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La grande scalata alla vetta del death metal tecnico

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Due giovani musicisti si trovano chiusi all’interno di un umido bivacco, mentre fuori la tempesta infuria da oltre tre giorni. Inoltre le provviste scarseggiano, facendo presagire una tragedia nella difficoltosa scalata che avevano programmato. Paul e Sean sono in silenzio da troppo tempo, ma ad un certo punto i loro sguardi si incrociano; un attimo dopo, la tensione nell’aria inizia a sciogliere il ghiaccio formatosi sulle robuste pareti della tenda, e i due si avvicinano: occorre riscaldarsi ad ogni costo. E nasce Focus dei Cynic.

Il death metal tecnico all’inizio degli anni Novanta, in Nord America e non solo, doveva essere come la scalata verso la vetta di una grossa montagna. Una volta gettate le basi non ci fu più nulla da fare: ognuno bramava di uscire dagli accampamenti intermedi mentre gli altri riposavano, così da poter affrontare in solitaria gli ultimi cinquecento metri di dislivello in balia delle slavine, dei seracchi e di friabili speroni di roccia.

È così che il giovane Chuck decide di partire segretamente, dicendo agli altri che sta andando a fare una semplice ricognizione; ma in cuor suo sa di dovere far meglio di Kelly Schaefer, il quale, solo due anni prima, aveva “soltanto” sfiorato quota ottomila. Taglia le corde di sicurezza sotto di sé isolando di fatto campo III da campo IV, gioca sporco. Al mattino i raggi solari cominciano a ustionare chiunque si fosse messo in marcia sul presto; il gruppo degli olandesi in ferie capitanato da Patrick Mameli raggiunge Schaefer, con cui si decide di procedere assieme. Non sanno quello che accadrà nella tenda di Masvidal poco più tardi: sono molto lucidi e i piani di salita sembrano reggere. Tuttavia il maltempo li raggiunge su di un costone innevato e privo di pareti verticali che possano fungere da protezione dai venti gelidi. La neve inizia a ispessirsi sugli occhiali da scalatore, le parti terminali degli arti si congelano rapidamente e presto gli scalatori affondano in uno strato morbido e letale sovrastante il firn. Raggiunti dalla notte, scavano una buca e trascorrono lì dentro le ore di buio, le loro vite nelle mani dei 40 gradi sotto zero. Marco Foddis prende a delirare, la sua Sardegna è lontana e le vipere del Gennargentu un’ostilità ridicola al confronto di ciò che lo sta minacciando adesso. Inizia quindi a rivolgersi agli altri:

“Credo che sia una buona idea inserire la fusion nel death metal, potremmo utilizzare inserti jazz così da portare l’ascoltatore da tutt’altra parte.” 

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Kelly Schaefer, fingendosi addormentato, segretamente lo ascolta con le scarse forze residue. Più sopra, al campo V subito a ridosso della temuta zona della morte, la tenda è nuovamente gelida. Non c’è quasi più cibo ed il fornello a gas rifiuta di accendersi per la troppa umidità accumulata. Paul e Sean tentano la via spirituale per salvarsi, il Buddha, la meditazione. Non riescono più a comunicare da quando una forte tosse ha colpito Paul, mentre il suo compagno sta rischiando di finire in ipotermia. Ricorrono all’utilizzo di un vocoder, espediente grazie al quale il primo riuscirà a farsi capire: Sean apprezza moltissimo l’idea, e la tiene di conto per sperimentazioni future. Fuori, l’ombra di Mike Browning fugge silenziosa, favorita dal fragore del vento che sferza da nord: li sorpassa, li ignora, mira indomito alla vetta prima che il Sole torni visibile all’orizzonte. Nel frattempo il male d’alta montagna ha colto un po’ tutti: hanno le allucinazioni unite ad una insopportabile emicrania, e covano il desiderio di comporre dischi orrendi. Al campo base, quattromila metri più in basso, Trey Azagthoth urla a squarciagola che gliel’aveva detto, impreca, ma nessuno risponde alla radio. L’hanno lasciata all’interno delle tende nei campi intermedi perché troppo pesante da trasportare, oppure più semplicemente il segnale non arriva fin lassù? Di certo non lo farà stanotte, non con quella tormenta.

Finalmente il sole del mattino illumina la vetta, indicando ad occhi bramosi il traguardo finale, con Chuck che aveva già ripreso a salire di buon’ora, tenendo lo sguardo costantemente rivolto alla fiera zona sommitale. Quasi inciampa su Mike Browning dei Nocturnus, finito congelato a trenta metri dal sasso più alto. Lì rinviene resti parziali di Alexander Krull degli Atrocity così da ritirare in ballo il loro Hallucinations: i tedeschi erano già arrivati fin lassù, non si è mai i primi. I crucchi, è risaputo, hanno l’ossessione per l’alta montagna, basti pensare ai casini che hanno combinato in Himalaya nel secolo scorso con Karl Maria Herrligkoffer, oppure sull’Eiger. C’è anche un sopravvissuto: è Scott Burns con una lunga barba da asceta, che però non gli rivolgerà nemmeno una parola. Ha l’aria seria e riflessiva di chi vorrebbe lanciare più di un monito, ma lascerà libero arbitrio a tutti finché questi non avranno capito.

Gli Atheist, per l’appunto in montagna

Il tempo di scattare qualche fotografia, di realizzare che qualcosa come Human l’ha fatta soltanto lui, e si può discendere nuovamente. Incontra Paul e Sean completamente folli e inermi nel bivacco che era stato esposto al temporale d’alta quota, e pur conoscendoli bene, li ignora per giusta causa: più avanti, con un pizzico di risentimento, dedicherà loro The Philosopher. Poco sotto la discesa si fa ardua, perché le corde sono tutte quante da risistemare, ma arrivato a metà del percorso Chuck s’imbatte in Patrick Mameli, apparentemente privo di conoscenza e in preda all’oftalmia da neve. Lì accanto, Kelly Schaefer guarda in cielo e ripete Samba Briza! Samba Briza! mentre Marco Foddis va disperatamente cercando il suo bestiame a pochi metri di distanza, su un minuscolo altopiano privo di vegetazione: è stato salvato dalla folta peluria pettorale, ma non troverà mai presenze ovine e un giorno verrà rimpiazzato da Peter Wildoer dei Darkane.

Il leader dei Death aggrotta la fronte inorridito, poiché Kelly Schaefer aveva già raggiunto traguardi incredibili come Piece of Time e Unquestionable Presence: cosa ha potuto ridurlo così, in una sola notte? Gli stessi Pestilence erano dei giovani veterani, e forse avrebbero meglio sopportato la monotonia della pianura olandese, ma gli sfugge un dettaglio. Cosa è andato storto? Ci troviamo pur sempre in Florida, pensa. Finisce per trasalire con le urla di Paul e Sean, che, sinistre e improvvise, risuonano per la valle dall’alto causando il distaccamento di qualche piccola slavina. Avrebbero attirato fin là giovani scalatori in cerca della stessa meta, destinati ad un mal di montagna ancora più forte. Solo alcuni ce l’avrebbero fatta: i Gorguts per esempio cambiarono del tutto registro e questo funzionò, ma dal 1993 il death metal tecnico sarebbe stato per sempre compromesso da un lavoro importante, ma inqualificabile, come Focus. Che se proprio dovessi descriverlo, sarebbe un film porno con Sasha Grey in cui, ogni volta che sbuca fuori il vocoder, l’attrice viene improvvisamente doppiata da Mario Giordano. Fuck me! Fuck me hard! Aaaaaaahhh, il solito Partito Democratico!

Chuck si trova finalmente a valle, e con un pizzico di timore volge paurosamente lo sguardo alle sue spalle: è solo allora che gli si rivela una bassa collinetta tipica delle regioni interne della Florida, saranno al massimo cento metri scarsi d’altitudine nei pressi della poco ridente cittadina di Clermont. Sono comunque ottanta metri di dislivello rispetto a Orlando, ripete incoraggiando sé stesso. C’è gente strafatta dappertutto, libri di teologia ammassati fuori dai bivacchi per scegliere titoli stranissimi, e il campo base ha perfino preso fuoco. Sono tutti vivi, ma parlano di Thelonious Monk senza capire cosa stiano dicendo di preciso. Al posto della bandiera americana hanno issato in vetta una t-shirt dei Weather Report, ma è difficile notarla dato che non tira un filo di vento. Più che una tempesta gira una quantità spropositata di erba, e per questo gli olandesi promettono che torneranno. Le paludi sono lontane, nei paraggi non c’è nessun alligatore che possa porre un rimedio definitivo all’abominevole misfatto. Ma al nord l’anno successivo nasceranno i Cryptopsy: è ancora troppo presto per stabilirne la portata, e per capire se saranno in grado di sostituire chi c’era stato prima di loro. La cosa certa è che una gita in collina fra amici o nemici non gli farà mai incidere Elements, semplicemente perché al pari dei Gorguts e dei Martyr sono dei canadesi cazzuti. Chuck Schuldiner invece non è più fra noi, ma è l’unico che sopravvisse allo sconquasso generale di quegli anni tumultuosi, di sperimentazioni fatte col culo e di gloriosi moniker in procinto di gettare al vento la propria onorata fama. Consuming Impulse sembrò tutto ad un tratto la Preistoria, mentre il presente gli cacava addosso più asteroidi che poteva, sbeffeggiandolo con titoli che la dicevano lunga tipo Changing Perspectives. Maledetti voi.

In teoria, pensate un po’, la mia intenzione iniziale era quella di recensire Their Worm Never Dies dei Contrarian. Dopodiché ci ho rimuginato sopra, forse troppo. La voce rauca di Cody McConnell, George Kollias dei Nile mostruoso come al solito e la sensazione che, volendo, qualcosa di quegli anni sia ancora possibile riviverlo. Ripartenze di batteria in levare come ai tempi di Piece of Time o del thrash metal di Control and Resistance dei Watchtower, qualche accenno al classic metal come fu cura del glorioso Chuck Schuldiner negli anni che seguirono proprio Human. Il K2 in salita invernale del death metal tecnico, niente di realmente umano, per dirla tutta. È invece umano averci messo tutto questo tempo per ammettere che Spheres mi fa sostanzialmente schifo sin dal primo momento in cui ci sono entrato in contatto: non gli trovo particolari giustificazioni, anzi mi appare invecchiato infinitamente peggio dei suoi predecessori e allungato con un brodo che, purtroppo per i Pestilence, non consisteva nell’effettivo mestiere di cui gli autori erano assolutamente capaci. Idem per Elements degli Atheist, che comunque, in una maniera o nell’altra sono riuscito a riascoltare senza provare profondo fastidio, proprio in questi giorni. Provate comunque a sentirvi Their Worm Never Dies, e non credo ne rimarrete delusi. (Marco Belardi)

 


Classificone di questo decennio di metallo

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Anche se questo post non parla di loro è dedicato alla memoria di quelli che abbiamo perso per strada, ai quali il pensiero non può che andare inevitabilmente.

Dopo quattro anni da quell’articolo sulla prova del tempo ho avvertito nuovamente l’esigenza di volgere lo sguardo indietro e fare, ancora una volta, il punto della situazione a partire dall’anno di nascita del blog, perché quello, il tempo, passa sempre più velocemente e si mangia tutto. Inoltre, mi diverto sempre a fare le classifiche e i riepilogoni fini a sé stessi.

ANNO 2010

Di quell’anno non mi è rimasto praticamente niente. Bisogna ammettere che Ecailles De la Lune è sempre bello come un tempo, però sono proprio i tempi ad essere cambiati e, alla fine, quella inaugurata dagli Alcest fu una moda tutto sommato passeggera. Quello fu anche l’anno del nuovo Anathema, un album che col senno di poi assume un significato ancora più importante alla luce di ciò che è accaduto dopo Weather Systems. Riascoltavo in questi giorni Judgement, che cade il suo ventennale, e trovo quel periodo che va dal 1998 al 2012 così bello e coerente che mi sale un odio ancora più grande nei confronti di hipster e indieboy e della loro costante tendenza ad appropriarsi delle nostre cose (tra magliettine di Burzum e altre amenità di questo tipo). Belus non si tocca, tanto è vero che ormai chi se lo fila più? Paradossalmente di tutto quel ciclo ciò che resta è lo schifo che provai con Abrahadabra, a testimonianza che la merda, quanto raggiunge queste vette, fa tutto il giro e diventa immortale. In definitiva, anno del cazzo.

ANNO 2011

Confermo tutto quello che avevo già detto. Avrei giusto trattato con più attenzione Svartir Sandar dei Solstafir e mi rendo conto che, mutatis mutandis, a Mare gli do più credito oggi che ieri. Rispetto a Lulu e Illud Divinum Insanus fate copia/incolla di quanto detto sui Dimmu Borgir, con la differenza che anche la merda era più merda nel 2011. Anno meraviglioso, dunque, congiunzione astrale più unica che rara, stralcio di XX secolo in uno più buio. Oggi come ieri mi ascolto tutto quello che esce ma fondamentalmente prendo e butto via quasi subito (a parte rari casi), con i riascolti sono abbastanza fermo al 2011, che di quell’anno mi piace veramente tutto. L’unico rimorso che mi porterò nella tomba è quello di non aver capito per tempo e spinto con tutte le mie forze March of the Norse. Però alla fine l’ho capito: il disco di Demonaz è il miglior album dell’ultimo ventennio.

