di successo dei Novanta

È inevitabile che l’album dei record causasse degli strascichi, nel bene così come nel male. Oltre cinquecento settimane in classifica Billboard, sedici milioni di copie vendute – c’è chi dice trenta, chi spara cifre ancora differenti facendo ricorso al supporto digitale – e un modo di suonare che pur scontentando una enorme fetta di fan dei Metallica, fece distinguere l’omonimo, e rinominato generalmente come Black Album, da tutto quanto il resto. Questo non è un articolo su di lui, ma riguarda un paio di chicche o magari oscenità uscite giusto un paio di anni più tardi, in piena epoca heavy rotation di Enter SandmanNothing Else Matters, in pieno tour mondiale, ed al primo taglio di capelli affrontato dalla band californiana: quello di Jason Newsted.

Il primo titolo è I Hear Black: ultimamente sembro l’addetto stampa degli Overkill, dato che oltre a parlar male di Necroshine su Avere vent’anni, a breve mi vedrò impegnato col loro nuovo disco in studio. Il successore di The Grinding Wheel, per intenderci. La cosa che non mi è mai andata giù di quel lavoro, è che non c’era più Sid Falck: è uno dei miei batteristi preferiti in quell’ambito e sostituì un membro fondatore come Rat Skates, che in seguito sarebbe finito a fare il regista di documentari sulla musica. Da come ho sempre interpretato l’intera faccenda, nell’anno del tour di Horrorscope gli Overkill si sono ritrovati privi di un batterista per le tanto temute divergenze stilistiche.

Se Carlo Verni e Bobby Ellsworth costituivano di fatto la band, e i due nuovi chitarristi un’ottima variante al tema precedente, offerto dal grandioso Bobby Gustafson, al contrario la figura di Sid Falck appariva molto più delicata di quanto si potesse pensare. Non mi è mai piaciuta la sua prestazione su Under The Influence, proveniva dai Battlezone di Paul Di Anno e probabilmente affrontava un delicato periodo di adattamento. Ma in The Years Of Decay e soprattutto Horrorscope, fu un’arma in più per gli Overkill. Chi di voi non ha ancora stampato in testa l’attacco di Infectious o quello di Thanx For Nothin’? Credo che Sid Falck avesse avvertito qualcosa nell’aria, l’arrivo della cosiddetta Sindrome Traumatica da Black Album, forse. Avete mai visto quelle vecchie immagini di repertorio coi soldati seduti in trincea, e il loro sguardo perso nel vuoto? Nel 1992 Bobby Ellsworth doveva essere all’incirca in quelle condizioni, alla ricerca della via da seguire. E non è che fece proprio un capolavoro di scelta, anche se mi sarebbe andato a genio lo stesso.

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I Hear Black figura fra i miei sette o otto album preferiti degli Overkill, non è un gran numero ma bisogna pur contestualizzarlo all’interno della carriera di una band che ha già raggiunto quota diciotto, più alcuni EP. Qualche settimana fa ho fatto una specie di sondaggio domandando agli altri che cosa pensassero di I Hear Black, e le risposte non sono state delle più rassicuranti. A quel punto e non avendo un cazzo da fare, ho deciso di estrarre Sid Falck dall’articolo sui batteristi che non scriverò mai, e di dedicare qualcosa proprio a lui, aggiungendoci I Hear Black. Il disco che gli Overkill incisero nel 1993 ha quel qualcosa per cui vado pazzo, e che avrebbe trasformato in pochi giri di boa i Metallica, in quelli di Load. La sostanza di base era sempre il thrash metal, ma fu ciò che si poteva leggere fra le righe a bollarlo come il peggior flop della band della East Coast, poichè I Hear Black non era lontanamente il Black Album. In termini mediatici e non solo. Osava nella misura in cui lo avrebbero fatto gli Overkill, cosicché sarebbero rimasti un’ottima band circoscritta al carrozzone dell’heavy metal, ma su Atlantic Records.

Eppure le prime tre in scaletta facevano pensare bene: via la velocità del thrash metal di Coma, dentro ritmiche più corpose e supportate dal discreto Tim Mallare – che ironia della sorte, all’epoca aveva prestato la batteria a Sid Falck per fare il provino con la band – e un suono molto impastato, non più cristallino, e stavolta ricco di bassi. Non mi dispiacque quella produzione, Alex Perialas aveva già lavorato con loro su Under The Influence ed era il nome dietro a molti dischi di Testament e Nuclear Assault. Sono quei suoni che, pur non essendo esenti da mastodontici difetti, un po’ ti rimangono dentro e alla fine ti ci affezioni, tipo Divine Intervention per essere chiari.

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Sid Falck

Dreaming In Columbian aveva un riff bellissimo e il solito coro capace di farti pensare a certe cose un po’ punk degli esordi così a ridosso dei The Lubricunts. Poi c’erano i ritornelloni, quello della title-track – meraviglioso – palesemente intenta a procedere sulla scia del blues della celebre Horrorscope di due anni prima. E World Of Hurt, l’autentico capolavoro del disco, con il semplicissimo lead di chitarra da manuale della musica e posto in apertura, il chorus indimenticabile, ed il riffone alla Pantera in mezzo che centrava e distruggeva ogni possibile bersaglio. Con ciò non intendo prendere le difese di I Hear Black oltre i limiti imposti dalla decenza: c’erano anche Shades Of Grey che pareva una cover degli Alice In Chains, e qualche altro momento per niente azzeccato – come Ignorance & Innocence – a giustificare pienamente la prematura fuga di Sid Falck.

Nel corso degli anni ho sentito criticare I Hear Black perché nella copertina non era ricorrente il tradizionale colore verde delle precedenti, e per una serie di altre cazzate colossali: io ci sono particolarmente affezionato, e lo sono anche verso suoi brani minori come Just Like You o Spiritual Void. Nulla toglie che le prime tre, forse quattro includendo Feed My Hand, fossero di uno spessore irraggiungibile per le altre. Ma siete davvero convinti che cose come NecroshineBloodletting e tutto quello che hanno registrato fino al pessimo Immortalis tengano minimamente botta con I Hear Black?

A proposito di Sid Falck, che fa adesso? Ha formato questi Infectus 13, e pubblicato qualche anno fa un singolo dal titolo Enemy At The Gate in cui riconosciamo perfettamente il suo stile. E’ la canzone ad essere di un valore piuttosto dubbio, ma ce la facciamo andare bene lo stesso, in particolar modo perché non se la sta passando nel migliore dei modi da quando sono emersi alcuni problemi al cuore. Comunque, non lo biasimerò mai per essere fuggito prima di dover registrare il Black Album sbagliato degli Overkill.

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Infine e sempre per il capitolo 1993 ci sono i Life Of Agony, provenienti dalla East Coast esattamente come gli Overkill. River Runs Red è l’unico loro album che apprezzo insieme al successivo Ugly, ed entrambi non li rimettevo su da quando avevo circa quindici anni. Il che significa che oggi l’ho rifatto. Credo che la mia volontaria astinenza dalla loro musica dipendesse dal fatto che, a partire dal terzo lavoro di cui ho fortunatamente rimosso il titolo, Keith Caputo si fosse messo a cantare sempre peggio, affiancato suo o nostro malgrado, da quelle parti ai limiti del punk rock che li hanno portati verso il gorgo dell’indecenza priva di compromessi. River Runs Red è invece una piccola perla del metal alternativo anni Novanta, che, una volta almeno nella vita, dovremmo avere ascoltato per forza.

Può piacere come non piacere, ma è uno di quei passaggi obbligatori per poter capire a fondo i progressi e i danni apportati dal Black Album – in buona compagnia del mio amato grunge – nel corso di quegli anni frenetici. Le chitarre avevano non poche affinità col disco dei Metallica del 1991, incluso un ricorrente retrogusto blues e una pesantezza palesata ma che tendeva a rimanere elemento di fondo, mentre gli ottimi suoni furono opera di Josh Silver, il tastierista dei Type 0 Negative. Pure il batterista Sal Abbruscato proveniva da lì, insieme a molti degli elementi che composero lo stile iniziale dei Life Of Agony: il disco partiva veloce e dopo pochissimi secondi sprofondava nell’oblio come se volesse un po’ prenderti per il culo. Il genio stava pure in questi piccoli dettagli, e se Joey Zampella dietro alla sei corde gli concesse in larga misura lo stile, fu il bassista Alan Robert a scrivere praticamente tutte le musiche di River Runs Red.

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“I WANT YOU!”

Il concept invece era la solita solfa anni Novanta mista fra solitudine, depressione e suicidio, con la voce di Keith Caputo costantemente presa a richiamare Glenn Danzig, ed all’apice per rabbia ed espressività. Mentirei se affermassi che apprezzo la sua scaletta da cima a fondo: in linea di massima mi prendono molto di più i brani portati all’estremo, cioè quelli capaci di suonare più lentamente e pesante possibile, come da manuale degli anni immediatamente successivi. Words And Music era il manifesto del loro modo di suonare insieme a This Time, ed ogni tentativo di accelerare non ha mai catturato a sufficienza la mia attenzione: ho saltato sistematicamente un pezzo come Through And Through proprio per il fatto che me la ricordavo, ma per quanto una Method Of Groove partisse anch’essa ai limiti del concetto di insopportabile, una volta al cospetto del riff centrale si gode, punto.

Per quel che mi riguarda la loro storia si conclude con questo disco e con il più che discreto Ugly: in seguito si sarebbero sciolti e riformati a piacimento, pubblicando ciclicamente altro materiale che non ho mai saputo apprezzare. Il più recente dei loro dischi è intitolato A Place Where There’s No More Pain e risale giusto a un paio di anni fa, non l’ho mai voluto ascoltare, e tutto ciò che so è che adesso Keith Caputo si chiama Mina. Da non confondere con quella di Le mille bolle blu. (Marco Belardi)


La Maggot Stomp Records e una riflessione sull’underground

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Oggi parliamo di underground, quello vero. Quello che usa ancora le cassette non perché qualche hipster barbuto con la maglia a righe e gli occhiali con la montatura spessa dice che è di nuovo fico, ma perché i demo su cassetta e i 7” furono l’humus dell’underground ai tempi in cui questo era più fertile, e evidementemente c’è chi oggi vuole portare il proprio sincero e genuino tributo a questi supporti. Parliamo quindi di Maggot Stomp Records. Questa è probabilmente gente che è cresciuta come me nell’epoca del tape-trading e dei volantini fotocopiati in bianco e nero e, in quanto nostalgici dei vecchi formati, vuole recuperarne le sensazioni: lo scartare una cassetta e aprirne il libretto, lo shock visivo di una copertina in bianco e nero con qualche colore acceso qua e là (rosso vivo o blu intenso) o il 7” che puoi comodamente trasportare a mano. Alcuni demo di cui parliamo qua oggi sono successivamente stati stampati in 12”, garantendo un’opzione anche per quelli che, come il sottoscritto, pur ricordandone con piacere l’epoca e le sensazioni, si sono liberati definitivamente del formato-cassetta da tantissimo tempo, seppure vedendo alcuni annunci su eBay o simili recentemente devo ammettere che mi è venuta la tentazione di recuperare un pezzo nuovo per il mio impianto.

1Sono quindi andato a spulciare il contenitore che davvero tiene vivo l’underground del metal estremo di questi tempi, ovvero Bandcamp, per andare a curiosare tra le ultime uscite. È così che ho scoperto i prodotti dell’ottima Godz ov War, di cui ho già parlato in precedenza, e alla stessa maniera sono venuto in contatto per la prima volta con questa misconosciuta etichetta californiana di cui ho sfogliato i prodotti e ascoltato le band. Il risultato? I miei fedeli altoparlanti della DALI hanno sanguinato per un po’. Sì, perché tutto quello che viene trattato dalla Maggot Stomp è una poltiglia sanguinolenta che si cerca di far passare per lo scarico di un lavandino, con conseguenti gorgoglii e rumori di ogni sorta. 

2Un roster che ricorda le più putride band svedesi e americane degli anni Novanta e composto quasi esclusivamente da giovani gruppi a livello di demo. Roba che ricorda, per intenderci, i primi Grave o Infester. Degli artwork che ci riportano quindi alle ‘zine o alle sezioni dedicate dalle riviste specializzate dell’epoca ai demo e 7”, quelle che più mi affascinavano e catturavano la mia attenzione, tanto che quando iniziò l’era dei direct download (e qualcuno di voi ricorderà Mediafire intorno a dieci anni fa, c’era di tutto e di più) andai a risfogliare tutte le vecchie riviste per vedere se avrei trovato un file da scaricare con quelle uscite che mi ero perso allora. Era uno stratagemma per rivivere in qualche modo le sensazioni che provavo al tempo in cui il supporto fisico era l’unica opzione, e c’era sempre quella magia del premere play e cercare di concretizzare in umori e sensazioni le parole che si potevano leggere su una recensione cartacea. Non ci crederete ma trovai un buon 80% delle cose di cui lessi anni prima. Mediafire era davvero un cecchino.

3Comunque tornando a noi e alla Maggot Stomp, andate a vedere l’offerta su Bandcamp e troverete titoli come Forms of Unreasoning Fear dei Mortal Wound, in cui questi californiani fanno il verso appunto al primo, pesantissimo death metal svedese, quello in cui i Grave si cimentavano con il demo Anatomia Corporis Humani, oppure i Frozen Soul, del cui imminente Encased in Ice al momento si può purtroppo solo sentire la traccia Merciless, dai suoni old school neri e opprimenti come la pece e il catrame versato in pubblica piazza sui malfattori ai tempi dei coloni americani. Tutto bellissimo, tutto lo-fi. Mi sono soffermato spesso in passato sulla “piaga” dei cloni degli Incantation (sempre e comunque meno piaga del death metal “mainstream” con i chitarristi bravi e i suoni Nuclear Blast), e non si può certo dire che ci siano elementi di originalità nel death metal (gli ultimi a portarne furono forse i Cynic nel ’93 o forse gli Amorphis e i Tiamat nel ’94 o ’95?), però come si fa a non rimanere deliziati ascoltando gli Encoffinized o i Church of Disgust?

4Date un ascolto a Sin Never Dies dei Grave Ascension e vi sembrerà di tornare ai tempi in cui chiedevate in prestito il 7” dei vattelapesca da suonare sul vecchio sgangherato giradischi dei vostri genitori che prima aveva visto solo i vari Battiato o Mina, per magari doppiarlo su cassetta vergine (o già deflorata in precendenza quando collezionavate tutto quello che era collezionabile dei Queen, il gruppo che vi ha introdotto al mondo della musica in maniera seria anni prima).

Il discorso intrapreso oggi si sofferma in particolare sulla Maggot Stomp, ma spero capiate che è principalmente un discorso che riguarda una cosa vitale per qualsiasi scena musicale, ovvero l’underground. Quello da cui tutti partono, e che alcuni ad un certo punto rinnegano, o che magari non rinnegano mai, ma che è il principio di tutto quello di cui abbiamo bisogno per garantire il ciclo vitale della nostra musica preferita. Quindi teniamo d’occhio la Maggot Stomp, se vi piace il death metal, ma spulciamo anche le tantissime altre etichette presenti sulla piattaforma e che ancora non conosciamo e che magari scopriremo domani o dopodomani. E grazie di esistere, Bandcamp. (Piero Tola)

Speciale LORDS OF CHAOS

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Qui a Metal Skunk abbiamo visto Lords of Chaos in massa e, date le circostanze, ne abbiamo scritto sei recensioni diverse. Eccole qui di seguito:

Lords of Chaos, il film sul metal a cadenza decennale – Matteo Cortesi

Home alone in Norway (tutta la verità su Lords of Chaos) – Il Messicano

Lords of Chaos, un film exploitation con i metallari dentro – Ciccio Russo

Lords of Chaos e la parabola del caffè al bar – Marco Belardi

Mamma ho perso il black metal – Edoardo Giardina

Lords of Chaos, il film sul black metal senza il black metal – barg

 

Da Sheepdog a Bob Reid: i RAZOR di “Shotgun Justice”

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Le cosa, almeno all’apparenza, ha davvero poco senso. Ma quando è uscito l’album dei Voivod, il mio preferito dello scorso anno, mi venne in mente di scrivere qualcos’altro sul metal canadese. Naturalmente volevo buttarla sul thrash metal come spesso faccio. Niente Annihilator però, dato che c’ero già passato tre volte, due delle quali in occasione di alcune delle peggiori cose mai scritte da Jeff Waters.

I nomi che mi sono venuti in mente di getto erano quelli di Razor e Sacrifice, lasciando momentaneamente da parte gli Exciter ed i meno conosciuti Dead Brain Cells. Ah, a proposito di questi ultimi, se vi piacciono gli album con il basso che sovrasta tutto, non potrete assolutamente farne a meno. Poi c’erano gli Slaughter di Strappado, ma quelli finiranno a diritto in una puntata de Le delizie dello scantinato. Il marcio che rasenta il sublime: basterebbe e avanzerebbe per descrivere Strappado. Avete appena visto quanto sia partito male e fuori tema, quindi l’articolo su Razor e Sacrifice momentaneamente riguarderà soltanto i primi, anche solo per evitare che vada avanti per una quindicina di pagine partendo dalla prima volta che Stace McLaren, alias Sheepdog, ha costruito una casetta sull’albero.

“I Razor erano gli Slayer canadesi”, questa è la risposta che vi sarà data se fermerete una signora anziana al mercato ortofrutticolo, o se rivolgerete la domanda a un ambulante che prepara gli hot dog. La cosa non è per niente sbagliata, ma ovviamente va precisato quanto i californiani andranno avanti in eterno con l’ultimo tour d’addio, in preda alle date sold out, mentre i Razor si occuperanno di una silenziosa quanto sporadica attività live, così come fanno da circa un ventennio, guardandosi bene dal pubblicare altro materiale in studio dopo averci provato con Decibels nel 1997.

I primi due erano molto belli, uno speed metal particolarmente aggressivo per l’epoca, alimentato dagli Slayer ma sufficientemente melodico nel gusto da richiamare certi aspetti della N.W.O.B.H.M.. Show No Mercy era assolutamente dietro l’angolo, ma se Show No Mercy era il cane, Evil Invaders era lo stesso animale dopo aver contratto la rabbia. Stace McLaren – a proposito di cani, dato che si faceva chiamare Sheepdog – era l’ingrediente segreto di quei Razor: teatrale, espressivo, dinamico. Il solo urlo iniziale di The Marshall Arts da Violent Restitution è necessario ai fini di volergli bene per sempre. Gli ultimi tempi di Stace McLaren dentro ai Razor furono molto altalenanti: Malicious Intent segnò il passaggio verso un thrash metal di maggiore spessore, Custom Killing semplicemente non mi piacque per la sua scelta di sperimentare dalle parti sbagliate. Probabilmente si trattava del loro peggior album dei tempi d’oro. E poi si arriva al periodo di cui ho intenzione di parlare. Violent Restitution – in Giappone circolava addirittura un rarissimo split con gli Hobbs Angel Of Death – era un bell’album, forse un po’ lungo, fatto sta che in seguito ad esso, Stace McLaren avrebbe mollato la band. Finì per un breve periodo negli Infernal Majesty, altro gruppo della scena canadese di cui ho già scritto su queste pagine. A proposito, il loro None Shall Defy era bellissimo, e se non l’avete, rimediate prima possibile. Uno come Sheepdog, ovviamente, non avrebbe parteggiato per l’opinione del sottoscritto: l’orientamento al satanismo di Kenny Hallman e compagnia bella mandò il frantumi il loro rapporto prim’ancora che iniziasse, ed il cantante si ritirò dalle scene in maniera del tutto prematura.

I Razor presero al suo posto un certo Bob Reid. Si parte da un presupposto: Bob Reid era un cantante nettamente inferiore al suo predecessore. Inizialmente si difese bene, limitandosi a riproporre uno stile basato sulle metriche caotiche di Tom Araya, e sfiorando in certi casi il plagio. Se lo ascoltate in album più recenti come Open Hostility, appurerete come si fosse messo a fare il verso perfino a Tom Angelripper. Quale era il suo intento? Oggi chiuderemo un occhio, e parleremo soltanto di Shotgun Justice, il mio disco preferito dei Razor. L’album è il classico punto d’arrivo: non si va oltre, ci si può soltanto finire vicini. La superiorità presunta o reale delle prime composizioni della band, come Executioner’s Song, stava soltanto nel fatto che essi suonassero un qualcosa di totalmente differente da ciò che troveremo qui. Shotgun Justice era tutto la sua copertina – peraltro molto brutta – raffigurante un tizio simile alla versione colta da calvizie del Kano di Mortal Kombat. Brani lunghi due minuti e mezzo o poco più, capaci di andare vicini a qualunque cosa presente su Reign In Blood nelle linee vocali di United By Hatred, senza però farti incazzare. Capaci di prendersela con l’hardcore punk di American Luck, riarrangiandolo nella migliore maniera possibile e immaginabile. Ogni tanto qualche rallentamento, che però mai sfociava in una prevedibile parte centrale mid-tempo: facevano piuttosto finta, per poi ripartire subito ad egual velocità, o ad una maggiore. I Razor che ti lasciano senza respiro, quelli già impreziositi dalla rinnovata sezione ritmica che debuttò su Violent Restitution. Quest’ultimo la versione più ottantiana e meno corposa di Shotgun Justice. Godete con l’opener Miami e procedete nel viaggio, non ve ne pentirete affatto: garantisce Dave Carlo, una autentica macchina da riff, l’unico reduce dello storico EP Armed And Dangerous. La prossima volta tocca ai Sacrifice, tanto per restare in tema di cantanti con la soda caustica in gola. (Marco Belardi)

Il virus che gira, gli SLAUGHTER e la tutela ambientale

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Non credo che Fenriz si sia alzato una mattina e abbia scritto Canadian Metal giusto perché gli girava così. C’è questa sindrome, questo virus che gira – come dicono gli anziani per le strade quando incrociano i loro simili – e adesso ce l’ho in circolo io. Sono due settimane che ascolto roba canadese e, in materia di roba canadese, dagli Slaughter non si scappa.