ANNO 2012

Sì, ok, Manowar unica fede, si gioca e si cazzeggia, si va a sbattere fino al Polo Nord per vederli e ce li tatua pure addosso all’occorrenza, però, parlando seriamente, il vero album di quell’anno fu RIITIIR, non scherziamo proprio. Meglio il 2011 del tanto decantato 2012, però: la metà della roba che ho – faticosamente – messo in una play (per l’occasione elevata addirittura a 15) non la ascolto praticamente più. Vede come cambiano le cose, signora mia?

ANNO 2013

No, non è (incredibilmente) Asa, non è 13 e nemmeno Surgical Steel, ma Κατά τον δαίμονα εαυτού il migliore. Di nuovo: non scherziamo. Oltre ai Rotting Christ e agli altri citati (seppur in minor misura), di quell’anno ascolto a ripetizione solo Echoes of Battle, l’unico album dei Caladan Brood di Salt Lake City, i migliori epigoni dei Summoning di sempre. Pure Last Patrol e The Eldritch Dark hanno tenuto botta benissimo. Infine, chiamatemi pure poser ma Infestissumam ogni tanto me lo sparo con piacere. Annata ancora potente.

ANNO 2014

Dissi: “alla fine vince clamorosamente la prova del tempo At War With Reality“. Rispetto al 2014 è ancora vero e lo confermo. Ne uscì fuori pure un post riepilogativo, quindi è inutile che aggiunga altro. Per gli Alestorm di quegli anni valga un discorso simile, ma fortemente edulcorato, a quello che si fa da sempre per i Manowar. Tengono botta strabene pure quei Mastodon. Melana Chasmata ricordo che era fico assai ma chi lo ha più ascoltato, sarà il caso che lo riprenda perché ne avevo totalmente dimenticato l’esistenza. Nel complesso, anno abbastanza deludente ma non come il 2010.

ANNO 2015

Strafighi i Clutch, e chi lo nega, ma il vero disco dell’anno fu Pylon dei Killing Joke. Il problema fu che ce ne accorgemmo tutti troppo tardi. Comunque, qui non si vuole fare “revisionismo storico”, perché ci sono cose che devono accadere per forza ed è giusto e sacrosanto che accadano. Ad esempio, l’album dei Faith No More ci doveva stare obbligatoriamente sul podio della play (come fu per i Black Sabbath un paio di anni prima e per The Lord Of Steel qualche anno ancora prima), e non perché la Ipecac ci passasse qualche prebenda ma poiché si trattava di un evento e bisogna anche inquadrare le cose da un punto di vista più ampio. Ovviamente questo non sarebbe accaduto se stessimo parlando di un disco brutto o così-così. Tanto è vero che, secondo me correttamente, né The Book of Souls, sempre di quest’anno, né Hardwired… To Self-Distruct, dell’anno successivo, sono finiti in play, e parliamo dei nomi più grossi in assoluto, nonché di due dischi dei quali oggettivamente non si può affermare che facciano totalmente schifo, a meno che uno sia ancora affetto da certi atteggiamenti preadolescenziali da hater un po’ stupidino. Però, ecco il però, se volessimo valutare con oggettività massima quell’album dei FNM preso da solo, album che a me oggi ha lasciato ben poco e su cui da subito avevo manifestato delle perplessità, occorre ricordare che quell’anno uscì anche un certo The Blessed Curse dei Manilla Road che gli dava una pista.

Vabbè, Bad Magic, un pezzo di cuore, belli e brutti ricordi. Sfondone pazzesco, mio ma anche collettivo, quello di non aver trattato/ascoltato a dovere The Children of the Night dei Tribulation, indubbiamente uno dei migliori album dell’ultimo decennio, fatto apposta per gentaccia come noi cresciuta a metallo novantiano. Per il resto, lo vissi come un anno non completamente soddisfacente, ma se ci ripenso oggi, beh… E poi, attenzione, nel 2015 uscì il disco più di merda dei tempi moderni, che ebbe il grande merito di insegnarci a trarci d’impaccio dalle situazioni più fluide grazie ad una parola magica: BUBUBU. Sicuramente fu un anno che mi segnò parecchio, in cui discutemmo tantissimo tra noi, come sempre accade quando scendono in campo i pezzi grossi o quando avvengono certe fratture nella storia.

ANNO 2016

Tanta musica e poche chiacchiere qui: si risale finalmente la china. Questo è l’anno delle conferme. Primo posto Rotting Christ, confermo (quantomeno alla carriera), anche se i Moonsorrow rompono i culi ancora più del solito e la palma di migliore poteva serenamente andare a loro. Per i Blood Ceremony e Alia O’Brien ancora amore: confermo (oh, non hanno fatto più dischi dal quel dì). Insomma, confermo abbastanza tutto e confermo anche il fatto di ascoltare la maggior parte dei miei dischi da play di questo anno, ma non proprio tutti. Venerazione personale per Affinity, ma anche un sonoro li mortacci vostra se ripenso alla fine che hanno fatto gli Haken.

ANNO 2017

Un solo nome: Manilla Road. Black Drapes For Tomorrow degli Shores of Null non solo tiene botta ma incredibilmente cresce ancora, a conferma del fatto che il bello oggettivo esiste e non ha confini di genere e tempo. Enisum: grande scoperta. Scuorn: beh, sì, bravi, chi lo nega, ma non mi hanno mai preso così tanto, nel senso, molto ma non così tanto. Mass VI degli Amenra lo ascolto di rado perché mi cambia l’umore in negativo, però che bomba ragazzi. Per il resto, un altro anno poverello, con presenze in play di dischi che nel biennio ’11/’12 finivano a stento in “altra roba che mi è garbata”, che verrà ricordato come quello dell’ultimo concerto dei Black Sabbath e quindi della fine di ogni cosa.

ANNO 2018

Abysmal Grief: dominio assoluto. Judas Priest e Voivod secondi in classifica? Ma andate a cagare, su. Il secondo doveva essere Mark of the Necrogram dei Necrophobic, punto. Haunted, scoperta tardiva (e riunitevi, cristo di un dio). Bella la fissa collettiva per la synthwave. Nuovo At The Gates: vorrei ma non posso. Molta Italia di qualità. Annetto tutto sommato discreto, mediamente buono con pochi picchi.

ANNO 2019

È presto per dire ma è iniziato abbastanza di merda. Qualcosa di buono però sta faticosamente venendo fuori. Ne riparleremo fra qualche mese.

Dunque, tirando le somme, se dovessi fare la playlistona personale di questi 10 anni scarsi, verrebbe fuori una roba del genere:

Disco del decennio (ma pure del ventennio):

DEMONAZ – March of the Norse

Top 10:

ENSLAVED – RIITIIR

ROTTING CHRIST – Κατά τον δαίμονα εαυτού

MANILLA ROAD – To Kill a King

KILLING JOKE – Pylon

ANATHEMA – Weather Systems

MOONSORROW – Jumalten Aika

TRIBULATION – The Children of the Night

ABYSMAL GRIEF – Blasphema secta

FALKENBACH – Asa

NECROPHOBIC – Mark of the Necrogram

E il brano che ho ascoltato di più in assoluto durante tutti questi anni lo vogliamo dire?

Gli alieni si sono presi PAUL MASVIDAL, oppure viceversa

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È da quando ho comprato a scatola chiusa Abducted, o qualcosa a caso dei miei beniamini Voivod, che mi ritrovo ciclicamente a ragionare sul longevo binomio tra alieni e metal. I problemi che ne derivano, o meglio ancora gli effetti collaterali, in realtà sono tutti quanti in casa Cynic, nascosti da una fitta coltre di disinformazione mista a batteristi in conflitto col loro leader di lungo corso. Dovrebbe fare notizia l’uscita di un EP firmato Paul Masvidal e intitolato Mythical, ma gli è accaduto qualcosa, e quel qualcosa dovrà uscire alla luce del sole prima che per lui sia troppo tardi. A causa del suo processo di trasformazione, trasmigrazione o altre terminologie tipiche del death metal tecnico, non lo riconoscerete in quello di Traced in Air, dato che all’epoca si manifestava come una semplice versione a capello corto del Paul Masvidal degli anni di Focus e Human.

Le circostanze che hanno fatto precipitare il tutto partono da Kindly Bent To Free Us, laddove si poteva percepire un senso diffuso di rottura con i cliché tradizionali della musica dei Cynic pur riuscendo a riconoscerli alla prima botta. C’era continuità anche se pareva non esisterne affatto. Soltanto che Paul, nel frattempo, si era abbandonato ad un look denim casual basic H&M con annesso taglio di capelli, cortissimi, lasciando trasparire alcuni accenni di fiera brizzolatura. Altrove, Sean Reinert scappa. 

Ma non fraintendetelo. Sean Reinert non scappa in seguito a dissidi relazionali o di natura lavorativa con Paul. Lui capisce che la situazione sta precipitando e si mette al sicuro, punto.

Esce l’hashtag #MASVIDALIEN, che darà il titolo al futuro sito ufficiale dell’artista americano. L’ex chitarrista dei Death a quel punto presenta la nuova Strandberg signature Masvidalien Cosmo: look grigio sporcato da texture in stile colpi di spugna intrisa di vernice, come nei peggiori arredi low-cost da outlet d’abbigliamento; la sua forma è stranissima ed il ponte volge lo sguardo al minimal. Ergonomia neanche per il cazzo, ma complessivamente si può affermare che l’oggetto abbia un suo perché. Personalmente mi limiterei ad appenderla alla parete di un Hard Rock Cafè e non andrei oltre, ma non sono un chitarrista, e lui ci deve avere visto il futuro, pianeti lontani. L’attività social di Paul Masvidal nel frattempo si infittisce, inizia a postare di tutto e di più sugli alieni fra cui l’inquietante frase “my fellow citizens of the galazy, I salute you”. È partito per la tangente. Prende a comparire in pubblico con al collo questi ciondoli raffiguranti la testa di un extraterrestre, probabilmente sono conchiglie raccattate a qualche mercatino etnico che egli stesso ha provveduto a modificare con indomabile perizia, e dipingendo a tempera.

Questo tizio qua stava dentro a On The Seventh Day God Created… Master assieme a uno dei redneck più grezzi dell’intero ecosistema metallico: Paul Speckmann. Maremma puttana. Specificato ciò, Paul una mattina si alza per fare colazione a base di krumiri con gocce di cioccolato belga e cristalli di sale dell’Himalaya, quando una luce accecante lo attira giù in garage. Si avvicinano due ombre con la testa sovradimensionata: le dita sono prominenti come a volergli suggerire un contatto, ed il profilo rivela una timida protuberanza che potrebbe essere malintesa come un messaggio di desiderio. Paul Masvidal scompare, ma non sapremo mai come e perché. Lo hanno rapito? Oppure è lui ad avere deciso di soggiogarli con il manico della sua signature Cosmo, in segno di dominanza?

Ricomparirà dal nulla, irriconoscibile, con un EP registrato che sembra la colonna sonora che Thom Yorke registrerebbe per una produzione cinematografica bielorussa. A testimonianza delle ingiustizie subite dai temuti grigi, lo rivedremo così addobbato. Fettine di cocomero divelte nell’angolo in basso a sinistra, ciondolo spaziale ereditato dai nuovi amici in sostituzione di quello artigianale/sudamericano, e un paricollo alla Steve Jobs sovrastato da quel devastante leopardato che di fatto regna su tutto il fotogramma: a ridosso della linea dei terzi, nello sfondo così come in primo piano. Oscura perfino i fiori sulla sinistra, dimostrando di saper vincere sulle cose colorate. Non è il tipo di fotografia sulla quale uno spavaldo fotoamatore avanzato porrebbe la propria firma: non la vedreste per colpa di quel leopardato. Che trasuda diva, red carpet, stilosità e la certezza che i Cynic li ritroveremo nel 2050, ovvero quando la sbornia gli sarà definitivamente passata.

A quel punto un buon terapeuta interviene e cerca di metterci una pezza, cosa che noi di Metal Skunk abbiamo già tentato – invano – con un Trey Azagthoth in balia della sua stessa band.

Innanzitutto suggeriamo di evitare il confronto diretto con individui di pari o superiore pericolosità intellettiva. È recente la pubblicazione di una foto che ritrae Paul Masvidal al fianco di un sempre più esaurito – o calato nel personaggio – Devin Townsend. Ecco, no. Riparti dalla semplicità, inizia a frequentare qualche pizzeria, fai a cazzotti con qualcuno a cui il cameriere ha passato LA TUA capricciosa: ma Devin Townsend no. E invece, Paul, sei già finito a farci la foto accanto con al seguito tutti quei giocattoli dalla dubbia utilità finale.

Inoltre potresti dare un ascolto a questo disco qua, con cui ti saluto perché sotto le ingenti pressioni dell’amico di lungo corso Tiziano, sono contrattualmente obbligato a scrivere che ti voglio bene e che possiedo The Portal Tapes in triplice copia autografata con coloranti naturali.