Il gruppo di Strappado, e sostanzialmente di quello soltanto, giusto per restare in tema di disturbi della psiche è l’unica cura possibile contro l’essere umano narcisista dei giorni nostri. Che cerca il biscottino bio fatto con i grani antichi perché si deve instagrammare in forma impeccabile, con tutti quegli hashtag di merda sotto tipo #follow #followme, e subito dopo, scattarsi un’ulteriore quindicina di fotografie sul divano, alla fermata del bus, sul posto di lavoro o in ogni altro luogo egli intenda trascorrere la propria amara esistenza. Laddove il processo evolutivo ha in qualche modo fallito, gli Slaughter non avrebbero neanche provato a intraprenderne il cagionevole percorso: mi immagino questi tre loschi canadesi, con i quali – ci tengo a precisarlo – per un breve periodo suonò perfino Chuck Schuldiner, intenti a percorrere chilometri di bosco alla ricerca di selvaggina da abbattere con metodi primordiali, per poi rincasare e registrare qualche demo tape. Idealizzandoli in tale maniera, non mi suona misterioso il fatto che non abbiano voluto proseguire, al contrario di Celtic Frost o Sarcofago, semplicemente perché in un mondo musicale ancora in procinto di plasmarsi a loro non andava più di stare al tavolo dei giochi. Ci provò soltanto Dave Hewson, il loro uomo di punta: formò gli Strappado e si inceppò al primo album, molto orientato al thrash dei primissimi Novanta, e così poco incisivo rispetto all’omonimo Strappado uscito solo qualche anno prima. Ci riprovò con gli Inner Thought, si ruppe i coglioni: giù il sipario.

Il vecchio inceneritore di San Donnino, luogo di rosticcerie cinesi e arcinoti strip club

Strappado non era solo bellissimo, ma anche molto difficile da giudicare. Esistono decine di album estremi formalmente superiori, ma la meraviglia sia musicale sia concettuale del primo ed ultimo LP degli Slaughter lo rese particolarmente arduo da pareggiare: un’autentica bomba quando ci andava pesante, come in Disintegrator, e forse anche meglio ogni volta che decideva di tirare il freno, consuetudine che caratterizzò soprattutto la sua seconda metà. Era una di quelle rare cose che riescono bene a prescindere dalla bellezza delle singole canzoni, proprio come accadde in Seven Churches. Ma come li ho conosciuti, gli Slaughter? Teenager, Coca Cola in mano al posto del cazzo: una sera accendo la TV e sento i Napalm Death suonare in una maniera pressoché inedita. Mi era già capitato con Diatribes ed ignoravo del tutto l’uscita di Leaders Not Followers: lì dentro avrei potuto fare conoscenza di questa cover, che andava a toccare un misconosciuto gruppo nordamericano. Erano gli Slaughter, ed il pezzo ripreso da Mark Greenway e Jesse Pintado si chiamava Incinerator. Non si scappa dagli Slaughter, nemmeno oggi e specialmente se sei fiorentino.

Ultimamente è tutto un parlare di ampliamento dell’aeroporto di Peretola, e costruzione di un eventuale inceneritore nelle zone limitrofe: ambientalisti contro promotori delle Grandi Opere, difensori dell’habitat ove vivono i tritoni e migrano le maestose spatole contro proclamatori di posti di lavoro e supporter delle energie rinnovabili. La royal rumble delle ideologie e delle opportunità: a prescindere da chi abbia ragione, ogni dannata volta che incrocio la scritta NO INCENERITORE sul muro di un fetido sottopassaggio o sugli striscioni appesi in faccia a qualche arteria stradale che taglia l’Osmannoro, è più forte di me. Io me la canticchio, la Sindrome Canadese riparte da capo e mi fa sempre più male.

Esemplare di spatola (platalea leucodoria) da me fotografato nel 2016, mentre, segretamente, già lavoravo su questo ignobile articolo

MAKE WAY FOR THE INCINERATOR…

In suits they were dressed, when the button was pressed

They fed upon semen, the government’s a demon

La cacofonia dei Possessed, il cantato a velocità pazzesche degli Slayer, il metal primordiale degli Hellhammer, crust punk, un’energia che stendeva perfino i Death Strike di Paul Speckmann: se volete una di queste cose, o meglio ancora le desiderate tutte, come droghe che chiamano, anzi, urlano forte dal di dentro sotto forma di una tremenda e martellante astinenza, smettetela di smanettare col cellulare e torturatevi i timpani con il disco giusto. Rispetto e rispetterò sempre la loro scelta di non andare avanti, ma gli Slaughter mi mancano, così come mi manca la semplicità disarmante ed efficace di questa tipologia di metal. La loro, oggi irripetibile; mentre qualche gruppo storico realizza il documentario a puntate sul making of dell’album nuovo, tuttavia molto simile ai dieci che lo precedono, mentre i Machine Head studiano l’arte della comunicazione parlandoci delle loro vicende familiari sul Tubo, e mentre l’apparire doppia l’essere come se quest’ultimo fosse la peggiore automobile iscritta alla Formula Uno, per giunta guidata da un pilota che si sta vomitando ciccioli e cuba libre nel casco. In un mondo ideale gli Slaughter sarebbero lì a metterli in riga come una safety car; in quello reale, i Napalm Death per fortuna se ne sono accorti, o forse ricordati, e hanno registrato quella cover. Perché la Sindrome Canadese arriva proprio dappertutto.

Note a margine: parte del materiale inciso con Chuck Schuldiner sarebbe uscito in pieni anni Duemila nella raccolta Fuck of Death. Un titolo meraviglioso, e che chissà per quale motivo mi ricorda quella anziana che mi ha fermato per strada chiedendomi se fossi un dog sitter, e pronunciando – testuali parole – COCK SICK. Gli Slaughter – infine – avrebbero contribuito per un’ultima volta con un brano in studio, nel tributo ai Celtic Frost uscito nel 1996. In quell’occasione si occuparono della celebre Dethroned Emperor: ancora una volta un suono pazzesco, sì minimale, ma aggiornato con un criterio degno di pochi eletti. (Marco Belardi)

Il brutto giorno in cui gli ALCEST firmarono per Nuclear Blast

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Per quattro o cinque anni non ne ho voluto sapere di seguire le nuove uscite, e mi sono concesso una pausa che ha sicuramente avuto degli effetti collaterali, tipo prendere a recensire di tutto inclusi dischi prenotati anzitempo dal Messicano. È intorno all’uscita di Surgical Steel, o forse un annetto prima, che ho lentamente ritrovato la voglia: ammetto di non aver letto news dal biennio 2007/2008, e che dunque non erano tanto i titoli a mancarmi, quanto il riuscire ad apprendere la mutazione di usi e costumi legati al marketing dell’ambiente metallico. L’aspetto peggiore e più irrinunciabile della musica che ascoltiamo, per intenderci.

Tutti vorremmo assistere al trionfo della puttanata secondo la quale un album, se di ottimo valore, si farà pubblicità da solo grazie al semplice passaparola, figuriamoci nell’epoca dei social network. Non è così, anche se ci sono situazioni in cui questo può certamente accadere e, in certi casi, perfino funzionare. Ma generalmente non sarà mai così. Se è assodato che nel mondo della musica non girano più i quattrini degli anni Ottanta e Novanta, ci sono etichette discografiche che lentamente hanno cannibalizzato un mondo intero: lasciate perdere le label di settore a cui vi eravate affezionati, perché i tempi trascorsi a ragionare del lavoro svolto da Earache o Peaceville sono definitivamente fottuti.

Oggi se vuoi essere un colosso non dovrai più scegliere una strada e battere soltanto quella – purché lo si faccia nella miglior maniera possibile – ma sarà necessario che tutti lavorino per te. Non per qualcun altro, proprio per te: fanculo la concorrenza e fanculo le etichette specializzate. Motivo per cui me ne ritorno a seguire le nuove uscite, e la prima cosa che mi salta all’occhio è: dai, i Kreator non sono più su SPV, hanno firmato per Nuclear Blast. Che poi è la stessa casa discografica, vado in ordine alfabetico, di Accept, Blind Guardian, Death Angel, Dimmu Borgir e dei nostri Fleshgod Apocalypse. I Grand Magus, Cristo, i Grand Magus. Oltre agli In Flames ed ai Meshuggah, oppure i Nightwish buttati nello stesso calderone dei Soulfly. Ci sono pure quei giocherelloni dei Therion, che mi hanno fatto perdere tre ore moltiplicate per più di un intero ascolto dietro all’ultimo disco, e naturalmente non mancano all’appello i Vader. Su qualunque aspetto del metal andrai a puntare il mirino, individuerai gente che è sotto contratto con l’etichetta fondata da Markus Staiger: vi ricordate le loro storiche compilation, e di cosa si occupavano precisamente? Il problema è che poi una casa discografica finirà col determinare delle linee comuni da seguire per rendere più accattivante e vendibile la propria proposta, tipo, far suonare i gruppi secondo certi standard o canoni, e lasciando magari una maggiore libertà artistica soltanto ad alcuni di questi. Come per fortuna è accaduto ai Paradise Lost.

Lo straziante trattamento iniziale che le grosse etichette hanno riservato ai gruppi di punta, è stato quello di plastificarne il suono: puoi essere Gene Hoglan oppure Mike Mangini, ma il tuo rullante nel 2019 suonerà con buona probabilità nella stessa e identica maniera, la cassa farà ancora peggio, e il tuo stile celebrato anni addietro da album come Time Does Not Heal verrà nascosto dietro ad una sorta di filtro. Ma soprattutto mi è ignota la causa di tutto ciò: costa di meno produrre una batteria così, oppure è l’audience contemporanea che richiede sul serio un prodotto simile? Ne ho già parlato in un altro articolo e quindi non mi dilungherò su questo argomento, ma ci tenevo a ribadirlo. Un’altra cosa preoccupante è l’associazione di un marketing spinto alla promozione degli album, e sinceramente non me lo ricordavo così privo di freni inibitori a metà del decennio scorso: oggi ci sono i documentari in più puntate sulla realizzazione degli album. Ripeto, i documentari. In una puntata parlano dei testi, nella seguente c’è il cazzeggio in studio, laddove tu, la band, mi elencherai i motivi per i quali chi ti finanzia vuole che il tuo nuovo prodotto suoni identico a quello dei Destruction. Ma seriamente fate questo per trecento copie in più? Oggi i soldi girano sui concerti o al limite sul merchandising, dovreste provare semplicemente a realizzare il miglior disco che vi esce fuori e non a badare a queste puttanate in serie, che tanto non è un’idea vostra ma la sola standardizzazione di un metodo promozionale che interesserà a quattro gatti. Come se non fossero bastate le copiose interviste, tutte quante uguali, che abbiamo letto per venticinque anni: parlami del vostro nuovo album, presentami il nuovo bassista. Sì, è il più potente e melodico che abbiamo realizzato, Fred è un ottimo interprete del suo strumento, ci siamo subito trovati fottutamente bene, ma sto omettendo che tra un anno lo butterò fuori perché si sarà fatto succhiare il cazzo dalla mia donna.