Questo disco qua è uscito fuori da una discussione col buon Piero Tola, più o meno nel periodo in cui la morte di cinque alpinisti a settimana mi faceva dubitare sulla fattibilità di un articolo-parodia sul death metal tecnico – del periodo 1991/1993 – sotto forma di scalata. Sicuramente, Paul, tu già lo conosci, provenendo da quelle zone ed epoche.

Hellwitch – Syzygial Miscreancy

Non ne pubblico la copertina, dato che è tremenda e mi serve lo spazio per un’ultima immagine. In pratica gli Atheist estremizzati fino al limite del possibile. Quelli di Piece of Time si intende. Album del 1990, quindi uscito a giochi per niente fatti. Date un ascolto ai suoi arrangiamenti, al dinamismo dei pezzi, e ditemi se il gruppo capitanato da Patrick Ranieri era lontanamente accostabile al termine debuttanti. Bellissimo, una autentica chicca. Mettilo su Paul, sono sicuro che ti farà bene. (Marco Belardi)

 

Don Belardi e i giovani d’oggi

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Un paio di mesi fa, al lavoro, ho incrociato un ragazzino sui sedici anni, con i capelli castani fino a quasi metà schiena e il giubbotto di jeans invaso di toppe. Ci aveva cucito sopra lo stemma degli Aura Noir, dei Craft, e un sacco d’altra roba scelta non proprio d’istinto. A distanza di una settimana ne vedo un altro che di faccia sembra la meteora juventina Paolo De Ceglie, solo che era all’incirca coetaneo del primo, anch’egli borchiatissimo e con indosso la t-shirt di Hvys Lyset Tar Oss. Punto primo: il metal non sta tornando a diffondersi per le strade del centro come nel 1998, quando perdevi il conto delle magliette e ti permettevi pure di schifarne alcune a tua scelta. Come seconda cosa, quest’anno posso dire di aver ascoltato una lunga serie di album concepiti e registrati da band giovanissime. E buona parte di queste aveva il giusto piglio, come quei due figuri che di sicuro stavano andando a devastare i bagni di una scuola superiore.

Vulture

Warchest, Inculter, Mortal Scepter, Contrarian, Vulture: fatta premessa che tra i suddetti potrebbe tranquillamente esserci qualche trentenne, il concetto è che questi hanno registrato al massimo tre dischi. Ora prendiamo cinque gruppi a cui ragazzi come loro possono essersi ispirati: rispettivamente dico Sadus, primi Sepultura, Destruction, Atheist ed Agent Steel. In nessun caso ho avvertito una reale sensazione di scopiazzatura, anzi, album come Fatal Visions potrebbero essere tranquillamente usciti nel 1987 per come ne ricreano il mood. Voi sapete come sia possibile una cosa del genere? Io no, ma ci sto riflettendo sopra da qualche settimana e penso che questi tizi qua – al contrario di me, che mi approcciai ai brasiliani proprio a partire da Schizophrenia – abbiano riletto l’evoluzione del nostro genere preferito al contrario, e successivamente stabilito cosa gli andava bene e cos’altro no.

Immaginatevi un pischello che mette su un album con quel poveraccio di Rob Dukes alla voce, apprezzando all’istante il lavoro svolto alla chitarra da Gary Holt. Poi va a ritroso, passa per quella bomba a orologeria che fu Tempo of the Damned, e alle origini della discografia di questi Exodus scopre un differente modo di far risaltare i medesimi riff. Giustamente gli garba da morire. Tom Hunting era preciso come un orologio anche agli esordi, ma nella testa di quel ragazzino passa una domanda: è solo uscendo nel 1989 che il thrash metal poteva suonare bene come in una The Toxic Waltz? Così si innamora degli anni Ottanta e vuole a tutti i costi che il suo disco suoni in quella maniera lì: vero, reale, tralasciando quell’heavy metal di mestiere che viene sdoganato oggi a suon di poster ritoccati in computer grafica. Lui le foto promozionali andrà a scattarle in un lercio capannone industriale abbandonato da qualche decennio; e tu, caro grafico, lavorerai con qualcun altro.

Il discorso appena concluso è esattamente il motivo per cui vado ripetendo che i Megadeth possono seguitare a deporre album validi come Dystopia, ma il fermo-immagine del 1986 con Poland e Samuelson gli cacherà eternamente sulla testa. Quello era lo speed metal meglio incarnato di ogni altro, mentre questo non è che la sua immagine riflessa in uno specchio: non deluderà mai, ma è poco autentica e Chris Adler che svolge un freddo compitino alla batteria è quasi da lacrimuccia. Mustaine all’epoca era un venticinquenne che si faceva, oggi è un repubblicano che prima di andare a dormire racconta un paio di confidenze al Cristo redentore aspettando che in risposta gli dica cosa ne pensa. Bello Dystopia, ma ci aleggia sopra tutta questa roba qua.

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Le inquietanti capigliature dei Baroness, il cui nuovo album mi ha piuttosto fatto schifo al cazzo

La cosa inizialmente lo fa pure sembrare un disadattato, al ragazzino che rimuginava sugli Exodus: relegato a un destino fatto di label minori, il che equivale ad autoprodursi ogni cosa sputtanando pure qualche soldo in più. Ma gli riesce bene, perché a vent’anni hai la testa sgombra e non ti sei già annoiato della ciclicità delle cose né hai maturato quel progresso tecnico come musicista che ti farà cambiare direzione, prendendo in taluni casi quella sbagliata. E ai soldi non ci pensi nemmeno, tu vuoi suonare come lo facevano i tuoi idoli, punto: i Venom per gli Slayer e via discorrendo.

A vent’anni sei libero da vincoli e preconcetti, e certe cose ti riescono molto meglio di quando potrai finalmente considerarti un professionista. Al contrario, persiste questa stupida tendenza da parte degli affermati colossi dell’heavy metal di volere allargare il proprio bacino di fan, e, con ciò, riuscire a piacere ai grandi come ai più piccini. Puttanata. Il gruppo grosso che mette sotto chirurgia estetica l’ennesimo album da intitolare con i numeri romani, per tanti che ne sono già usciti, in molti casi non capisce che, suonando nella maniera in cui immagina debba essere il metal adatto ad un pubblico giovanile, finirà col farsi ignorare proprio da questi ultimi e col deludere tutti gli altri. La risposta risiede forse nella mancanza di un vero e proprio trend oltre i primi anni Duemila: oggi stiamo assumendo doom e prog mischiati con qualsiasi cosa, abbiamo una scena metalcore americana già fatta di gruppi maturi e che corrono rapidi verso i quaranta, ma il trend di fatto non c’è perché sono i media ad esser fuggiti dal campo da gioco. Il trend era la roba dei Korn, non i Baroness. Per questo motivo voi veterani dell’heavy metal non saprete mai un cazzo di quello che vogliono i ragazzi, è tutto quanto molto frammentato e l’unica scelta saggia sarebbe quella di dar loro la migliore musica possibile. Suona quello che ti riesce bene, Wolf Hoffman, non andare da loro con una modifica strutturale di quello che ti ha meritatamente reso celebre. Falli venire da te, non fare come lo scemo di settantacinque anni in jeans col risvoltino, gilet smanicato e berretto alla Benjamin Price che incrocio ogni maledettissima mattina a Novoli. Il mood lascialo ricreare ai ragazzi, piuttosto. Sono loro che devono stabilire le regole future, e almeno in termini di thrash metal sembra non ci sia alternativa più saggia di questa: oltre una certa età, o appartieni alla nobile scuola di vita e pensiero di Saint Vitus o Darkthrone, oppure sei soltanto uno che timbra il cartellino per mandare avanti il circo dei Wacken e degli Hellfest. (Marco Belardi)

 

Quando una band con THOMEN STAUCH ne incontra una senza…

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Occhialino fulgido su un sorriso perennemente stampato e una bazza che non finisce mai. È Thomas Stauch, meglio conosciuto come Thomen, che per il sottoscritto rimarrà il solo batterista dei Blind Guardian al punto di non sapere come si chiami l’attuale.

I Blind Guardian vogliono dire tre cose: lui, ovvero il martello che ne manteneva l’impronta più metallica, gli intrecci chitarristici a gestire completamente le melodie, e infine, la voce possente e rauca di Hansi Kursch. Non vogliono dire altro, e il solo pensare a bardi, menestrelli, pan di via sbriciolato e orchestre varie mi fa sentire male, anzi malissimo. Comunque molto meno di Roberto, che ha dovuto affrontare il nuovo singolo e scrivere pure qualche riga su quella merda. I Blind Guardian dei quali ho ricordo sono un gruppo capace di suonare un power metal bello pesante, e dal rendimento impressionante perlomeno fino a Imaginations From The Other Side. Il motivo per cui adoro il loro ex batterista non è la sua straordinaria tecnica, poiché a me, innanzitutto, piace quando un musicista lo riconosci subito, e con lui era esattamente così. Bombardamento costante in battere, passaggio improvviso in levare nelle parti veloci e con una cazzata del genere era come se Thomen riuscisse a porre sempre e comunque l’accento sulla strofa o sul bridge che stava arrivando in pompa magna. La sua firma era grosso modo quella, oltre alle marce sul rullante fatte con il batticarne: grazie a piccoli espedienti del genere, Thomen era uno che partiva e non voleva saperne più di fermarsi.

Quando ripenso a lui nei Blind Guardian è automatico che ripensi ad Anatolij Bukreev, alpinista kazako di alto rango che ebbe la sfortuna di lavorare come guida per Scott Fischer nella disperata ascesa all’Everest del maggio 1996. Bukreev giunse in vetta alla quota di 8848 metri senza l’ausilio di ossigeno, come da consuetudine, e i piani di discesa risultavano in netto ritardo perché più spedizioni congiunte stavano tentando di portare lassù un assortito mix di incompetenti, ricconi in cerca di fama e buoni scalatori. Fra cui Rob Hall, guida esperta della Nuova Zelanda, e Jon Krakauer, giornalista ed autore del celebre Nelle terre estreme. Anatolij vide che dalle vallate sottostanti stava provenendo un pericoloso fronte temporalesco, qualcosa a cui difficilmente sopravvivi, a quelle quote. E in attesa che i ritardatari toccassero il fatidico numero 8848 per la consueta foto di rito, si tolse dai coglioni anziché portare a compimento il proprio lavoro: questo per problemi di pianificazione, di collegamento radio con Scott Fischer, ma soprattutto per il freddo accentuato dall’assenza di collegamento ad una bombola e perché glielo stava suggerendo l’istinto. Bukreev non solo raggiunse sano e salvo il Colle Sud e l’ultimo campo avanzato, ma si fece un tè caldo, e mentre la tempesta là fuori devastava tutto quanto – sempre guidato dalla razionalità – tentò ed effettuò alcuni salvataggi nelle zone entro le quali gli era possibile farlo. La guida Andy Harris, che si spinse più in alto, non fu più ritrovata, e così morirono anche Scott Fischer e Rob Hall, oltre a una decina di portatori sherpa e clienti che avevano pagato all’incirca settantamila dollari per partecipare alla spedizione.

Anatolij Bukreev morì un anno più tardi sull’Annapurna, travolto da una valanga alla quale sopravvisse soltanto il nostro Simone Moro. Esattamente come Bukreev, Thomen Stauch doveva sentirsi in vetta al mondo quando partecipò alla registrazione di uno dei più begli album power metal di sempre, Imaginations From The Other Side. E di lì a poco, avrebbe iniziato a sentire puzza di merda. Condivido la sua scelta di scappare via. Condivido la rinuncia alla fama garantita. Peraltro, con gli anni, io stesso avrei percepito il netto ridimensionamento dei Blind Guardian da gruppo trainante a nume tutelare che neanche in solitaria è più in grado di tenere a galla una realtà in cui stavano affondando più o meno tutti, Stratovarius inclusi. Ma Thomen, amante terminale della musica, nonostante i problemi alle vertebre cervicali e nonostante quella pesante rinuncia, si mise a farsi i cazzi suoi, il che rappresenta la soddisfazione principale per ogni musicista che ami la musica, e che non la intenda semplicemente come il lavoro che ti fa arrivare sano e salvo a fine mese. La discesa di Thomen dalla fama di Nightfall In Middle Earth, passando per quel A Night At The Opera che proprio non gli andò giù – e non riesco in alcun modo a dargli torto – dopo il cameo negli Iron Savior iniziò con Dreamland Manor dei Savage Circus, sempre assieme a Piet Sielck oltre che a un tizio, di cui onestamente mi sfugge il nome, che in ogni modo si sforzava di riprodurre lo stile canoro di Hansi Kursch (era il cantante dei Persuader, maledetto toscano infame, ndbarg). Così come le chitarre ricercarono i medesimi intrecci firmati Siepen ed Olbrich, i Savage Circus rappresentarono l’idea, di Thomen, di trovarsi ancora a bordo della stessa nave sebbene non fosse palesemente così. Ma almeno si stava facendo gli affaracci suoi, e, per quanto la sua band non consistesse in niente di trascendentale, né recensendo un buon album dei Savage Circus né l’altrettanto valido debut dei Serious Black – al quale Thomen partecipò – si rischierà un malore come è accaduto a Roberto col nuovo singolo dei Blind Guardian. Dove la parafarmacia non basta più, ci vogliono le bombe di ibuprofene. (Marco Belardi)

Il ritorno di ACID REIGN e RE-ANIMATOR

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Ho parlato di thrash metal inglese qualche tempo fa, in occasione del ritorno degli Xentrix, e, riassumendo ai minimi termini, poteva andare meglio di così.