Sì, è lo stesso campo da gioco

E poi ci sono i Machine Head che registrano da capo Burn My Eyes e andranno in giro a suonarlo per intero: ma sul serio volete sbattere la testa su una cosa lavorata da Colin Richardson nel 1994, in pieno boom del metal su MTV? Perché fare una figura di merda così grossa, e perché togliere l’anima a un titolo come Burn My Eyes? Un conto è remixare Enemies Of Reality perché suonava come una lavatrice piena di jeans imbottiti di monetine, un altro è andare a scomodare esattamente Burn My Eyes in cui non c’è sostanzialmente niente, proprio niente, che non vada benissimo.

In attesa che qualche ambientalista squarti la pancia di una Tama e vi rinvenga qualche chilo di plastica non digerito, leggo che gli Alcest hanno firmato anch’essi per Nuclear Blast. Piccola parentesi: che cosa diavolo c’entrano gli Alcest con Nuclear Blast è la domanda a caldo. La risultante a freddo è che probabilmente corrispondono a dei criteri di selezione tra cui numero di copie vendute sia fisiche sia digitali, bacino di utenza sui social, tipologia di attività live e relativo responso che ne deriva. Tra dieci anni nessuna band in grado di produrre un album che sia perlomeno decente – ma ammetto che la musica di Stephane Paut mi ha sempre preso fino ad un certo punto, cioè pochissimo – sarà fuori da quelle tre enormi etichette in grado di potersi permettere tutti i nomi che contano, anche se questi contano relativamente poco. Band del genere se le aggiudicheranno quelli come Nuclear Blast, livellandone il modo di suonare, il pensiero, e la tipologia di puttanate da dire ai social quando sta per uscire qualsiasi cosa che duri più di un EP. Faranno uscire un videoclip testuale perché le parole che scorrono riducono i tempi di girato necessari, e di conseguenza i costi di produzione, e cose così. La nostra musica che parla di Caproni, mutilazioni e gatti in calore che urlano in una notte nebbiosa, ridotta a una sequenza di input ed output degni di uffici gestiti da cinquantenni, che, nel lontanissimo 1990, sicuramente vomitavano contro un muro fetido dopo averci dato troppo dentro con la Bière Du Demon, e in sottofondo Spectrum Of Death dei Morbid Saint. Da quel giro rimarranno fuori quei gruppi death metal tutti uguali agli Incantation, e qualche frangia definibile come underground la cui musica non interessa a certi Colossi per evidenti motivi. Vent’anni fa, l’esistenza di un numero spropositato di etichette poteva sembrare un problema; oggi, molte di queste chiuderebbero nel giro di sei mesi, sempre e comunque per evidenti motivi.

Ma con il più potente e melodico, che cosa intendono? Mille Petrozza me lo disse sul serio, era la prima volta che lo sentivo e mi fece malissimo. A breve distanza me lo ripeté la Gossow, fu così che iniziai a pensare si trattasse di una Setta. (Violent Revolution, 2001)

Riascoltare, adesso! (Charles, te l’avevo detto che ci infilavo un disco, qua dentro)

Andrew Wood e la definizione della parola “spreco”

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Vi sarà capitato plurime volte di riferirvi a qualcosa o qualcuno che delude le vostre alte aspettative o non risponde appieno ad un potenziale evidente con queste due parole: “che spreco”.

C’era una volta, in un paese di muschi, licheni, foreste, alto tasso di suicidi e uso di droghe pesanti, un ragazzo dal volto angelico e le guance paffute, un vulcano di idee artistiche e soluzioni melodiche sempre attivo e fumante, più piroclastico che fluttuante magma e detriti. Più come l’esplosivo monte Sant’Elena (punto di riferimento visivo di quella stessa regione buia e piovosa di cui si diceva poco sopra) che come il famosissimo Kilauea, con i suoi lenti fiumi di fuoco che scorrono costanti.

La scena di Seattle, che oggi viene considerata giustamente come una delle capitali mondiali del rock, ad inizio della cruciale decade degli anni Ottanta faceva schifo al cazzo. A parte i Queensryche o i Metal Church e qualche gruppetto più o meno degno di nota come i Fastbacks o i 10 Minute Warning, dediti ad un hardcore vecchia maniera e in cui militò per un periodo anche Duff McKagan, il quale decise poi a ragione di muoversi verso altri e più attivi poli musicali come quello della fiorente scena street/glam di Los Angeles, non c’era davvero nulla degno di nota, e la città del caffè soffriva la pressione del trovarsi tra due “luoghi sacri” del punk come furono appunto L.A. e la più sorniona ma ugualmente importante scena di Vancouver, ancora più a nord. Si dovrà aspettare fino a metà decennio per vedere qualcosa accadere nel nord-ovest, e principalmente grazie ad una manciata di nomi come Green River, Screaming Trees, Melvins, U-Men o gli straordinari Skin Yard di Jack Endino, principe dell’underground che tanti dei primi demo/EP produsse all’epoca. Questi avrebbero illuminato la via a chi ben sapete.

C’era però un altro nome che circolava da tempo nella scena, e che non produsse nulla di tangibile fino a quando tutto il materiale registrato esistente di tale band non venne raccolto e pubblicato nella raccolta Return to Olympus da Stone Gossard intorno alla metà del decennio successivo. Questa band si chiamava Malfunkshun ed era un culto assoluto di tutti i club di Seattle e dintorni, specialmente grazie ad un bizzarro maestro di cerimonie, che si faceva chiamare a volte Landrew, altre volte Love God o più semplicemente Love Child. Era un ragazzo che aveva sempre la battuta pronta ed un sorriso per tutti, Andrew Wood. Un ragazzo cui la musica scorreva nel sangue e che imparò a scrivere canzoni già da bambino, su di uno sgangherato pianoforte compratogli dai genitori in tenerissima età, distrutto durante il trasporto dal negozio a casa sul pick-up del padre e in seguito rimesso insieme alla meglio.

Andrew era un ragazzo gioviale che però, cosa comune a molti di quelli che amano rendere allegro il prossimo, nascondeva gli umori più cupi e tristi, che cercava di mitigare con un pesante uso di droghe, iniziato in età precocissima e sfociato in una devastante tossicodipendenza, che finì ovviamente con il compromettere in maniera irrimediabile i rapporti con le persone che gli stavano intorno, in un contesto familiare disastrato. Come ricorda il fratello Kevin, che militava nei Malfunkshun assieme ad Andrew, “ad un certo punto nostra madre era l’unica persona sobria in casa

Fece anni di gavetta sui palchi e sviluppò una presenza scenica magnetica, caratterizzata da bizzarri costumi e monologhi deliranti, che però non riusciva mai a far passare in secondo piano la sostanza, ovvero un’abilità nello scrivere e interpretare bellissime canzoni forse senza pari in quel di Seattle e zone limitrofe. Ad un certo punto, dopo una delle numerose disintossicazioni e quando già militava nei Mother Love Bone (secondo il sottoscritto la migliore band mai venuta fuori dall’epoca del “grunge”), si trasferì a casa di Chris Cornell, dove i due si scambiavano pareri e idee su canzoni e composizioni, in un sana e costruttiva rivalità tra due veri giganti del rock. Ecco, immaginate queste due leggende in una casetta di pochi metri quadri, che discutono su come arrangiare pezzi che poi sarebbero entrati nella Storia e avrebbero venduto milioni di copie.

Andrew ci ha lasciato in eredità le più belle ballate degli anni Novanta. Punto. Roba come Bone China, Chloe Dancer o Crown of Thorns, e influenzato tutto ciò che sarebbe venuto dopo, ovvero la creatura nata per mano di Stoney Gossard e Jeff Ament dalle ceneri dei MLB e diventata Pearl Jam.

Poi un giorno perse la battaglia con i suoi demoni, che teneva ben nascosti, e la cosa gli fu fatale. Successe poco meno di trent’anni fa, il 19 marzo del 1990, e fu una tragedia per tutta una città. Un’overdose lo stroncò e lo costrinse a stare attaccato un respiratore artificiale per giorni, fino a quando non ci fu altro da fare che staccare la spina. Beffa tra le beffe: morì senza nemmeno vedere uscire il primo full della sua band, quell’Apple che ad oggi rimane un capolavoro che mette i brividi, soprattutto pensando alla vita di un ragazzo che ha dato tutto per la causa, artista vero e rifinito, già maturo e chissà di cosa ancora capace.

Innumerevoli i tributi, su cui spicca ovviamente l’album dei Temple of the Dog, nome preso in prestito da una frase contenuta in un altro capolavoro di Andrew, la canzone Man of Golden Words. Tributo che contiene due pezzi, Reach Down e Say Hello 2 Heaven, che davvero suonano come un commovente omaggio di un compagno di stanza ad un amico perduto, e che sono ancora oggi tra le più belle cose scritte da Chris Cornell, tra i numerosi e indimenticabili pezzi di un’artista che andrà a trovare il vecchio amico giusto ventisette anni dopo la sua scomparsa.

Andrew era uno che non si accontentava ed ambiva sempre al meglio, musicalmente parlando, traendo probabilmente linfa vitale e creativa dalla sua disastrosa vita privata, e viene spontaneo pensare a cosa avrebbe potuto fare se non si fosse spento nel letto di un ospedale a soli ventiquattro anni.

Ecco ora lo posso dire anche io: che maledettissimo, strafottutissimo spreco. (Piero Tola)

Phil Demmel, dai Machine Head alla reunion dei VIO-LENCE

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Ricapitoliamo quel che è stato Phil Demmel per i Machine Head. La sua strada e quella di Robb Flynn si incrociano per una seconda volta nel peggior momento della band di Burn My Eyes: hanno da poco inciso il tremendo Supercharger, il gruppo è sempre più orfano di Logan Mader e occorre in tutti i modi ritrovare una figura di rilievo che occupi dignitosamente quel posto, lì, alla prima chitarra. Ahrue Luster è stato spedito agli Ill Nino con un biglietto di sola andata, con Flynn che sembra sempre più intenzionato a recuperare qualcosa dalle migliori annate. The Burning Red piacque comunque a un botto di gente, ma Flynn era andato a impantanarsi su ogni suo aspetto: dal look da venditori abusivi di lattine di Pepsi passando per una musica cacciasingoli che di grossi singoli, di fatto, ne aveva avuti più che altro con Old o Take My Scars. Flynn trova presto quella figura in Phil Demmel, il suo storico compagno ai tempi dei Vio-lence. Dal canto suo, il chitarrista non gli presenta un gran biglietto da visita: un album eccessivamente in debito con i Pantera uscito a nome Torque in pieni Novanta, ma il gruppo non durò. Un altro album con i Technocracy qualche anno dopo, di maggiore personalità e molto più moderno, che vi confesso non mi dispiacque affatto. Dopodichè lo richiama Flynn, e per i Machine Head inizia una sorta di seconda giovinezza.