Ora che è uscito un EP a nome Re-Animator, che ammetto di essermi completamente perso per strada alcuni mesi fa, e che il disco degli Acid Reign ha finalmente visto la luce, direi che è giunto il momento di scrivere qualcosa riguardo tutta questa gentaglia d’un certo livello. In Inghilterra non c’erano soltanto gli Onslaught, ma non fraintendetemi: un album indecoroso come Laughing dei Re-Animator avrebbe visto la luce proprio perché non c’erano soltanto gli Onslaught.

Partiamo con l’attualità e quindi con gli Acid Reign. E chi cazzo sono, per chi si fosse posto la domanda?

In totale hanno messo a segno tre dischi, un EP e due full di cui il secondo – Obnoxious – è stato generalmente malinteso, compreso male o letteralmente trattato di merda. Il motivo è che avevano provato a suonare un qualcosa di differente in parallelo con la scena che andava mutando, Europa, States, dappertutto. Dopodiché un chitarrista ha preso la via dei Lawnmower Deth, storico gruppo Earache degli anni Novanta, e in tre, fra membri storici e dell’ultima formazione, si sono ritrovati a suonare con Lee Dorrian nei Cathedral dei primissimi lavori.

Il loro disco di inediti si intitola The Age Of Entitlement e ha una copertina carica di significati, ma non per questo esente dall’essere orribile. Si tratta di un’altra tradizione tipicamente inglese, però meno ghiotta rispetto al pudding o alla birra Bulldog: ripensate per un attimo a quella di Laughing, con le bocche che sorridevano e le loro gengive stilizzate come se fossero culi rovesciati o cazzi, oppure alla peggiore di tutte, quella di Moshkinstein degli stessi Acid Reign. Questa non va oltre, ma è un bel derby con l’ultimo dei Flotsam & Jetsam se si vuol restare in tema. L’album si inquadra un po’ male alla prima. Sul momento ho maledetto Howard Smith per non aver conservato lo stile retrò che era stato conferito ai precedenti singoli, usciti in solitaria e aventi un po’ il fascino d’una demo. Dopodiché ci ho rimuginato sopra, e nel farlo, The Age Of Entitlement aveva già iniziato a entrarmi in testa. Peccato per qualche ritornello un po’ da alternative rock facilone di inizio secolo, e peccato per l’atteggiamento da skater cinquantenni che vanno a stroncarsi tutte le ossa degli arti inferiori cadendo in un parchetto frequentato da bambini e mamme. Però The Age Of Entitlement non è affatto brutto, il ritornello di New Age Narcissist è uno dei suoi migliori momenti in coppia con la cover di Blood Makes Noise di Suzanne Vega, e con le bordate hardcore presenti su tutta Ripped Apart. Come suona il disco? Tralascia completamente Obnoxious e dunque niente passaggi ai limiti del techno-thrash, ed evolve lo stile di The Fear soprattutto in direzione degli Anthrax e di certe cose dei Death Angel più vivaci. L’hardcore rimane un po’ nell’angolo, o meglio ce lo suggerisce la voce inconfondibile di Howard, non sguaiata come quella di un John Connelly ma comunque efficacissima.

I Re-Animator invece pubblicano un qualcosa che potrebbe essere letto come l’evoluzione dei mid-tempo di That Was Then… This Is Now, con un suono più saturo e artificiale, quasi alla maniera dei Kreator di Outcast. Poche accelerazioni, quindi, fatta eccezione per Blood Soaked Vacation che è un bel treno in corsa, e tanta voglia di rigiocarsi le carte del groove thrash dei Novanta: sia esso coraggio o masochismo, questo lo sapranno meglio loro di me. A mancare all’interno dei quattro pezzi di One More War è probabilmente un poco di dinamismo, nonostante alcuni riff di scuola Prong risultino facilmente memorizzabili oltre che d’ottima fattura. Per fortuna le stronzate funky di Laughing e il timbro di Kev Ingleson in rotta con James Hetfield sono due aspetti del passato dei Re-Animator che non ritroviamo oggi. Ad ogni modo, questa band al tempo di Deny Reality e Condemned To Eternity era stata letteralmente fantastica, e tutta la sua evoluzione successiva – compreso questo EP di inediti, che ha la peculiarità di suonare in qualsiasi modo fuorché retrò – resta un qualcosa di inspiegabile ai più. Oggi a sentire il bisogno di riallacciarsi a certe sonorità sembrano più i musicisti stessi che il pubblico, come se volessero aggiustare i cocci di un discorso avviato male, e lasciato un po’ a metà.

Alla prossima puntata con gli Anihilated che scopiazzavano Tom Araya (esatto, Anihilated con una sola n), i Sabbat, il disco più elaborato degli Onslaught e qualche altra chicca direttamente dal passato remoto della Terra d’Albione. (Marco Belardi)

Stroncare l’attesa di un album con pubblicità alla cazzo di cane

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indiana jones storage raiders of the last ark

Delle riviste accumulate presso la mia vecchia abitazione scandiccese, o meglio, dei ricordi di una vita metallara costruiti edicola dopo edicola, feci una pira sacrificale che trasudava profonda ingratitudine. Per fortuna oggi mi ha dato una mano il Cortesi, la cui abitazione la immagino più o meno come l’enorme magazzino in cui, al termine de I predatori dell’arca perduta, viene stipato il prezioso ritrovamento del professor Jones. Scaffali strabordanti giornali di settore, dei quali egli conosce a menadito ogni riga scritta anche un quarto di secolo fa.

La sequenza di immagini che vi propongo è estratta da un vecchio Metal Shock, il numero 274 di novembre 1998, e rappresenta benissimo quello che potevamo sapere di un disco di imminente uscita fino a poco più d’una quindicina di anni fa.

Fonte: Metal Shock numero 274, novembre 1998

Uscirà un nuovo album dei Rotting Christ, mi suggerisce la rivista. Mancano più o meno cinque mesi, ma questo dettaglio sono io a immaginarlo: è novembre, e il trafiletto me lo ipotizza per i primi mesi dell’anno nuovo. Non significa di per sé un cazzo, e non è un male in senso assoluto. Si tratta piuttosto di un fattore che mi terrà attivo su quel determinato argomento, e potrò solo supporre che nelle prossime uscite della rivista arriveranno gli altri pezzi del puzzle, in un’ulteriore e ultima comunicazione: titolo, data ufficiale, e, solo se lo spazio sarà sufficiente, tracklist e copertina. Il resto lo farà la mia immaginazione, ponendo il caso che io sia un fan dei Rotting Christ dell’era di mezzo: che cosa avranno cambiato da A Dead Poem?

In parole povere intorno al Natale del 1998 mi esploderà il cazzo per l’impazienza, e arriverò in negozio provato e frastornato, con davanti un oggetto del tutto ignoto. Neanche questo è un male in senso assoluto: a quei tempi non volendo rischiare c’erano già il sito Century Media per le preview in mp3, oppure Napster, e se eri fan e soprattutto ti piaceva, alla fine compravi. Oppure trasudavi anche tu profonda ingratitudine. Inoltre, sempre a quei tempi c’era già un grosso punto di collegamento con oggi, Internet, e l’era delle cassettine duplicate per gli amici – e dagli amici – era tramontata da pochissimo. L’ignoto, inteso come concetto, aveva il duplice compito di sollevare in maniera esponenziale il cosiddetto hype, e in seconda battuta, di recare il messaggio anche a coloro che, in fondo, Sleep of the Angels non l’avrebbero mai atteso neanche alla porta di casa propria. Poche informazioni ma necessarie: ecco com’era la comunicazione musicale qualche anno fa.

Fonte: Nuclear Blast web official

Passiamo al bombardamento mediatico al quale sono stato sottoposto in tre o quattro mesi d’attesa del nuovo Blind Guardian. Uno strumento come Spotify ha permesso alla band tedesca di lanciare uno o più singoli, e di conseguenza già saprete con certezza come l’album suona, come la band non suona più, e un sacco di altri piccoli dettagli che non molti anni fa costituivano la sorpresa nonché l’attesa stessa della sorpresa finale, Napster e sito ufficiale esclusi. Fra le varie comunicazioni troveremo nozioni di tipo commerciale, su come effettuare il pre-order, e svariati trailer o documentari. “Perché si sono così diffusi trailer e documentari per pubblicizzare l’uscita di un album?”, mi domando sempre. Rientro sulla pagina e c’è perfino un’ottava mail circa un e-book del quale non m’importa niente.

Credo che questa pubblicità a mitraglia sia una diretta responsabile dell’approccio talvolta (anzi: spesso) disamorato che oggi abbiamo nei confronti degli album.

Per un attimo non metterò in dubbio che il sistema adoperato dalle grosse etichette discografiche, e tramandato da quelle di maggior successo alle altre, sia il più corretto e funzionale. Quale ingrediente le porta a comportarsi così, in sua mancanza? La qualità oggettiva della musica, quella che non si discute. Un disco genererà facilmente hype in un momento nel quale le uscite di alto livello si susseguono, e tu, consumatore, avrai bisogno giusto di una frase per focalizzare l’attenzione su un prodotto che vedrà la luce tra mesi, basandoti su una manciata di dettagli. Vendi roba buona? Diffondi un messaggio che colpisca, ma uno soltanto. La pubblicità diventa martellante nel momento in cui si ha la necessità vitale di vendere fumo, e la concorrenza diventa una mera scusante con cui giustificare la vendita di cose livellate verso la sufficienza risicata. Pubblicizzare diventa così arroganza, diventa spavalderia, diventa la parola “buoni” su una busta di insipidi biscotti dietetici, che mangerai perché sei in sovrappeso e mai perché siano effettivamente migliori dei Baiocchi. Quella scritta è una presa per il culo, punto. E quindi cambiano i metodi, come nel caso di etichette che detengono il 99.788% dei gruppi mondiali che si permettono pure il lusso di mettere l’accento sul documentario fatto con un cellulare e due husky che trainano una slitta con sopra una GoPro, da qualunque gruppo scadente o non scadente che volesse uniformarsi all’idea di fare un documentario perché oggi ci gira così. Ma che c’è realmente da dire, in un album, fatta eccezione per la musica stessa? Quest’ultima dovrebbe comportare il grosso della pubblicità.

La logica di superare la famosa e vasta concorrenza finisce quindi per suggerire vie scellerate come quelle che hanno avvolto con tutto, tranne che con l’amato ignoto d’un tempo, il nuovo, pompatissimo, sinfonico album dei Blind Guardian e tanti altri prodotti che, pur non costando un milione di euro, ci faranno ugualmente schifo. E credo che il sovradosaggio di pubblicità finisca col diventare nocivo nel momento in cui viene applicato a un prodotto il cui reale valore è inferiore all’hype che si tenta di creargli attorno. Prendi un album di una band con una fanbase ridotta, ma costante, metti in giro giusto una frase e la fanbase stessa impazzirà all’idea di ascoltarlo. Prendi un lavoro scadente fatto da cinquantenni che intravedono la pensione, fallo assomigliare a qualcosa che ci serve davvero, e non finiremo neppure con l’ascoltarlo perché sarà il tam tam mediatico, in prima battuta, ad avercelo fatto venire a noia. Otto mail, otto messaggi pieni di un bel niente sulla nuova disgrazia dei Blind Guardian? Otto mail, otto vaghi messaggi riguardo due ore di Hansi Kursch che sbraita sulla colonna sonora di una produzione Netflix senza immagini? (Marco Belardi)

Proposta di sceneggiatura per un biopic su MIKE MANGINI

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La commessa del centro di collocamento osservò con sospetto il suo nuovo cliente, un ragazzone dai lunghi capelli scuri, muscoloso e sorridente, ma che sicuramente stava tentando di giocarle un brutto scherzo. E così, subito dopo averlo schedato gli pronunciò la domanda che teneva a mente fin da principio: “Signor Mangini, perchè si sta rivolgendo a noi? Ci risulta che ha appena trovato un impiego in Canada, come batterista, presso una band di nome Annihilator.

Mike alzò gli occhi nella sua direzione e si limitò a rispondere: “Appunto”.

Un anno più tardi negli Annihilator non rimaneva più nessuno, come se la regione dell’Ontario fosse stata distrutta da insostenibili venti provenienti da Nord. O meglio, un tale di nome Jeff Waters, nel pretendere di fare tutto da solo, assunse giusto Randy Black per registrare la batteria ai limiti dell’osceno di King Of The Kill.