Ricominciano istantaneamente a scrivere grandi pezzi, da Imperium a Halo, celebrando nell’intero The Blackening uno dei migliori episodi della loro intera carriera. Phil Demmel gli fornisce quella spinta, quell’entusiasmo che era venuto a mancare, e la cosa durerà fino ad un nuovo e graduale innesto della temuta retromarcia. Robb è uno che ci casca spesso: sa benissimo che le migliori cose gli riescono suonando in una certa maniera e con una spalla di spessore al proprio fianco. Dopodiché la tentazione di fare il botto lo assale nuovamente, spingendolo a prenderci a sistolate con la merda: sebbene Bloodstone & Diamonds non fosse un brutto album, e sebbene su pezzi come Beneath The Silt non si potesse dire niente di negativo, in esso individuai nuovamente il calo di dignità che ciclicamente assale il leader del gruppo californiano. Il già ambiguo Unto The Locust in confronto era oro, mentre su Catharsis ho già scritto anche troppo. Sul suo atteggiamento in ambito social network, pure: la line-up scoppia, e lo fa per intero, lasciando dietro di sé un solo superstite che si mette subito a riordinare le carte. È Flynn, naturalmente, e quest’ultimo deciderà di registrare nuovamente Burn My Eyes con gli uomini dell’epoca: me la sono sentita Davidian e sarà pure impeccabile, ma non ha più il guizzo e l’esuberanza di allora. È incordata come il mio maledettissimo collo e non duella – come dovrebbe – con una versione originale che necessitasse uno svecchiamento.

vio-lence.jpg

In parallelo c’è un tizio di nome Sean Killian che se la passa malissimo, affrontando la cirrosi epatica ed il conseguente trapianto di fegato. Lo guardi e ti sembra il tale al bar che ordina una grappa alle dieci di mattina, fa una pena infinita. Viene fatto un concerto benefico, seguito a ruota da una serie di comunicati stampa tutt’altro che rassicuranti. Cala nuovamente il silenzio fino a che, trascorsi alcuni anni, sarà annunciata a sorpresa la reunion dei Vio-lence! Lasciate che vi riassuma che cosa rappresentano i Vio-lence per il sottoscritto: una delle forme più pure di thrash metal americano con cui sono entrato in contatto nel corso della mia vita, nient’altro. Il thrash metal non è banale tremolo picking come mi disse l’amico Davide molti anni fa, ma il contrasto fra l’eleganza di riff strutturati e sezioni dinamiche, e una marcata anima punk che riporta tutto quanto a zero. Se poi c’è il tremolo picking, ben venga: ma non è lui, a concretizzare dal nulla il thrash metal. Semmai l’ingrediente segreto della scuola tedesca era l’ignoranza, dato che ne individuavi sia al cospetto delle band più estreme sia nei gruppi più raffinati come i Mekong Delta, ma negli States era tutto più in funzione del riff e – appunto – dell’eleganza. Con il punk dietro, sempre presente da qualche parte.

Le acque le ruppe Kill’em All, le sembianze più definite prima dello spartiacque le assunse Bonded By Blood, e poi ci fu appunto il terremoto del 1986. Prima che l’era del techno-thrash toccasse il culmine, o proprio mentre si accingeva a farlo, ci fu un album – di cui in molti si sono purtroppo dimenticati un po’ in fretta – e proprio quest’album si rese capace dell’impresa di rappresentare un ramo musicale come meglio non si poteva. Eternal Nightmare dei Vio-lence. Il disco in sé era un autentico capolavoro, che considero tuttora uno dei miei dieci preferiti del genere intero, e fece combaciare un thrash molto strutturato e suonato ad arte, con l’elemento di netto contrasto di cui ho accennato sopra. Quest’ultimo era niente meno che Sean Killian, uno dei frontman più ingiustamente criticati di fine anni Ottanta, la cui unica colpa su Eternal Nightmare fu semmai quella di essere mixato a volumi altissimi, e che nascosero infelicemente tutto il resto. Sean era espressivo, di chiara scuola punk, giocava tutto su toni altissimi e non si chetava un attimo. Eternal Nightmare, per quanto si presentasse ricco di parti veloci, aveva delle dinamiche pazzesche e solo nel finale – specialmente con Kill On Command – tendeva a pestare come un ossesso e senza dover presentare particolari rallentamenti. Nulla voglio togliere al successivo Oppressing The Masses, più strutturato, ben prodotto e anch’esso corredato da una copertina minimale e meravigliosa: se al secondo album della band californiana mancava soltanto Torture Tactics, che uscì a parte con un EP, ad Eternal Nightmare non sfuggì alcun dettaglio, tranne forse quel folle mixaggio che fu riservato a Sean Killian. Oggi, misurando la febbre alla fattibilità di questa reunion, lo risuonano per intero: le sue pazzesche linee di basso, la batteria inferocita di Perry Strickland, tutto Eternal Nightmare ritorna di scena coi suoi cavalli da battaglia, da Serial Killer passando per Phobophobia. Poche date per ora, di cui una europea prevista in Belgio: diamogli il tempo di carburare, e se mai dovessero annunciare qualcosa in studio, basta che le tempistiche non siano le stesse dei Dark Angel.

Nel frattempo, Phil Demmel qualche sassolino dalle scarpe se lo è tolto, fra una reunion e qualche data dal vivo con gli Slayer, in temporanea sostituzione di Gary Holt. La nuova line-up dei Vio-lence naturalmente non include Robb Flynn, che anzi, nei cinque lustri di gloria, di alti e di bassi con i Machine Head, l’argomento lo aveva sempre affrontato con il contagocce. Ci sono Strickland e il bassista Dean Dell, c’è l’imprescindibile Sean Killian e Demmel si è portato dietro il fido Ray Vegas, un tizio che fece capolino nelle ultime demo prima dello scioglimento, per poi ricomparire nei Torque. Demmel ha ammesso che i Vio-lence li avrebbe ritirati fuori dal cassetto ben prima, cioè in seguito all’esperimento fatto con i Technocracy. Ma essendo divenuto membro fisso dei Machine Head, sembra gli fosse stato impedito, con la differenza che James Hetfield nell’impedirci di ascoltare il frutto dei progetti paralleli di Jason Newsted, ci stava solo facendo un grosso favore quando gli puntammo tutti il dito contro. Mentre i Vio-lence ritornano fra noi giusto con quindici anni di ritardo, in un periodo nel quale i nomi alla ribalta non mancano affatto, leggasi alla voce Sacred Reich (in odor di split con gli Iron Reagan, di cui vi parlerò prossimamente). Auguri, Phil, e soprattutto auguroni a Sean Killian per tutta la merda che hai dovuto subire in questi ultimi anni: ora pensa a urlare dietro a quel microfono. (Marco Belardi)


Santi e ruttatori: teorie sul death metal svedese andate a puttane

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Il mio amico, e oggi collega, Trainspotting manda in una delle tante chat-cazzeggio di Whatsapp la foto di Mikael Stanne, frontman dei Dark Tranquillity, abbracciato all’attore Kristofer Hivju, meglio noto col nome di Tormund nella serie televisiva Il trono di spade, che tutti voi conoscete. Dopo aver abbassato al minimo la luminosità del display per non essere accecato dal rosso abbagliante dei due soggetti, mi soffermo a pensare a una cosa che in realtà ho sempre pensato, un concetto che si potrebbe romanamente sintetizzare così: “Certo che Mike Stanne di death metal n’ c’ha popo gnente”. Il viso pacato e quasi inespressivo, la barbetta, il capello nazareno, quell’aria un po’ trasognata da studente fuoricorso al DAMS, non hanno mai suscitato in me troppa cattiveria, anzi. Poi, non a caso, associo il suo volto a quello del suo collega (ex collega, considerando cosa si sono messi a fare oggi gli In Flames) Anders Fridén, e allora mi chiedo se non sia una caratteristica peculiare del death metal melodico scandinavo quella di sembrare dei seminaristi prestati alla corte di Re Metallo. Con la frettolosità, la fantasia e la tendenza a categorizzare la realtà che mi contraddistinguono, comincio a formulare teorie su teorie, e, nel giro di un minuto, il sempiterno swedish death metal è nato in realtà nell’oratorio di una chiesa dei quartieri bene di Goteborg, magari durante una partita di calcio, magari durante una mini rissa a suon di spintarelle e “sei uno stupidino” per un pallone spedito in cima all’albero. Chissà quante volte il parroco (lo zio di Mike Stanne) deve essere salito e sceso dalla scala a pioli per prendere quei maledetti palloni.

Panzer Division Marco Aro

Me ne sto bello a rimuginare sulle mie fantasie ed ecco che arriva, puntuale e preciso, quel fattore che ti manda tutto all’aria, la falla che ti fa crollare tutto l’edificio, quelle due cifre messe male che ti sballavano il risultato finale dell’espressione e ti facevano tirare il quaderno in aria o fuori dalla finestra, o sulla chioma di un albero (tanto c’è lo zio di Mike Stanne che te lo va a riprendere): Marco Aro, discontinuo cantante dei The Haunted. Se non lo avete già fatto, ma ne dubito, spizzatevi il video di  D.O.A. (pezzo stupendo da One Kill Wonder): vi sembra un seminarista o un frequentatore di oratori? Vi sembra che un tizio del genere, da bambino, abbia potuto apostrofare un suo compagno di giochi col termine “stupidino”? No, Marco Aro era quello che Mike Stanne e Anders Fridén avevano paura di incrociare per i corridoi scolastici, Marco Aro con un solo rutto ha fatto volar via tutti i capelli alla supplente di matematica (oggi gira con la parrucca, poveraccia). Marco Aro aveva già i peli sul cazzo in terza elementare, e via dicendo. Non posso che fare spallucce. Non tiro in ballo bevitori di birra del discount come Bjorn Strid o mercanti di eroina come Tompa Lindberg perché la mia teoria è già bella che andata a puttane. Alla prossima fantasia. Mannaggia però, c’ero quasi. (Gabriele Traversa)

MARK OSEGUEDA, ti devo dire qualcosa di molto importante

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Di quell’aneddoto scrissi giusto due righe in un articolo sulla prostituzione e sui Marduk, e pensai: prima o poi questa cosa con Mark Osegueda la approfondisco. Prima o poi, appunto, ti capitano dei momenti che ti fanno sentire metallaro. Sensazione difficile da spiegare, ma è esattamente così che funziona e uno dei più piacevoli episodi che io mi ricordi, ebbe a che fare con il cantante dei Death Angel.