Mike fece ritorno in Massachusetts, dove trovò conforto presso un piccolo box garage acquistato per lavorare in proprio. E iniziò subito: lontano da occhi indiscreti fuse l’acciaio, allineò gigantesche barre di metallo e forgiò dischi taglienti come rasoi, e al termine d’ogni giornata chiudeva il bandone con un enorme lucchetto. Perché lì dentro non custodiva altro che il suo piccolo ma pesante segreto.

mike mangini bucket drum solo

L’attività di Mike Mangini come insegnante di musica e batterista proseguì negli anni, e in particolar modo, ebbe a che fare con James LaBrie dei Dream Theater in più di un’occasione. Archiviata la parentesi Extreme, registrò la batteria su un paio d’album dei Mullmuzzler. Non era un lavoro di quelli che ti garantiscono un futuro certo, ma il loro cantante gli sembrò un tipo dall’aria familiare e questo finì con l’attenuare ogni attrito. Nonostante il tutto procedesse senza rilevanti intoppi, Mike avvertì l’impulso di doversi ripresentare al centro di collocamento. E fuggì, come calamitato dalla medesima commessa, ora bolsa e con un’evidente ricrescita di capelli bianchi che non si degnava più di nascondere agli interlocutori.

“Avrei per te un posto nella band solista di James LaBrie”.

Il primo giorno di prove tutti aspettavano Mike, che era in leggero ritardo. Si era perso in quel maledetto garage a segare e assemblare, fondere e saldare parti. Appena aprì la porta dello studio c’era una sola figura a dargli le spalle, e doveva trattarsi del cantante, poiché gli altri erano tutti alle prese con i rispettivi strumenti. Il lungocrinito figuro si voltò, e per poco, nel riconoscerlo, Mike non ebbe un malore: era lo stesso tizio dei Mullmuzzler. Quest’ultimo capì d’essere stato tradito dal miserabile mercenario della doppia cassa, e per quanto i Mullmuzzler non fossero altro che il prologo del suo nuovo progetto, prese la più ferrea delle decisioni. Lo costrinse. Usò la forza per farlo partecipare all’agghiacciante Elements Of Persuasion, idea della voce dei Dream Theater di suonare un indecoroso crocevia tra power e thrash metal anni Novanta, ovvero quello che era riuscito anche agli Eldritch, ma a lui proprio no. Mentre il cantante di Awake oziava su un divano, degustando una tisana al cardamomo e cannella e godendosi in cuffia il suo capolavoro dell’Orrido, Mike si rese conto di cosa avesse appena combinato e lentamente aprì la porta dello studio di registrazione. Uscendone lesto e non facendovi più ritorno. Successivamente avrebbe avuto una tale paura del centro di collocamento da restarne alla larga per cinque lunghi anni.

Ricomparve in Canada quando un vecchio amico gli fece promessa di avere per le mani del “brutto materiale per almeno due dischi, dopodiché magari ti butterò fuori come ho fatto con tutti gli altri”. E così suonò la batteria su Metal, l’album degli Annihilator in cui c’erano tutti quegli ospiti estratti a casaccio: Alexi Laiho, Michael Amott, e probabilmente anche un ispirato Nino Frassica (uncredited). Se ne vergognò così tanto che il suo mal di stomaco prese a restituirgli un forte reflusso a metà tra la sbornia alcolica e la tisana al cardamomo e cannella di James LaBrie. Fuggì dal Canada, ma stavolta non tirava alcun vento distruttivo dal Quebec: era la semplice accettazione, da parte di Jeff Waters, del concetto basilare che “fare schifo nel senso più assoluto” non fosse una cosa così brutta. Piuttosto una sorta di libidine nel fango, come il maiale che si crogiola e si rinfresca in quel che agli occhi di noi tutti è soltanto un denso mix letale di sporcizia e batteri. Questo era Metal degli Annihilator, una pozza di feci e lurida terra piena d’ospiti rotolanti dalla felicità, con Jeff Waters su un bordo rialzato a lanciar loro ghiande e indicazioni.

mike mangini dream theater mullmuzzler james labrie

Salutati i kamikaze canadesi, Mike se ne tornò in fretta e furia al box garage, che per sua fortuna si presentava privo di segni d’effrazione. Ivi ritrovò la vecchia chiave per il lucchetto, ben nascosta sotto a uno zerbino oramai marcio di muffa. Una volta all’interno riprese a segare, ad assemblare, a costruire nervosamente qualcosa. Modificò il tetto di quella struttura, già fatiscente ma ancora in grado di donargli una incredibile sensazione di privacy: alcuni passanti guardavano in su e mormoravano, teorizzavano, ma nessuno di loro riusciva a capirci granchè. In una pausa accese la tv e si guardò un live dei Dream Theater, in cui Mike Portnoy si trovava alle prese con la sua The Mirage Monster, batteria di concezione himalayana che ben otto alpinisti esperti avevano provato a scalare per non fare più ritorno. Fu la miccia che lo fece sentire pronto a tornare al punto di partenza.

La commessa del centro per l’impiego stava per chiudere l’esercizio, quando al tramonto riconobbe un volto famigliare e gli concesse d’entrare. Mike era ancora tutto sporco di morchia per il gran lavoro svolto nel box, ma si sedette e accettò di partecipare a un provino che si sarebbe tenuto a New York. “Roba grossa”, aveva aggiunto lei, sperando di riuscire a sistemare lo sfortunato precario una volta per tutte.

E così prese il primo aereo diretto a Sud-Ovest lungo la costa statunitense, osservando fiero l’Atlantico nel sovrastare Cape Cod, Martha’s Vineyard, e subito dopo Long Island. Pieno di meraviglia, Mangini atterrò e si diresse rapido dove gli avevano dato appuntamento. L’assembramento militaresco di batteristi, rigorosamente incappucciati vista la gravità dei fatti, era tale da ricordare la scena dell’interrogatorio iniziale de I soliti sospetti: nessuno sembrava in alcun modo attinente con quel che stava accadendo, mentre ognuno, o quasi, pareva finito lì un po’ per caso. Una volta privati del sacco che impediva loro di vedere e orientarsi, in sette si ritrovarono liberi di scorrazzare in questo gigantesco studio con una grossa batteria rossastra posizionata al centro. Un boss coreano dai capelli lisci e neri e un sadico dall’antiestetico pizzetto bianco, formando un macabro Yin-Yang di vecchia peluria in contrasto, li scrutarono uno per uno; mentre il cantante, come per trasmettere un senso di superiorità e distacco, se ne restò di spalle. Quell’altro tale, di nome John Petrucci, Mike pensò d’averlo già visto da qualche parte, forse alla televisione. Il cantante si voltò di scatto, suscitando in un imbarazzato Mike Mangini nient’altro che terrore puro.

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Uno dopo l’altro i ritmici si esibirono sulle note di A Nightmare To RememberThe Dance Of Eternity e The Spirit Carries On. Virgil Donati dei Planet X procedette a velocità pazzesche su qualsiasi cosa gli si presentasse davanti. Un sagace Marco Minnemann tentò invano di fugare ogni notizia circa il suo presunto favoritismo tenendo indosso la maglietta più sbagliata al mondo, e con ciò infastidì non poco i quattro esteti del prog metal newyorchese. Aquiles Priester – ex Angra – fece una cazzata davanti allo sguardo severo di Jordan Rudess: fu immediatamente incappucciato e riportato in Brasile, dove venne consegnato al temibile BOPE e costretto ad ascoltare per anni i soli Sepultura dell’era Greene. Il batterista dei Darkane, Peter Wildoer, sorrideva sotto ai baffi forte di un paio d’album registrati insieme al solista James LaBrie da infimo successore del precario Mangini: “un’alleanza destinata ad espandersi e perdurare!”, gli sentirono esclamare in bagno mentre sfogliava un vecchio catalogo della Negative. Derek Roddy, intanto, andava distruggendo ogni parte o sporgenza della solida batteria rossa con blast beat fuori da ogni logica o contesto. E quel fragore aveva appena risvegliato Mike dal torpore e dallo shock subiti attraverso il fatale incontro. Ci avevano provato in ogni maniera, perfino con alcuni catini di tisana al cardamomo e cannella: ma solo il batterista di Black Seeds of Vengeance lo svegliò.

Ancora confuso, il due volte ex-Annihilator posizionò i piatti a circa dodici metri d’altezza con alcune aste personalizzate che s’era portato dietro dal box segreto, al costo di compromettere la segretezza dei suoi intenti. Un rischio che si sentì di dover correre! Ubriacato dal susseguirsi di traumi e forti emozioni, Mike si mise a fare il coglione per tutta l’audizione, o almeno, finché James LaBrie non gli urlò con tono ostile di finirla, “perché è tutta una messinscena e avevamo deciso per il tuo nome prima ancora di farti volare fin qui”. John Petrucci sembrava con la testa altrove, come se il suo piano di convocare Derek Roddy per dare un tono più credibile e variopinto all’audizione, non fosse andato poi così bene. Eppure Mike Mangini era il nuovo batterista a tempo pieno dei Dream Theater. Ora osservava avaro i vecchi video di Mike Portnoy a cavallo della bellicosa Siamese Monster. Ora era pronto a spalancare il bandone del suo garage dell’Occulto per prendersi il mondo. Thomas Lang era stato sconfitto, e tutti gli altri pretendenti, o duellanti che fossero, erano andati incontro a eguale fine.

mike mangini drums

La notte stessa Mike Mangini ebbe gli incubi. Ebbe i peggiori della sua vita, per dirla tutta. Due luccicanti strutture metalliche, fuoriuscite dall’Oceano come in Pacific Rim, stavano letteralmente distruggendo New York in proporzioni non distanti dall’immaginario di Cloverfield. Con l’ausilio di un radiocomando a distanza, Mike tentava invano di fermare colei a cui attribuiva un malsano senso di paternità, e che irresponsabilmente rinforzò con enormi barre d’acciaio e dischi altissimi, i quali roteavano e minacciavano la metropoli dall’altezza dei cumulonembi. Ma questa non voleva proprio saperne di rispondere ai comandi. L’opposizione consisteva in un prodigio d’ingegneria a trecentosessanta gradi, inattaccabile, con una mezza dozzina di rullanti in faretra. Il suo manovriero giaceva semiaddormentato nel Bronx, con la testa appoggiata a una bottiglia di rum scadente, bisbigliando qualcosa a proposito del disco da registrare con gli Avenged Sevenfold. Tra una sillaba e un’altra vomitava succhi gastrici, volgeva un rapido sguardo alla distruzione di massa e se ne ritornava tutto affaccendato a sporcare il marciapiede. I due oggetti giganti si azzuffarono, cozzarono, octaban contro china Zildjian da diciotto, charleston sinistro contro il quinto rullante Tama a prua, mentre New York cadeva a pezzi palazzo dopo palazzo, porto dopo ospedale, con onde gigantesche che si innalzavano dal fiume Hudson verso tutto quel che prosperava nei paraggi. Strumenti musicali, concepiti e costruiti per alloggiare la creatività d’un gran ritmico, ora erano eretti a macchinari di morte come i carri sovrastanti le copertine dei Marduk, e minacciavano i rapporti con stati vicini come il Rhode Island, gli scambi commerciali, e il generale quieto vivere della bellicosa Nazione che mai avrebbe ammesso il generarsi di un simile scempio entro i propri confini. I caccia si levavano in cielo assumendo più formazioni da sei elementi sistemate in parallelo, “sciocchi!”, come se i loro missili potessero qualcosa contro tutti quei timpani e i vigorosi battenti degli Iron Cobra.

Mike si svegliò di soprassalto, un ceffone di James LaBrie lo aveva destato e ora quest’ultimo gli ordinava di andare ad abbassare tutti quei piatti di merda che stavano al secondo piano. E per una volta, ad anni di distanza da Elements Of Persuasion, lo svociato e imbolsito cantante aveva davvero tutta la ragione del mondo. Non c’è rimedio alcuno contro i tamarri, e chi lancia un’accusa, un monito o un insulto contro gli usi e i costumi d’un Yngwie Malmsteen dovrebbe prima dare un occhio al resto del pollaio. Perché certi batteristi si nascondono, ma è ciò che li nasconde a mettere paura. (Marco Belardi)


Lo speciale sul techno-thrash tedesco del quale avevate bisogno

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Il 1986 fissò una sorta di standard in svariate parti del globo, e oggi vi scriverò di quel che accadde in Germania. Sul finire dell’anno fu pubblicato Pleasure to Kill, uno dei dieci album della vita, e di sicuro il disco thrash metal più incisivo che sia mai uscito entro i confini crucchi. Pleasure to Kill fissò lo standard tedesco mentre nel frattempo si stabiliva dove l’intero movimento sarebbe potuto arrivare, specie per mezzo degli stranieri Master of Puppets e Reign in Blood, e da dove avrebbe potuto pensare di ripartire. D’altro canto Pleasure to Kill non ispirò in via diretta molti fra i connazionali che avrebbero debuttato in seguito. Il passo successivo fu infatti costituito dall’irruzione del techno-thrash, un filone a dir poco meraviglioso ma che allo stesso tempo contribuì involontariamente ad ammazzare tutto quanto, incapace com’era di tener botta alle avversità che il mercato gli avrebbe imposto. Niente lieto fine: alla fine dell’epoca d’oro del thrash metal le difese immunitarie non si chiamavano più Pleasure to Kill, ma ci sarebbe stata, in loro sostituzione, un sacco di musica di cui sostanzialmente non fregava più niente a nessuno.