Anno duemilaetre, No Mercy Festival di Milano. Se non erro eravamo all’Alcatraz. Il bill è il meno estremo e più casualmente assortito che quella manifestazione abbia mai tirato fuori; ci sono i Testament preceduti dai Marduk, un sacco di roba melodica come Darkane e Die Apokalyptischen Reiter, i Pro-Pain ed i Malevolent Creation o qualunque formazione Phil Fasciana andasse spacciando per essi. E poi c’è il thrash metal, in quantità incontenibili, inteso come Nuclear Assault e Death Angel. Prima e dopo è una caccia perpetua ai tour bus per incontrare i nostri beniamini, e ce la facciamo con tre gruppi: i due principali, e la sorpresa finale con tanto di birra in mano. Tentiamo di rompere gli indugi – o le palle – con i Marduk: pittati in faccia e completamente alla mercé della fica, per non perdersi un generoso fingering ci terranno alla larga come mosche che hanno adocchiato un pezzo di carrè di vitello messo al sole. Legion se la tira in una misura inaccettabile, ma sarà l’ultima occasione che avrò di vederlo suonare con loro. Poi ci sono i Testament, Chuck Billy è un gran simpaticone e Steve Di Giorgio una di quelle cose metafisiche che ricordo dalle foto dei booklet: da Swallowed In Black passando per Individual Thought Patterns, ricorre questo tizio che sembra un hippie e che andrebbe visto di persona. Esiste davvero? Adesso è lì e non si atteggia nemmeno a star, mentre il resto della line-up trascende quasi totalmente da quella di The Gathering. Dave Lombardo non c’è, mentre James Murphy è stato sostituito dall’onnipresente Steve Smyth. Il loro concerto non mi è neanche piaciuto, sicché mi tengo a mente l’incredibile prova offerta dai Death Angel: loro sì che sembravano posseduti, The Art Of Dying era sempre più vicino e nel frattempo c’eravamo goduti Kill As OneVoracious Souls da due passi. Mentre barcollo su un marciapiede con una birra annacquata nell’infame bicchiere di plastica, canticchiando beatamente la terza traccia del bellissimo The Ultra Violence, vedo questo tizio che mi fissa, sorride e poi viene ad abbracciarmi. E mi fa, I know that song! Era Mark Osegueda: cinque minuti a chiacchierarci elogiando il loro mostruoso concerto, cinque minuti con un personaggio fantastico dopo i musi lunghi di Eric Peterson – il che è tecnicamente inaccettabile dopo che ci hai dato in pasto i Dragonlord – e Morgan Hakansson.

E poi sono arrivati i dischi dei Death AngelThe Art of DyingKilling Season, e a ruota tutti gli altri. In attesa di sentirmi il nuovo – di cui si occuperà ancora Cesare Carrozzi – io un po’ preoccupato lo sono. Non che i loro lavori attuali siano brutti, è che non li riconosco più: hanno perduto quell’energia figlia di Act III e che fino a Killing Season aveva un po’ tolto spazio al thrash metal più tagliente, ma preservato la loro inconfondibile identità. Con questo non vado bramando un ritorno alle cose incise con i The Organization o gli Swarm, ma i primi Death Angel dopo la reunion – sebbene fossero un po’ confusionari sul da farsi – erano certamente più vivaci e accattivanti degli odierni. Ora hanno i pezzoni, come The Moth oppure Lost, i ritornelli ruffiani accalappiapischelli di Claws In So Deep, un batterista bravo come tanti altri che rammento giusto per un disco fatto con i Warning SF. Relentless Retribution ricordo benissimo che in un paio di punti tirava fuori quei riff simil-black melodico che mi fecero uscire il sangue dal naso coi Dragonlord, ed è assolutamente ciò da cui il gruppo di Mark Osegueda dovrebbe tenersi alla larga. Pestate pure un po’ meno, ricacciate dentro a forza Andy Galeon ma vi prego: fate i Death Angel, che di gruppi così ce n’è in giro un esercito. Nonostante un titolo come The Dream Calls For Blood mi fosse pure piaciuto, ho sempre la sensazione – confermata dai due inediti ascoltati nei giorni scorsi – che in particolar modo Rob Cavestany sia impegnato a suonare il thrash metal più tosto che gli riesca di produrre, a discapito della firma indelebile con cui marchiò pezzi come 3rd Floor o la più recente Lord Of Hate. Fate a modino, ci tengo. E per ribadirlo mi sono riascoltato Frolic Through The Park proprio stamani: bello, con quell’estro indomabile e quei passaggi un po’ funky che paradossalmente mi mancano. Animali in studio e soprattutto sul palco, oggi specie da proteggere dai consueti cliché del cazzo dei quali ce le ho sicuramente piene. (Marco Belardi)

Sveglia il morto: American Metal edition

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Cari amici guerrieri del metallo, è passato un po’ di tempo dall’ultima volta, ma ecco ritornare la rubrica preferita di quella parte di lettori che del nuovo dei Rammstein se ne sbattono il cazzo, disprezzano e hanno sempre disprezzato gli Slipknot e che pensano che il nuovo dei Tool sarà sicuramente buono per pareggiare le gambe della sedia che traballa. Per questa puntata afferrate lo spadone ma non dimenticate la bomboletta di Aquanet (o un’italianissima Gommina Simmons se preferite), perché si torna diritti negli anni Ottanta (wow che novità), senza i quali tutto il power o epic metal recente con doppie casse a trenino non esisterebbe.

Quando qui parliamo di power o epic metal lo facciamo principalmente chiamando in causa crauti e salsicce, ma ricordiamoci che in America c’era una scena fertile già da un decennio prima del famoso revival tardo-novantiano, e che non fu solo Riot, Lizzy Borden o Metal Church, ma ha partorito anche roba come Vicious Rumors, Omen, Savage Grace e altri.

Ecco appunto alcuni fulgidissimi esempi che non possono mancare nella vostra collezione, sennò tornate pure a sentire i Children of Bodom e divertitevi.

Iniziamo dai SAVAGE GRACE, che almeno due dischi fondamentali per la scena li hanno fatti, e parlo di The Dominatress e soprattutto del bestiale Master of Disguise, un disco che fa del power più frenetico un’arma vincente e che non finisce mai di coinvolgere nemmeno a decenni di distanza, spazzando via qualunque cosa si frapponga. Basta l’intro Lions Roar a creare la giusta tensione, e la successiva Bound to be Free a far capire l’antifona. Mi dispiace ma qua non c’è proprio storia. Palla di fuoco a tremila gradi. Se poi aggiungiamo che da una loro costola sono nati gli Omen, capirete di cosa sto parlando. Gli Omen sono semplicemente il gruppo più fottutamente epico degli anni Ottanta. Gli Omen sono una cosa seria, e Battle Cry mozza teste su ceppi di legno di quercia come se non ci fosse un domani. Villaggi bruciati da assatanati predoni, damigelle in cerca di barbarico cazzo e urla di battaglia echeggiano in poco più di mezz’ora di riffoni, ritmiche serrate e la feroce interpretazione del compianto J.D. Kimball, con la sua voce roca e potente.

Se poi non vi accontentate del power metal epico degli Omen ma ne volete ancora, andate pure a rispolverare i GRIFFIN, che con Flight of the Griffin e il successivo, ancora più veloce e potente Protectors of the Lair, vi passeranno a fil di spada con il loro speed metal d’altri tempi, direttamente dalla Bay Area. Soprattutto, dicevo, su Protectors, dove a tratti si rifanno anche ad un altro classico speed metal americano, ovvero l’essenziale Skeptics Apocalypse degli Agent Steel, con quei pezzi frenetici suonati a duecento all’ora. Classici sottovalutati in tipico stile Shrapnel Records, e chi è appassionato di un certo suono americano degli anni Ottanta sa di cosa parlo. Dio benedica il buon Mike Varney, scopritore e lanciatore di talenti. Talento che di certo non mancava agli Heir Apparent, che con il loro Graceful Inheritance, del 1986, dimostrano una certa classe ed eleganza nel proporre temi tipicamente “swashbuckle” in una sorta di epic metal in salsa Queensryche. Non a caso provengono da Seattle. Graceful Inheritance concentra in tre quarti d’ora molti dei temi e delle sonorità care alla francese Black Dragon Records e alla Leviathan del buon David Chastain, che ai tempi si lanciò nella promozione dell’etichetta transalpina negli Stati Uniti con la sua distro. Andate a spulciare il catalogo di questi due nomi per scoprirne di più, e magari ritrovare alcuni nomi importantissimi come Manilla Road, Candlemass e Chastain, appunto.

David T. Chastain, il sire del power metal americano

E magari pensavate che i Running Wild fossero gli unici ad occuparsi di pirati e cose cosi? Vi sbagliavate. Per chi vuole risentire quelle esclamazioni tipiche come “arrrrrrrr” e “corpo di mille balene”, ma con accento yankee, ci sono i DAMMAJ, che direttamente dalla baia di San Francisco solcano i sette mari armati di un metallo fragoroso con dei bei suoni cupi e classica voce potente e su di giri. In copertina del loro unico album Mutiny troverete un pirata con la benda che brandisce una chitarra sotto un temporale. Vedete voi se non è abbastanza. Canonico power/heavy ma sempre stellare, se paragonato ad oggi o anche alla satura scena della fine degli anni Novanta.

E veniamo ora ad uno dei nomi che sicuramente vi saranno più noti, ovvero i VICIOUS RUMORS. La band di Geoff Thorpe, attivissima ancora oggi, non è esattamente un morto da svegliare, ed ha visto alcuni dei più grossi talenti del metal anni Ottanta passare sotto il suo vessillo: gente come Vinnie Moore e Carl Albert, per intenderci. Musicisti dalle doti straordinarie che hanno lasciato il marchio su dischi come Soldiers of the Night il primo, e Digital Dictators il secondo. Due dischi che sono anche i migliori di una carriera costellata di bellissimi lavori, almeno fino all’inizio degli anni Novanta. Risultato notevole se si pensa alla drammatica caduta che il genere ebbe proprio in quegli anni. I VR restano comunque uno dei gruppi “minori” che sono riusciti ad azzeccare almeno quattro album di fila, cosa non facile per nessuno. Soldiers of the Night è “varneyiano” nel suo svolgersi, in quanto ricco di spunti speed/power con il funambolo Vinnie Moore a mettere la ciliegina sulla torta con alcuni dei suoi assoli più belli di sempre, paradigmatico del fare un certo tipo di metal dagli Steeler in poi. Su Digital Dictator venne poi sostituito, assieme al primo cantante Gary St. Pierre, e al suo posto troviamo Mark McGhee, che formò un duo formidabile con lo stesso Geoff Thorpe alle chitarre, mentre dietro al microfono un ulteriore salto di qualità venne fatto grazie all’ingaggio del formidabile Carl Albert (defunto poi nel 1995 dopo un tragico incidente stradale). Entrambi i dischi sono esattamente l’incarnazione del meglio che il metal potente e veloce avesse da proporre in America.

E chiudiamo con un’altra perla dimenticata, ovvero The High’n Mighty dei californiani COMMANDER, tre quarti d’ora di cappa e spada che scorrono al suono di un consueto power/epic metal d’antan, che è sempre un piacevole sentire tra acuti, lunghi assoli e qualche tastiera che fa capolino qua e là, ma sempre in maniera funzionale al racconto, farcito di spadoni, draghi, maghi e tutto l’ambaradan assai comune nell’heavy metal di un tempo. C’è anche una cover ben eseguita di Kill the King dei Rainbow, ad omaggiare appunto colui che più di ogni altro ha contribuito a creare questo tipo di immaginario nel metal, e che non penso ci sia bisogno di nominare. Il disco culmina poi nella lunga e suggestiva Die by the Sword, in cui viene fuori tutta la vena epica dei Commander. Bella. Se proprio vogliamo fare un appunto generale a The High’n Mighty, possiamo dire che Jon Natisch, cui sono affidati i compiti vocali, si esprime meglio su tonalità più moderate, e quando vuole strafare diventa un po’ sguaiato. Ma l’ispirazione qua c’è eccome.