Anni prima della disgrazia collettiva, mentre a una delle più belle scalette di sempre si perdonava l’aver fatto cantare al batterista Jurgen Reil la metà dei brani, un giovane Mille Petrozza andava suggerendo a Noise Records di mettere sotto contratto i connazionali Deathrow. La Noise si presentava come un’etichetta a dir poco deliziosa, che volgeva il suo sguardo ovunque e al contempo ostentava un’innata capacità di far sgorgare thrash metal un po’ dove cazzo le pareva: in Inghilterra con i D.A.M., più a nord con gli svedesi Midas Touch, o nella vicina Francia coi devastanti Agressor di Neverending Destiny. In Germania fu pressoché il caos. Go and Live, Stay and Die e il successivo Brain Damage furono l’accoppiata d’ingresso – e di uscita – per i connazionali Vendetta, e nel frattempo i Deathrow si segnalarono per altrettante pubblicazioni in perfetto stile classico. Ma toccò a tutti superare il 1986, in una maniera o in un’altra: fu l’occasione, probabilmente l’ultima, per distinguersi dai predecessori e aggiungere altro ai cosiddetti standard che erano stati appena stabiliti.

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Deathrow

La maturazione tecnica dei singoli musicisti fece sì che una significativa fetta di thrasher iniziasse a ricercare e sperimentare. Per chi come i Paradox aggiunse a una base costituita principalmente dai Metallica il power metal, ottenendo con ciò l’ottimo Heresy, vi erano altri, come Accuser, Assorted Heap o Protector, che optarono per una ricetta sfacciatamente violenta. Addirittura estrema, se si esamina il caso dei quasi sconosciuti Poison o dei Desaster. Innumerevoli nomi minori crebbero, come i Grinder di Stefan Arnold, lo stesso dei Grave Digger, e pure da quelle parti si scelse di pestare a oltranza. In fin dei conti, la triade composta da Sodom, Kreator e Destruction in patria la faceva ancora da padrona, e avrebbe tenuto magnificamente botta per tutta la restante porzione di decennio. Ma non stavano crescendo bene soltanto i Deathrow, nel definire il cosiddetto techno thrash. Non furono neanche i primi, per l’esattezza. Nel 1987 scoppiarono i primi botti: l’inizio dell’omonimo Mekong Delta, intendo i primi secondi assoluti di materiale, era una roba da lasciare chiunque a bocca aperta. Mi sono innamorato dei Mekong Delta proprio ascoltando il loro primo album, che non è neanche il migliore della discografia – questo per merito di titoli maggiori come The Music of Erich Zann – la quale ci avrebbe fatto piangere i continui cambi di line-up avvenuti a fianco del bassista Ralph Hubert, a partire dagli anni di The Principle of Doubt. I Mekong Delta erano una band immensa, oltre che estremamente prolifica almeno per quel che concerne il suo primo periodo vitale: che fosse merito di Wolfgang Borgmann oppure del periodo storico favorevole, fattostà che i Mekong Delta colsero l’attimo e – in patria – lo fecero per primi.

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Ralph Hubert

La cosa si espanse a macchia d’olio, ma inizialmente accadde in maniera piuttosto controllata. Nel 1988 uscì appunto Deception Ignored, il miglior disco dei Deathrow. Non me ne vogliano i primi due album, ma Deception Ignored fu di un altro livello, oltre a rivelarsi del tutto necessario a comprendere il techno-thrash proprio a causa della sua netta divergenza dalle precedenti pubblicazioni. I Deathrow non sono un gruppo che nasce tale, cosa che potremmo affermare nel caso dei Mekong Delta o degli americani Watchtower di Jason McMaster, di Alan Tecchio, o se preferite di quel matto di Jarzombek. Sono un gruppo che affrontò un processo, lo stesso che ha portato i Dark Angel, da tutt’altra parte del mondo, a raggiungere il sublime livello di Time Does Not Heal. La differenza è che, se nel caso della band di Gene Hoglan potremmo preferire Darkness Descends al più noto e postumo capolavoro – ed io personalmente lo preferisco – nel caso dei Deathrow di Deception Ignored ho sempre affermato che finalmente, per mezzo di esso, i Deathrow erano diventati i Deathrow. Non un capolavoro di impareggiabile livello compositivo, ma un titolo che in materia di thrash metal tedesco sentiamo nominare troppe poche volte, al costo, poi, di sorbirci tutto quello che Schmier e Sifringer si sono sentiti in dovere d’incidere a reunion avvenuta. In contemporanea, chi si sarebbe mantenuto ancorato a generalità più classiche acquisì una maturità compositiva che non avremmo potuto non accostare alla contemporanea esplosione del techno-thrash nazionale: agli Assassin, ai Living Death e perfino agli Holy Moses di The New Machine of Liechtenstein toccò fare vistosi passi in avanti nel curare e nel perfezionare le proprie composizioni.

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I Sieges Even al tempo di Uneven

Come terzi in questa lista metto i Sieges Even, ovvero un valido motivo per riaprire gli ospedali psichiatrici. Se vi piacciono i Watchtower non potete perdervi per nessuna ragione al mondo Life Cycle dei Sieges Even, che poi altro non era che la band dei due Holzwarth, Oliver ed Alex. Se rifletto su dove sarebbero finiti quei due tizi in seguito, mi piange e in contemporanea mi esplode il cuore. Il techno-thrash di Life Cycle era contemporaneo a quello di And Justice for All, ma diametralmente opposto per come fu pensato. I Metallica cedettero all’urgenza di dare un’impronta maggiormente heavy metal, oltre che sempre più oscura, alle proprie composizioni. Curando più che poterono gli arrangiamenti e complicando la struttura dei pezzi, ottennero per risultato l’album del 1988. Agli antipodi troviamo Life Cycle, che è contaminazione pura, per quanto la sua base consista pur sempre nel thrash metal. A differenza dei Mekong Delta, che partirono con un maggior senso del pudore per poi finire col tributare la musica classica, i Sieges Even ebbero lo stesso coraggio iniziale che in precedenza fu attribuito ai Watchtower. Apocalyptic Disposition l’autentico capolavoro dell’album, a dimostrazione di come il techno-thrash fosse perfettamente in grado di sprigionare energia ed aggressività in quantità indipendenti dalla tecnica. Quello che è accaduto ai Sieges Even a partire dal successivo Steps semplicemente non l’ho mai approvato, e nel loro fuoco di paglia avrei individuato uno spreco di talento in proporzioni raramente osservabili in giro.

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Depressive Age, momentaneamente D-Age in seguito allo storico scioglimento

Il filone intero intorno al 1991 era pressoché morto. Prendete per buoni gli americani Anacrusis di Manic Impression, poiché lo erano, e anche tanto. Oppure prendete per buoni gli Psychotic Waltz del loro primissimo A Social Grace, che se thrash metal non era, ci faceva comunque un giro completo tutto attorno, addentrandosi più e più volte. Ma tutto quanto si trovava agli sgoccioli. Ciò non rese il techno-thrash irrecuperabile: rese irrecuperabile l’intero genere. Il mercato spingeva tutti quanti a suonare la musica più lenta, massiccia e semplice possibile, motivo per il quale delle raffinatezze e degli arzigogoli proposti dai Mekong Delta non fu possibile salvare molto. Al contrario, etichette come Noise continuarono a seguire il metal tradizionale dei Conception e dei Running Wild, pur non disdegnando curiose sperimentazioni come ne vennero in mente ai Kreator di Renewal. Ma chi intendeva muoversi nel terreno accidentato del thrash metal d’ora in poi doveva farlo sulle sue stesse gambe, al costo di proporre una ricetta scontata e inflazionata come quella degli Archaic Torse (Tapping the Vein era contemporaneo, e sinceramente bastava e avanzava). Restiamo in Germania, dunque. Gli ottimi Depressive Age, ad esempio, finirono col debuttare negli anni dei primi grossi problemi esistenziali: e ora che si fa per mantenere un contratto discografico? Nacque qualche gruppo interessante, ma fatta eccezione per questi ultimi, dei quali vi raccomando di recuperare i primi tre album in successione, nessuno che fosse così degno di perderci mezzo pomeriggio.

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Mekong Delta

I Subcutane portarono avanti il discorso avviato dai Paradox, puntando ancor più sulla qualità e varietà degli arrangiamenti: era il 1995, e il loro Welcome to Our World ricevette discreti consensi sebbene una certa mancanza di mordente, a partire dalle linee vocali, avrebbe limitato oltremisura il ciclo vitale dei suoi autori. Due anni più tardi si rivide timidamente del techno-thrash in Germania, stravolto, contaminato da cose che non funzionarono come invece era accaduto in Svizzera con Gurd e Coroner. Erano i Mind-Ashes di The Views Obscured, che pendeva sensibilmente dalle parti dei Nevermore di The Politics Of Ecstasy, anche se con un rullante inverosimilmente più brutto di quello percosso da Van Williams. In contemporanea uscirono pure gli Shit For Brains, una sorta di crossover tra i primi Grip Inc. e soluzioni più accostabili al techno-thrash. Tutti questi gruppi proposero un qualcosa di estremamente differente da ciò che avevamo osservato in partenza, ossia Energetic Disassembly e poco più tardi i Mekong Delta dell’omonimo. Quello in cui credo, e in cui un po’ spero, è che tutto prima o poi ritorna. Avete presente il death metal tecnico? Ne incontriamo poco che davvero assomigli a quello del 1991, ed oggi, pur in forma inedita, è ritornato in auge. Abbiamo sugli scaffali quantità infinite di thrash metal moderno, dai Power Trip passando per coloro che, come gli Angelus Apatrida, inseguono con successo soluzioni ben più attuali. Il techno-thrash, in Germania così come fuori dai suoi confini, non ha ancora individuato abbastanza personalità in grado di succedere a chi ho nominato in questo articolo ed ai più fortunati colleghi americani, ed io lo aspetto, perché tanto prima o poi sarà il suo turno. Specialmente se passa la sbronza a David DiSanto. (Marco Belardi)

Nel ridere di loghi incomprensibili, le copertine erano finite in caciara

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Ho scherzato a lungo sui loghi fatti coi legnetti, raccolti nel bosco dietro casa e poi gettati per terra col fine unico di ottenere un’immagine che avrebbe rappresentato La Band sulle copertine. Passa il tempo, passano i meme e tutte le stronzate del caso, e si arriva alla mia recensione del nuovo Blood Incantation. La questione fatta di corteccia e incomprensibili ramificazioni è già preistoria, non mi fa più effetto neanche se me la ritrovo spiattellata in faccia sul mio album preferito del 2019, e neppure se i flyer di un qualunque festival brutal death presentano molti più sottotitoli di una puntata di Gomorra. Qualcos’altro mi molesta.

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A codesti gruppi perdonerei ogni trabocchetto da esame oculistico per la patente di guida, e con tutta probabilità lo farei perché in ambito death metal, o più generalmente estremo, la qualità delle copertine si è mediamente fatta altissima. Oggi nascono, si formano ed esplodono autori grafici le cui creazioni sono poi richieste dalle band d’ogni angolo del globo, affinché una firma riconoscibile sia accostata alle luciferine composizioni di cui i committenti si faranno vanto. Negli anni Novanta rimasi ammaliato dalle notevoli opere di Dave Patchett sugli artwork dei Cathedral, mentre una parte di me s’obbligava a sopportare le complicanze che la computer grafica, adoperata alla cazzo di cane, avrebbe portato alla luce senza covare alcun rimorso. Millennium dei Monstrosity, per capirci.

Alla contrapposizione di cotanta magnificenza e diseducazione artistica, il metal contemporaneo ha dato risposta attraverso una magistrale selezione di coloro che avrebbero potuto elevare, ad Arte, una delle mansioni che mai i suoi fruitori riconobbero come tale: quella del grafico. La quale si diramava in mille tipologie un po’ come inspiegabilmente accadde al black metal di fine secolo. Da sempre remunerato con il consueto cinquantino a nero, o nel peggiore dei casi con un paio di magliette ufficiali o ufficiose (Fruit of the Loom, vestibilità media), il grafico ha per anni osservato le band nel perfido atto di creare il proprio logo lanciando sottile legname sul pavimento, di risparmiare, o magari di chieder consiglio di sotterfugio per poi fuggire rapidamente nella bruma. Ma i tempi sono ora maturi per la sua rivincita! E non occorre andare a razzolare nella storia per riabbracciare chi potè permettersi H.R. Giger, o chi cacciò fuori uno dei disegni più inquietanti che io abbia mai osservato, e lo piazzò in fronte a Release From Agony. Oggi accade con sorprendente regolarità, poiché computer grafica – Netflix escluso – e disegno sono finalmente un qualcosa in cui è riposta la meritata importanza. E questo ha a che fare con la musica che amiamo. E quel qualcosa deve probabilmente trovarsi alla portata di molte tasche: sancendo, di fatto, il mancato tramonto dei famelici cinquantini a nero.