Per oggi è tutto ma tornerò sicuramente sull’argomento. E sappiate che sono convinto che il cuore del metallo a stelle e strisce batta ancora, sotto la coltre di merda hip hop che ci intossica oggi e che ormai è l’unico genere veramente di successo oltreoceano. Teniamo d’occhio Bandcamp, però, perché le sorprese sono sempre in agguato. E chi sa che non ci sia un altro “colpo di stato” metallaro nei prossimi anni, proprio come avvenne quel giorno in cui Metal Health dei Quiet Riot iniziò prepotente a scalare le classifiche, legittimando anche commercialmente un decennio di grande musica e creatività. Io ci spero sempre. Ma forse sono decisamente ottimista, o troppo innamorato del metallo da non vedere la triste realtà. (Piero Tola)

I MUST MAKE WAR: dieci pezzi per andare a fare la guerra

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Ottemperare ad una missione più alta e più grande di noi stessi, in adempimento al dovere morale di instradare lungo sicuri sentieri le coscienze di chi ci segue e ripone in noi la sua fiducia, è il nostro primario obiettivo. Consacriamo la massima diligenza nel soddisfare quei bisogni immateriali ed inespressi che turbano le vite dei nostri lettori nella loro quotidiana lotta. Per questo motivo ci pregiammo di offrirvi una guida esaustiva ai dieci dischi spaccosi per spaccarsi in palestra ( e parte) e vi insegnammo come districarvi nel mare magnum del metallo pesante segnalandovi le dieci canzoni che ogni metallaro che si rispetti dovrebbe conoscere a memoria, esautorandovi dall’improbo compito. Quello strano della brigata, addirittura, ritenne opportuno stilare una lista di cinque dischi da ascoltare mentre si va a pescare, perché pensava che potesse tornarvi utile un giorno, ma vai a capire cosa succede nella testa di un toscano e chissà se lo scopriremo mai. Consapevoli, dunque, della responsabilità che ciò comporta, anche in termini di aspettative sempre più alte da parte vostra, abbiamo studiato, approfondito e duramente lavorato per presentarvi un vademecum definitivo sui dieci pezzi guerrafondai per andare a fare la guerra.

Il tetto è già in fiamme. Iniziamo.

10. PRIMO VICTORIA. E iniziare dai Sabaton è abbastanza d’obbligo. Amatissimi autori dell’immortale Gott Mit Uns (che, per inciso, parla della battaglia di Breitenfeld combattuta nel 1613 tra i protestanti guidati dal Re di Svezia, Gustavo Adolfo, e le armate cattoliche), brano ispiratore del motto più bello di tutti i tempi: GOAT MIT UNS. Ahimè, non tutti i miei compari di blog condividono questa irrazionale passione per Brodén e soci, chissà perché: forse provano a razionalizzarli e ciò non ha senso. Ci sono dei gruppi, tipo i Sabaton o i Powerwolf, che vanno presi così come sono, visti e piaciuti. Il mio problema, adesso, era quello di scegliere il brano più rappresentativo tra un centinaio di pezzi che trattano di questo o di quell’evento bellico. Inizialmente avevo optato per To Hell and Back perché ispirato all’omonimo libro autobiografico di Audie Leon Murphy, pluridecorato soldato americano, e alla sua partecipazione allo sbarco degli Alleati sulle spiagge a nord e a sud di Anzio (a proposito, nella riserva militare di Torre Astura se scavate venti centimetri nella sabbia rischiate ancora oggi di trovare proiettili ed elmetti risalenti al ’44). Ma dopo aver intonato per l’ennesima volta l’immortale inno CROSSES GROW ON ANZIOOO, ha prevalso La vittoria prima di tutto anche perché mi era tornata a mente dopo aver rivisto, dopo anni, l’epico Prima Vittoria (In Harm’s Way) con John Wayne e Kirk Douglas, film ambientato nei momenti successivi l’attacco di Pear Harbour. Il pezzo dei Sabaton, invece, racconta i momenti precedenti lo sbarco ad Omaha Beach vissuti in prima persona da un soldato di fanteria che sta prendendo parte all’Operazione Overlord. Ad ulteriore conferma della grandezza dei Sabaton, sappiate che in febbraio è stato inaugurato un nuovo canale Youtube, il Sabaton History Channel, dove ogni settimana viene caricato un nuovo episodio che racconta una delle tante storie che ispirano i loro pezzi, col supporto di studiosi, di storici e di tanto metallo. E niente, sto imparando tante belle cose violente di guerra grazie ai Sabaton che prima non sapevo.

THROUGH THE GATES OF HELL, AS WE MAKE OUR WAY TO HEAVEN
THROUGH THE NAZI LINES
PRIMO VICTORIA

9. DAGOR BRAGOLLACH. Il Beleriand era già stato sconquassato da violente battaglie allorquando l’Oscuro Signore Morgoth, rinchiuso nella prigione di ferro di Angband, riuscì a spezzare il secolare assedio dei Noldor vomitando fuori dalle Thangorodrim orchi e balrog, guidati dal feroce Gothmog, e riversando sulla pianura di Ard-galen fiamme e fiumi di fuoco che bruciarono vivi elfi e uomini beoriani. Scatenò anche il malvagio Glaurung, padre dei draghi, mettendo in fuga i figli di Fëanor, distrusse i loro reami e segnò il suo completo trionfo sulle terre del Nord.

IN THE YEAR 455 IT BEGAN THE BATTLE OF RAPID FIRE

8. HOLY WARS… THE PUNISHMENT DUE. Avevo pensato a Take No Prisoners ma poi mi sono ricordato che non sono mai stato in grado di apprezzarla più di tanto a causa di quella voce da paperino troppo evidente in un pezzo dove è il testo, un bel testo, a prevalere sulla forma canzone. Holy Wars è invece idonea per l’occasione, con quella smitragliata iniziale velocissima, intricatissima, sebbene concettualmente sarebbe sbagliato inserirla nell’elenco in quanto trattasi fondamentalmente di un brano pacifista (il titolo stesso dell’album deriva da una frase che Dave aveva letto da qualche parte e che, se la memoria non mi inganna, faceva più o meno may all your nuclear weapons rust in peace) ed è pure musicalmente un bel guazzabuglio, che prosegue con quel bridge acustico che non ci azzecca apparentemente niente e poi si svolge in un altro modo ancora. Come noto, il pezzo parla per la prima metà del conflitto israelo-palestinese e nella seconda di altro (una specie di dedica al personaggio dei fumetti Il Punitore). Ma la cosa più divertente è la storiella intorno alla scrittura di questo pezzo che narra di un Dave Mustaine in trasferta in Irlanda: vede dei tizi che vendono magliette dei Megadeth non ufficiali, sbrocca e va per fargli chiudere bottega ma gli viene detto che, hey, il ricavato è destinato alla Causa, quale causa fa lui, totalmente all’oscuro di tutto quello che succede fuori dal suo steccato come ogni buon americano che si rispetti, ma come quale, finanziare l’IRA, no? E niente, se ne torna a casa e scrive uno dei pezzi sulla guerra più belli mai scritti, quindi qui in mezzo ci doveva stare per forza, anche perché se non era per il conflitto nordirlandese non stavamo qui a parlarne.

DO YOU KILL ON GOD’S COMMAND?

7. A GRAND DECLARATION OF WAR. Regoliamo l’alzo a 0, prendiamo la mira e facciamo fuoco. La sparo? Ok, la sparo: la carriera dei Mayhem poteva pure finire qui. Ma sì, insomma, alla fine questo è l’unico disco che ha reso interessante il loro secondo corso. Dopo di questo solo grandi rotture di palle.

WE DECLARE NOT PEACE BUT WAR

6. SEEK & DESTROY. Sempre a proposito di Paolino “Dave” Paperino, ricordiamo che qui ci suonava lui, ricordiamoglielo sempre. Dichiaro di averci messo i Metallica solo perché sennò poi qualcuno mi critica che non ci avevo messo i Metallica. For Whom the Bell Tolls e Disposable Heroes, tutto sommato, hanno un testo un po’ sfigatello, ‘che la prima, tratta dal noto libro (lo devo dire sennò poi qualcuno mi riprende perché non hai detto che è tratta dal noto libro?), parla di soldati che scappano dai fascisti e che fanno pure una brutta fine, mentre l’altra è di fatto una critica al concetto di guerra che è proprio l’opposto di quello che andiamo sostenendo qui. Allora, se proprio ci devo mettere i Metallica vado a pescare da No Life ‘til Leather e al primo pezzo (se non ricordo male) mai registrato dai ‘Tallica, che è anche uno dei miei preferiti in assoluto e uno dei più tamarri che abbiamo mai composto. Quando i californiani erano ancora cattivi e buzzurri e non dovevano stare appresso agli eventi benefici vestiti in giacca e cravatta ma pensavano solo a scrivere grandi canzoni nelle quali minacciavano di morte i loro nemici.

DON’T TRY RUNNING AWAY `CAUSE YOU’RE THE ONE WE WILL FIND

5. V. Ci ho messo i Megadeth, ci ho messo i Metallica, dunque scordatevi gli Slayer e gli Iron Maiden, anzi beccatevi gli Spite Extreme Wing. Bisogna avere il coraggio delle proprie idee e dire una volta per tutte come stanno realmente le cose, affermando una verità incontrovertibile: gli Spite Extreme Wing sono stati la migliore band black metal italiana di sempre. Siamo tutti d’accordo?

RIMBOMBA L’OBICE NEL CIEL DI GORIZIA

4. HEATHENPRIDE. Nel caso in cui voleste muovere guerra ai cristiani, infami, usurpatori ed invasori, nulla di meglio di questa dichiarazione di orgoglio pagano e di feroci intenti di vendetta, tratta direttamente dalle sacre scritture di Odino, tradotte in linguaggio a noi comprensibile dai mai troppo lodati Falkenbach.

REVENGE!!!

3. TOTAL WAR – WINTER WAR. Arrivati a questo punto è come tirare la proverbiale monetina in aria, o scegliere la pagliuzza dal mazzo: un pezzo qualsiasi da M-16 o da Massive Killing Capacity poteva andare benissimo, come pure la War di Bathory o l’omonima dei Sepultura. E invece, cari i miei fomentatori di odio, la scelta è caduta sugli Impaled Nazarene perché arriva sempre un momento nella giornata in cui avverti una certa impellenza, un bisogno irrefrenabile, una necessità che ti impedisce di fare altro e ti distrai, perdi la concentrazione perché devi fare quella cosa e non riesci a pensare ad altro. Cosa sarà mai questa cosa se non quella di ammazzare qualche comunista? In questo delicatissimo pezzo gli ImpNaz ci ricordano come andò a finire la guerra del ’39 tra finlandesi e sovietici (over 200.000 communists dead, If they want a new war, this time will kill them all) che da una parte rappresentò un trionfo per Hitler (tanto a uscirne a pezzi fu la Finlandia), dall’altra l’inizio della sua fine, perché a seguito di questa vittoria pensò fosse affare relativamente semplice invadere l’Unione Sovietica.