Come in quasi ogni articolo di cui mi occupo, arriverò dunque al fattaccio. Le band hanno instaurato un’estrema confidenza coi mastri della tavoletta, e i grafici, una volta conosciuti i propri polli a sufficienza per capire cosa dovessero iniziare a disegnare in sequenza, si sono messi all’opera come macchinari in inesauribile movimento nelle medesime viscere incendiate che plasmarono gli inarrestabili Uruk-hai. Il problema delle copertine death metal degli anni recenti non è che facciano schifo, è che sono tutte uguali. Inoltre cozzano con quella regola generale della fotografia che si traduce in less = more, disturbando i pilastri della composizione mediante il riempimento di ogni millimetro della paginata per mezzo di ottocentomila dettagli o personaggi. Tradotto: generalmente non si capisce una sega di quello che osserviamo. Immagino imbarazzanti dialoghi tra il grafico, che sull’hard disk di casa custodisce gelosamente una cinquantina di disegni stereotipati e già pronti per i suoi compratori, e il tizio inviato dalla band per stabilire le coordinate di una prima bozza. Dalla quale partire, definitivamente, verso un disegno di sicuro successo. Su che stile ci buttiamo?

Innanzitutto benvenuto nel mio Atelier. Per il vostro lavoro ho immaginato uno stile marinaro, niente di particolarmente Mastodon ma piuttosto una concezione prettamente lovecraftiana. Un Rimini Rimini all’Inferno, se mi concedete.

Ma è magnifico! Un delizioso contrastare di toni freddi e caldi, figure divine e polpi, e onde gigantesche che sovrastano il cielo. Sfortunatamente il nostro bassista ha vomitato anche l’anima all’ultimo Megacruise. Avresti qualcos’altro da mostrarci?

Il grafico reprime una bestemmia e cambia cartella, sì, adesso è davvero quella giusta. E prosegue: Non chiedetemi perché, ma è piuttosto di moda raffigurare qualcosa che trasporta qualcosa. Ritengo che possiate farne tesoro, ammirate e meravigliatevi! I Cattle Decapitation hanno fatto grossi passi in avanti da quella volta che scelsero una mucca che cacava parti umane: ora è il vostro turno, l’ora di avanzare.

Neanche stavolta sembra andar bene. Come nella scelta di un abito da sposa, ma senza facinorose damigelle che ne disturbino il risultato finale, grafico e chitarrista ritmico insistono nell’individuare un compromesso che pare assai distante. Tuttavia il professionista non è più il ragazzetto avido di cinquantini a nero di dieci anni fa – adesso prende settanta – e, frutto di una preparazione radicata nell’ingegno e nella creatività proprie, mostra lui il repertorio cartella dopo cartella, bozza dopo bozza, disegno dopo disegno. Niente, tuttavia, è stato creato appositamente per la sua band, ma ciò non ha alcuna importanza: il chitarrista ritmico attende le idee dell’altro come in una logorante partita a scacchi, o magari, si sente sotto esame come se in testa non ne avesse una mezza da suggerire. E il grafico gli dice: Molti anni orsono i Fleshcrawl mi diedero idea di quest’immagine contenente un buco che inghiotte tutto quanto, esprimendo con ciò il concetto di vuoto inteso come inevitabilità, o fine delle cose senza alcun seguito, e non come conservazione degli alimenti. Oggi esce un sacco di roba su questo filone, guardi un po’.

Il cliente non sa assolutamente come reagire a un qualcosa che, ai suoi occhi, non rappresenterà, nelle immagini e nemmeno nei concetti, le volontà espressive del suo gruppo su quel determinato disco. Il silenzio è tutt’altro che assenso, ma è anche sfida. Il grafico a quel punto decide di giocarsi le carte migliori, che poi sono anche le più inflazionate fra tutte. Prende per la gola il chitarrista ritmico, lo tenta. Utilizziamo molto spesso un palazzo gigantesco che rappresenta la discesa agli inferi o qualcosa del genere. Immagini una facciata raffigurante un’entità potente e oscura, un ingresso da cui non si uscirà mai più, e dinanzi, questo scenario di assoluta desolazione. Si perde a vista d’occhio, ma niente sgrandangolata altrimenti ci metto troppo con i dettagli piccoli. Spopolerete su Bandcamp, questo è poco ma sicuro.

Le immagini sono molto belle, e in particolar modo lo è quella di destra, incomprensibile già a dieci centimetri di distanza ma ben curata nei dettagli. C’è un attimo d’indecisione e imbarazzo, e le paffute guance del ritmico sembrano colorarsi di un improvviso rossore. Sta per scoccare il momento del magico sì, “è quello giusto”, suppone il grafico.

MA NOI SUONIAMO DEATH METAL TECNICO.

Viene proposta un’alternativa che dovrebbe accontentare un po’ tutti. Quella a tema cosmico. Che poi incarna elementi vicini al marinaro e a quello dei buchi neri, ma, a rigor di logica, è per certi versi (meno acqua, più cielo) inedito. Chi come lui ha ascoltato i Nocturnus o gli Atheist di Unquestionable Presence non avrà dubbi, opterà per il tema cosmico. Lo farà e basta. Generalmente si tratta del tema più debole di tutti gli altri: un crocevia di piramidi, dritte oppure ribaltate alla cazzo di cane, di stelline come ne vedreste sulla peggior carta da parati con cui avete occultato della muffa in una camera da letto degli anni Settanta, e pianeti obbligatoriamente muniti di minimo cinque o sei satelliti. Le leggi dell’astronomia ficcate tutte dentro a un culo, ma anche la minima spesa per una massima resa. Come dire di no a una simile robaccia?

È CHE IL DISCO SI INTITOLA WORLDWIDE EXTERMINATION.

Bene, pensa il grafico. Questo stronzo specialista dei coni sfondati mi ha appena servito l’assist degli assist. Worldwide Extermination. Okay, hai vinto tu, e cioè ho vinto io. Perfetto caro, posso darti del tu? Ti mostro adesso lo stile apocalittico, e cioè, la raffigurazione di uno scenario desolato nel quale l’umanità o è scomparsa, o è del tutto resa schiava dal cazzo che vi è parso a voi artisti. Un po’ più complesso rispetto al precedente, richiederà alcune lavorazioni aggiuntive ma niente che non si possa fare. Che mi dici, ci siamo? O ci siamo quasi?

Finalmente un barlume di speranza: Mi garba la prima, ma mettici il mostrone. Se ci metti il mostrone abbiamo scelto. Lo voglio più definito e imponente che nell’immagine a sinistra, e lo voglio boombastico come nel primo testo di Plaguewielder. Il grafico a quel punto riesce a mantenere una freddezza non umana, non di questo pianeta: si capisce perché disegni quella robaccia anziché guardare la Serie A presentata da Diletta Leotta. Per il suo cliente ha in serbo qualsiasi cosa, forse per il timore di riguadagnare, un giorno, la reputazione da fake artist che liquiderai con tre banconote da venti domandandone indietro dieci di resto. Nell’abbondanza dei cliché delle copertine death metal contemporanee, al grafico non manca di certo il mostrone. Egli ha tutto per le sue esigenze, e tira fuori il mostrone. Al costo di fargli vedere quello che avrebbero scelto i Morbid Angel.

La comparsa del mostrone rischia di mettere a repentaglio la diplomazia che aveva perservato l’incontro di lavoro, appesa ad un filo sin da principio. Concettualmente ispirato allo storico The Ten Commandments dei Malevolent Creation, qualunque mostrone del Duemila sposta l’abissale ascesa dalle scopiazzature di Cthulhu a una location terrena, pianeggiante o collinare che essa sia, e che tuttavia non coinciderà con le vicissitudini narrate in Tremors. Piace, viene utilizzato con frequenza e i Morbid Angel ne hanno fatto un vero e proprio manifesto sulla copertina più sbagliata di tutto l’ultimo decennio. Il mostrone, naturalmente, non convince del tutto il compositore di Worldwide Extermination, che non sarà mai World Downfall, ma lui pare tenerci un botto lo stesso e pretende che le cose siano fatte perbene. Altrimenti dovrà pagare tutto lui, oppure, sostituire il terzo batterista di fila per rissa furibonda. Il grafico lo ha ben capito, e senza dargli mezza chance d’aprir bocca gioca d’anticipo: Senti, ora finisco con te e porto la tu’mamma a sverminare dal veterinario. Io non sono Travis Smith, e te non sei gli abituali clienti di Travis Smith; e Travis Smith sarà anche parecchio bravo, ma è vent’anni che usa i soliti effetti spugna e clone per fare quelle cazzo di dissolvenze e poi se ne esce con le stesse minchiate che ti ho fatto vedere finora. Deciditi.

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Travis Smith: stile cosmico, buco nero e apocalittico in un tutt’uno per la collezione autunno/inverno 2020

Io farei una via di mezzo fra il mostrone e l’apocalittico.

Worldwide Extermination dei Cryogenic Defilement: l’attuale batterista si fa chiamare Mou Anal

 

Cristina D’Avena è per poser. La saga dei CAVALIERI DEL RE

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Sono nato nel 1990, mi dichiaro prigioniero politico!”. Scherzi a parte, è vero, sono del ’90 ma molto spesso mi sono sentito di un’altra epoca, un’epoca non molto antecedente alla mia, quella diciamo dei bambini nati a cavallo tra la fine dei ’70 e l’inizio degli 80’; i… Primi Millennials? Quasi Millennials? Proto-Millennials? Oppure i ritardatari della Generazione X? Vabbè, comunque, quella roba là.

Questa disforia di generazione mi prende molto più spesso di quanto capiti a un normale ragazzo della mia età, e, siccome ve lo state chiedendo tutti (in questo momento vi immagino con gli occhi sgranati, incollati allo schermo del PC e con un tremito incessante lungo la spina dorsale che manco un fan degli Iron Maiden quando sta per uscire il nuovo Best Of con due bonus tracks inedite e Run to the Hills live at Molo di Cesenatico), vi dirò anche il perché: perché mi ammazzo di cartoni e di sigle vintage.

Nostalgia di epoche mai vissute? No, è che erano migliori, PUNTO. I cartoni e le relative sigle.

E poi capitemi: quando ero piccolino io si stava affacciando prepotentemente sulla scena un certo Giorgio Vanni: la versione maschia, borgatara e un tanto al chilo di Cristina D’Avena (artista più che dignitosa, ottima mestierante, ci tengo a precisarlo perché so che stavate già lì con le pietre in mano per averla canzonata nel titolo ad effetto del pezzo… Dovete avere pazienza, ragazzi, ecchecazz!). Dicevo, è normale quindi che tra i tunz tunz, una marea di inglesismi improbabili e quell’onnipresente atmosfera da discoteca est-europea, io abbia cercato la poesia altrove, mi sembra chiaro, si chiama sopravvivenza.

Ecco, io non so se I Cavalieri del Re siano quella poesia che andavo e vado tutt’ora cercando, ma sicuramente smuovono dentro di me qualcosa che ha molto a che fare coi concetti di intimità, fierezza e, perché no, fomento.

Trattati come oggetti d’antiquariato da alcuni, sconosciuti ai più, questi cinque paladini del Bene, nemici giurati del Male (i ritornelli brutti), hanno partorito l’85% delle sigle dei cartoni animati giapponesi ’70 e ’80, quelli che hanno tirato su i quarantenni di oggi; una generazione non fortunatissima, ben poco invidiabile per molti motivi, ma non per questo.

Una famiglia di cavalieri: Riccardo Zara, sua moglie (l’italo-brasiliana Clara Serina), sua cognata (Guiomar SERENA Serina, un po’ più di fantasia non avrebbe guastato) e il piccolo figlio di Riccardo e Clara, Jonathan Samuel. Praticamente una tavolata di Natale che, in un brevissimo lasso di tempo (’81-’86, poi il prematuro scioglimento, dovuto – parrebbe – a divergenze interne alla coppia regale), invece di giocare a tombola e ruttare il torrone, ha preferito impegnarsi in qualcos’altro, qualcosa di decisamente più nobile e importante.

Dopo una reunion negli anni 2000, posticcia e fuori tempo massimo (scrissero qualche sigla per nuovi anime, tra cui i Digimon, ma non furono mai utilizzate), di loro oggi ci rimane solo qualche apparizione dal vivo nei vari raduni di nerd patentati dello stivale, quasi mai tutti insieme (Clara solista mi risulta essere la più attiva in questo senso, ma non vi aspettate tour da 800 date, mica è Zucchero), e una ristampa autocelebrativa ogni tanto, perché la nostalgia è un sentimento sano, e noi di Metal Skunk lo sappiamo bene.

Per quel che riguarda la proposta musicale, sembra davvero di ascoltare dei cavalieri, di nome e di fatto: avevano un’eleganza formale negli arrangiamenti, un gusto squisito nelle liriche, ma sapevano anche correre, galoppare, colpire, emozionare.

Non parlerò del singolo Lady Oscar (circa un milione di copie vendute nel 1982) e neanche dell’Uomo Tigre (che credo stia tuttora uscendo in edicola, in una serie di splendidi Dvd), sarebbe inutile, sarebbe come discutere di Padre Pio con la nonna pugliese o di Totti con un romanista, ma delle altre canz…. Ehm, scusate, GEMME, specie quelle meno note, assolutamente sì, devo farlo (non tutte eh, sennò famo notte). E sì, perché no, ricorrendo anche all’odioso sistema del track by track, se necessario.