DO YOU WANT TOTAL WAR? YES WE WANT TOTAL WAR!
DO YOU WANT FUCKING WAR? YES WE WANT FUCKING WAR!

2. TSAR BOMBA. E i russi non le mandavano di certo a dire. Infatti, come loro ci insegnano, è sempre bene menare per primo per menare due volte e un’arma termonucleare è il modo migliore per mettere le cose in chiaro da subito. Avrete presente più o meno il casino che fece la Little Boy a Hiroshima? Ecco, quisquilie e pinzillacchere in confronto alla Tsar Bomba, sobrio gingillo sovietico soprannominato anche Big Ivan, in onore al feroce Zar Ivan IV il Terribile. Il prototipo che fu fatto brillare nell’unico test del ’61 (in codesto remoto et ameno loco) sviluppò un inferno tremila volte più potente della nota bomba americana e considerate che si trattava solo di un modellino giocattolo dalla potenza ridotta del 100% rispetto al progetto iniziale. In un video didattico sul tubo ho appreso che l’onda d’urto, conseguenza della simpatica reazione a catena di fusione nucleare, fu avvertita 3 volte, cioè fece il giro del mondo tre volte. Anche i Necrophobic sono persone che non scherzano per niente e con Mark of the Necrogram suggellano uno dei picchi più alti toccati dal death metal svedese degli ultimi dieci anni, rendendo il massimo onore possibile a cotale sfoggio di megatoni col brano indubbiamente più cazzimmoso del 2018.

VANYA KUZKINA MAT

1. WARRIORS OF THE WORLD UNITED. Con cosa pensavate che potessi finire questa virulenta carrellata? No, seriamente. Un pezzo di un gruppo che la parola guerra addirittura la porta nel nome e che la ripete tipo in ogni testo innumerevoli volte non poteva mancare e i Manowar in generale non possono mai mancare in qualsiasi lista, elenco o classifica vogliate fare, in cadauno degli ambiti dell’umano sapere vi addentriate. Avrei potuto scegliere, che so, Shell Shock o Violence and Bloodshed, perché trattano della guerra in Vietnam (però, semmai poi ci facciamo uno spin-off in quanto quelli sono pezzi sul ritorno dalla guerra), ma poi ho pensato che avrei potuto anche scegliere un pezzo qualsiasi, perché in un modo o nell’altro tutti i pezzi dei Manowar sono buoni, a partire dalla scazzottata in birreria per finire al conflitto non convenzionale che prevede l’uso di armi di distruzione di massa. Nel merito ho optato per questa per due motivi: primo perché Warriors Of The World è sempre stato trattato come un disco di serie B e io invece lo trovo bellissimo, vaffanculo; secondo perché sono più di dieci anni che ormai usano questo brano verso la fine dei concerti a ribadire il valore ecumenico del messaggio guerrafondaio manowariano, che afferma di agire sempre con la stessa sacrosanta spietatezza nei confronti dei nemici del vero metal che cercano di ostacolarci in ogni modo, fuck you, fuck off, a morte, die!

BROTHERS EVERYWHERE RAISE YOU HANDS INTO THE AIR
WE’RE WARRIORS
WARRIORS OF THE WORLD

E come in ogni disco degli anni ’90 che si rispetti, abbiamo pure la ghost track, che lo so che ve la aspettavate. Ma questa si commenta da sola. (Charles)

Chiudere più band che kebab in un centro storico: LARRY LALONDE

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Per la cronaca, l’uscita del nuovo album dei Possessed ha scatenato una serie di eventi fra cui il riascolto obbligatorio di Seven Churches. Che poi lo conoscevo già a memoria, ma è più difficile trovare un motivo per non rimettere su Seven Churches, piuttosto che il contrario. Revelations of Oblivion è un qualcosa con cui combatto da diverse settimane, e il concetto lo spiegherò più avanti all’interno della recensione del nuovo Nocturnus (A.D.), dato che è il medesimo che riguarda Mike Browning e soci.

Dimenticatevi per un attimo di Beyond the Gates, a patto che ve ne ricordiate ancora. A rendere magico Seven Churches furono anche le chitarre, perché nell’album di metal estremo più definito del 1985 insieme ad Hell Awaits non c’erano soltanto minimalismo, o come avrebbe recitato di lì a poco Tom Araya, irriverenza e blasfemia. C’era lo stesso gusto compositivo ritrovato due anni più tardi in R.I.P. dei Coroner, e la similitudine fra queste due band – divise da un continente più un oceano – raggiunse livelli sfacciati in un pezzo come Pentagram. Premetto comunque che di Seven Churches continuo a preferire le cose più dirette ed estreme, tipo la celebre The Exorcist e soprattutto Satan’s Curse. Dietro a quelle corde taglienti c’erano Mike Torrao e soprattutto Larry LaLonde, allievo di Joe Satriani, fanatico di Frank Zappa. Ma chitarrista dei Possessed.

Tutti sappiamo com’è andata a finire: gli screzi interni, la rapina a Jeff Becerra, l’invalidità permanente e Mike Torrao che riprende a incidere demo, mantenendo il moniker ed ereditando il posto dietro al microfono. Larry LaLonde, a quel punto, aveva già fatto di tutto. Era entrato nei Corrupted Morals, un gruppo hardcore thrash di un’energia pazzesca con il quale realizzò Cheese-It. Quasi in contemporanea era stato chiamato in causa anche dai Blind Illusion, band di lungo corso la cui unica costante si sarebbe rivelata Mark Biedermann alla voce: un vero porto di mare sin dagli esordi, tanto che nel recente Demon Master sarebbero cambiate nuovamente le carte in tavola. I Blind Illusion esistevano da circa un decennio e solo nel 1988, tre anni dopo Seven Churches, debuttarono a tutti gli effetti con l’unico disco risalente alla storica formazione: quella di The Sane Asylum. Ed era bellissimo. Onde evitare di fare la recensione di un qualcosa che dovreste conoscere a menadito, oppure recuperare al più presto, mi limiterò a descrivere i Blind Illusion come autori di un techno-thrash pazzesco ed inspiegabile, dato che in passato avevano suonato tutto e il contrario di tutto. Prog rock, roba psichedelica e sognante, per poi incidere una demo subito dopo The Sane Asylum dove facevano capolino passaggi particolarmente radiofonici. Ma la cosa importante per LaLonde fu conoscere il loro bassista, Les Claypool.

Una volta che Larry LaLonde ebbe fatto fuori l’ennesimo gruppo colpevole d’averlo arruolato, a non morire fu proprio l’amicizia con il talentuoso ed eclettico bassista dei Blind Illusion. Uno che si presenta così ed a cui non recheresti torto alcuno, solo per il timore di successive ritorsioni. Morali, piuttosto che fisiche.

A questo punto bisogna stabilire se i Primus, ovvero il più duraturo gruppo con Larry LaLonde in formazione, siano stati la presa per il culo più evidente degli anni Novanta oppure una genialata dalla portata immensa.

Un giorno entro dallo stesso negoziante di Scandicci che mi aveva consigliato Schizophrenia – più per la mancanza di Arise in supporto musicassetta che per altre ragioni – e lui inizia a intortarmi su quanto siano bravi i Primus, sul fatto che dovrei provare un po’ di musica più attuale e che Les Claypool meriterebbe di governare il mondo, premere i bottoni che rilasciano i missili e cose del genere. Mi presenta questa copertina, Sailing the Seas of Cheese. Il titolo mi avverte subito di starne alla larga, poi guardo il retro e ripeto lo stesso rituale di sempre: leggere i titoli delle canzoni. Era un po’ come avvitare una lampadina in uno di quei tester per accertarsi che non fosse fulminata prima di portarla a casa. In sostanza, leggere i titoli sul retro doveva rassicurarmi e far sì che procedessi con l’acquisto nel minor tempo possibile: Jerry was a Race Car DriverGrandad Little’s DittyThose Damn Blue-Collar Tweekers. Cosa cazzo stava cercando di vendermi? Era forse uno di quei cd che rimangono per anni nei profondi contenitori dei supermercati finché il prezzo non rasenterà il ridicolo? Lentamente lancio lo sguardo oltre al giallo accecante di Sailing the Seas of Cheese e noto una folta discografia: avevano appena pubblicato il Brown Album e quindi erano intorno a quota sei, compreso un live. Il Brown Album, pensai. E poi c’erano copertine di vario genere, fra cui quella con la padella pronta a cucinare una testa e un’altra raffigurante una sorta di maiale. Presi quell’affare giallo, gli diedi soddisfazione e me ne arrivai lesto a casa.

I Primus erano l’inferno dantesco. Musicisti talentuosi messi in punizione a gingillarsi per tre quarti d’ora circa, e nel frattempo io concentrato a cercare di capirci qualcosa. Una roba equidistante fra il divertente, il tecnicamente ineccepibile e la barilata di merda da cui non riemergerai più. Il giorno in cui quel negoziante mi rivide, capì all’istante e si mise a parlarmi dei Carcass come per espiare un qualche peccato: non ero un bassista mixato male come in quel celebre album del 1988, e quell’overdose di Les Claypool che slappa, fappa e poi swagga, non scaturì in me il medesimo effetto che lo aveva cerebralmente compromesso per sempre. Eppure c’è stato un album dei Primus che ho apprezzato davvero tanto: Pork Soda, quello col maiale. Il loro delirio di funky e prog, sbilanciato più verso il rock che verso il metal alternativo dei Novanta, mi apparve più serioso e un pelino meno perso dalle parti di atmosfere da MTV Jackass. Li ho sempre considerati la colonna sonora ideale di sketch con gente che si vomita addosso e continua a ridere di gusto. Pork Soda era più oscuro dei due precedenti, nelle tematiche così come nei suoni, e in esso c’erano i brani che mi presero fin da subito. Pezzi tipo BobMy Name is Mud, per fare nomi. La parte strumentale era sempre un susseguirsi di tre tizi che lo sbattono forte su un ceppo di pino tagliato, per vedere chi riuscirà a imprimere le effigie della propria cappella, invece di fare come fanno tutti, e cioè contare gli anni di vita dell’albero – uno per cerchio, dicono – prima che questo sia ridotto a panca per i camminatori serali della boscaglia. Ma andava meglio, stavolta. Fino ad Antipop i pezzi – seppur rarefatti – non gli erano affatto mancati, leggasi Electric Uncle Sam con Tom Morello.

Dopodiché ho fisiologicamente perso interesse verso di loro: una breve pausa seguita da quella scontata reunion della quale ho ascoltato poco o nulla. Larry LaLonde nel frattempo era dappertutto: incideva con Tom Waits, altro ospite di Antipop del 1999, sempre in compagnia del fido Les Claypool, e finiva in giro a suonare con Serj Tankian dei System of a Down. Quanto delle ritmiche dei Primus avremmo ritrovato nei Korn e appunto nei System of a Down, fra il finire dei Novanta e le annate immediatamente successive? Forse il loro genio stava proprio lì, oltre che nella sigla di South Park. In ogni caso rimarrà consuetudine dire ad alta voce una cosa sola: PRIMUS SUCKS! (Marco Belardi)

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