SASUKE: “Sei furbo, sei forte, sconfiggi la morte!”. Uno dei primi ricordi che ho di me stesso sono io che distruggo la bouganville della casa al mare cantando come un pazzo questa sigla; e mia madre che ride e mi guarda pensando a che figlio degenere stava tirando su. Eleganza e fomento.

IL FICHISSIMO DEL BASEBALL: Questo giuro di non averlo mai visto (com’è? me lo consigliate?) ma quel fichissimo usato come un sostantivo mi manda ai pazzi. Ai posteri, anche solo per questo.

CALENDAR MEN: Capolavoro. Niente da dire. Questo brano non sfigurerebbe in un ottimo album power metal; accattivante, incalzante, da urlare alzando birre e corna al cielo, ondeggiando la criniera di tanto in tanto. Se la conoscete, ripassatela. Se non la conoscete, ascoltatela, ma occhio agli effetti indesiderati: non ve ne libererete più.

RANSIE LA STREGA: Altro capolavoro. Ne parlavo con un mio amico più grande proprio l’altro giorno (lui ‘ste cose sì che l’ha vissute in tempo reale, ‘sto sculato!). La sigla conclusiva, con la protagonista che, seminuda/avvolta in un bel mantello, appare e scompare su sfondo nero, e la calda voce di Clara Serina a suggellare il tutto, è una delle cose più poetiche, belle e se vogliamo erotiche mai apparse su tubo catodico. Un senso di intimità incredibile. Un attimo di Paradiso. Un piccolo miracolo audio-visivo.

LA BALLATA DI FIORELLINO: Qui siamo veramente a livelli di nerdismo acuto. Devo curarmi. Ma mentre vado a prendere la medicina, fatevi un favore e ascoltatela. Orecchiabile, potente, corale. Provate ad ascoltarla immaginandovi i Nightwish intenti ad allenarsi per il prossimo mega-torneo di ippica. Ah, e date anche un occhiata all’anime: non è affatto male.

YATTAMAN: Del cartone ho un ricordo sbiaditissimo, ma la sigla è immortale. Non come Calendar Men (che è la Beyond the Black Hole delle sigle italiane), ma quasi.

GIGI LA TROTTOLA: L’anime che ha svezzato una generazione di pervertiti irrecuperabili non poteva che avere una sigla destinata a rimanere nella storia come un classico istantaneo. Così è stato, così rimarrà nei secoli. Amen. Un tormentone che si è protratto nel tempo, tanto che me lo sono beccato pure io: non c’è ex bambino in Italia che non abbia canticchiato, al parco oppure sotto doccette al mare: ” La tua città, ti chiama già, GIGI LA TROTTOLA!” – esagerando i decibel a non finire quando arrivava il nome del protagonista.

Per quanto riguarda noi del Lazio il merito di aver avuto un’infanzia decente, grazie anche a sigle intramontabili come questa, va soprattutto a Super3, l’emittente romana per ragazzi (l’equivalente di TeleNorba per i pugliesi e non so quale altro canale nelle altre regioni, fatemelo sapere però, son curioso). Ma ve la ricordate la capitana Sonia Ceriola e il suo angolo della posta? E il suo inseparabile amico robot Birillo? Figure che all’epoca, per noi bambini, contavano più del Papa e di Mario Draghi. Oggi lei ha una tabaccheria a Latina e lui sarà finito rottamato in qualche discarica alle porte di Roma, ma nessuno potrà mai portarceli via dai nostri ricordi, mai, né la crisi della televisione, né l’infame cambio dei tempi, né quello stronzo X che ha permesso che tutto questo avesse una fine.

Va bene, mi fermo qui.

Sette brani. Sette come I Magnifici Sette.

Ce ne sarebbero almeno un altro paio di cui vorrei parlarvi, ma non voglio privarvi del piacere della scoperta. Sì, quello stesso piacere di quando le cose si scoprivano per caso, accendendo distrattamente la tv. (Gabriele Traversa)

Meno Carnevale, più Cogumelo: la scena estrema brasiliana negli anni ’80

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Ogni anno il Carnevale di Rio infiamma le strade della metropoli brasiliana, notte e giorno, carro dopo carro, dando compimento a un lavoro sotterraneo che obbliga gli addetti ai lavori a dodici mesi di allenamento, preparazione e perfezionamento. Non perché mi trovi fisicamente collocato nell’emisfero opposto a tutta questa roba qua, ma non me ne frega un beneamato cazzo, né di loro, né di quello che gli gira per la testa. Così mi limiterò a tributare il paese verdeoro per cose come la Cogumelo Records e per l’inarrestabile orda di metallari bestemmiatori che i brasiliani seppero schierare sul campo, con risultati mai sufficientemente meritocratici, dai primi anni Ottanta in poi.

Nel rispetto della cronologia dei fatti, avrei il dovere di stabilire un inizio e di portare il discorso sino a una conclusione. Cotechino, Moretti da 66 e l’urgenza di entrare a lavoro fra poco più di un’ora me lo impedirebbero, perciò sarò molto istintivo e disorganizzato. Inoltre ci tengo a puntualizzare come nei confronti di questa robaccia io nutra un amore storicamente viscerale, che renderà il pezzo solo parzialmente attendibile.

Come metro di paragone più adatto vi invito a considerare questo mio speciale come una sorta di articolo redatto da Vincenzo Mollica su un qualunque argomento. A lui piace ogni album musicale, film o libro scritto entro un range che include Nietzsche, Simone Moro e la De Lellis. Io sono così con la scena estrema brasiliana, è più forte di me e spero mi vogliate perdonare.

Max Cavalera trentacinque chili fa

In questo momento le casse stanno sparando Goetia dei MYSTIFIER e dunque comincerò da loro. Per pura praticità ho avviato Goetia da YouTube, il quale ha saggiamente deciso di abbinare l’album a una pubblicità di Greenpeace intitolata “Cinque bugie sulla plastica che le multinazionali ti stanno vendendo”.

Pubblicità a parte Goetia bellissimo, e lo è molto di più se si considera che proseguì il discorso avviato da I.N.R.I. con più efficacia degli stessi Sarcofago, per scriverla più breve che posso. I Mystifier avevano la mente sgombra dai Sepultura, mentre Wagner Lamounier, quando arrivò a comporre la roba di The Laws of Scourge, assolutamente no. Goetia è il classico album maturo e ben realizzato da un punto di vista compositivo e tecnico, senza che ciò vada a intaccare il marcio fino al midollo che contraddistingueva ogni singola nota del precedente Wicca, che a sua volta era un tripudio di bassi e rumore con dalla sua dei buoni pezzi e l’attitudine giusta per lasciare il segno. Personalmente gli preferisco Goetia, autentico baluardo del catalogo dei primissimi anni di Osmose: quelli dei Marduk di Those of the Unlight e degli Enslaved che non si erano ancora messi a fare i sofisticati da birreria artigianale dove si discorre in politichese.

Ho sempre sostenuto che i Cradle of Filth avessero scippato la grottesca copertina di Sexual Carnage dei SEXTRASH, per riprodurre quella sorta di ultima cena erotica che presentarono dentro al libretto di Dusk and Her Embrace. Che ciò sia vero o falso nessuno lo saprà mai, fuorché i diretti interessati. Il contesto era il seguente: Cogumelo Records, uno di quei gruppi anni Ottanta che purtroppo scoprirono le tastiere, e che – esattamente come nel caso dei nostri Bulldozer – finirono per utilizzarle malissimo. Il buon senso, tuttavia, suggerì loro di utilizzarle soltanto in circostanze come intro/outro dei pezzi, salvandoli da una ecatombe annunciata.

Sempre per rimanere in orbita ai Sarcofago, i Sextrash girarono più attorno a Rotting che alle loro primissime cose. Personalmente li ho sempre adorati, pur ammettendo a me stesso che non fossero niente di così esuberante o fondamentale, ma il cantante che si metteva letteralmente ad abbaiare sul finire di Psychoneurosis, d’altronde, non era qualcosa a cui fosse concesso in alcun modo resistere.

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Dorsal Atlantica

Tocca poi ai DORSAL ATLANTICA, che, almeno concettualmente, si presentavano come i più nordamericani fra tutti. Esattamente come fu obiettivo dei Sepultura di Beneath the Remains, i Dorsal Atlantica spostarono il tiro sulle medesime tematiche affrontate dai Terrorizer o da metà scena thrash metal californiana: capitalismo, povertà, telegiornale. Il gruppo mise in vetrina questo basso onnipresente, particolarmente dinamico e creativo nelle sue partiture: tempistiche e geografia, d’altro canto, misero i Dorsal Atlantica nelle condizioni di non disporre dei mezzi tecnici richiesti per poter produrre e conseguentemente risaltare lo strumento in maniera adeguata, finendo col coprire tutto quanto il resto per costringerci a sentire che cosa diavolo uscisse fuori dalle quattro corde. Un bel casino, che in là con gli anni decisero di sistemare almeno in parte.

Searching for the Light credo sia il loro album che ho ascoltato con maggiore frequenza, e che ben si differenzia dai loro esordi (Antes Do Fim del 1986) in cui proponevano una via di mezzo tra il proto-black di quei tempi e un approccio marcatamente thrash/hardcore. Si differenzia, per sua fortuna o per merito di un perfetto e saggio bilanciamento compositivo, anche dalla loro meno fortunata produzione degli anni Novanta, che fu eccessivamente incentrata sulle ritmiche di roccia tipiche dei tempi in corso. In particolar modo Straight soffrì un titolo della levatura di Chaos A.D. e non seppe in alcun modo sfruttarne, e tantomeno ripeterne, il successo commerciale.

Tornando alla mia amata Cogumelo, ecco i CHAKAL. Non sono fondamentali neppure loro, ma li cito poiché servono a comprendere quanto certi classici soffrissero l’esistenza di titoli maggiori, come appunto Morbid Visions, e come l’evoluzione futura di alcune band di seconda fascia sia stata un po’ sottovalutata.

Il classico per antonomasia dei Chakal è Abominable Anno Domini del 1987. Onestamente, se lo risento mi viene automaticamente voglia di passare a una Satanic Lust o ad una Nightmare, per quanto esso non suoni affatto male. Piuttosto i Chakal risulteranno interessanti nel periodo successivo ed in particolar modo su The Man is His Own Jackal, uscito tre anni più tardi: voce più pulita ed a tratti omaggiante i Venom, e un ritmo che non lasciava alcuna tregua, sorretta da una preparazione tecnica messa a puntino e da titoli irresistibili come Santa Claus has got Skin Cancer. Roba da ripetere allo specchio una cinquantina di volte. Svariate concessioni allo speed metal più tradizionalista furono, infine, l’elemento a sorpresa, quel qualcosa che non ti aspetti possa fuoriuscire da un prodotto del genere: era dappertutto, nelle ritmiche come negli assoli quell’album omaggiava il decennio appena concluso e lo faceva benissimo.

Sempre Cogumelo Records, sempre Belo Horizonte: gli HOLOCAUSTO uscirono fuori nel solito 1987, anno di totale gloria per certe sonorità, con un disco intitolato Campo de Exterminio che cacava in testa all’85% delle puttanate che oggi vengono prelevate da Bandcamp ed elevate a nuovo culto del war metal o affini.

Ciò accade per il semplice fatto che sui social gira così, non si ha la pazienza di metabolizzare un prodotto e comprendere se esso sia servito a uno scopo, se abbiamo memorizzato tre sue note in successione, e se questo abbia ricevuto una certa risonanza fra chi condivide i medesimi gusti. Suona come i Blasphemy o una vecchia demo dei Beherit? Mi accontento e lo prendo per fico anche se magari non c’è traccia di palle acuminate. I brasiliani avevano le palle acuminate, e questa roba qua – per quanto io mi consideri di parte nell’interpretarla – ha letteralmente codificato e influenzato tutta quella a venire: è uscita nel periodo giusto, negli studi registrazione talmente sbagliati da essere giusti, ed in un contesto semplicemente perfetto. Era il Brasile del B.O.P.E. e di realtà così opposte da fomentare desideri e sentimenti talmente contrastanti, che solo un genere musicale di nicchia come questo avrebbe potuto rendergli la sufficiente giustizia. Qui nessuno si autoproduceva la demo in camera con il mouse e la tastiera appena arrivati da Amazon.

Un po’ per paradosso, il Brasile era e tuttora è un paese cristianissimo, e pure quell’aspetto deve avere influito: mandate il Papa in tour per le piazze venete e nascerà una scena pure lì. Anziché liberare il vostro lagotto romagnolo su Bandcamp come se fosse un terreno da tartufi, sentitevi piuttosto Forças Terroristas, e godete anche quando i brasiliani decideranno di rallentare un po’, come in Scoria, ovvero l’equivalente del calo di tensione che per gli Schizo poteva essere rappresentato da una mazzata sul collo come Make Her Bleed Slowly.

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Vulcano

È ora doveroso concludere con i Vulcano, e lo è per semplice rispetto. Furono i primi a trattare certe tematiche in patria in una maniera così diretta e oltranzista, erano attivi da anni quando debuttarono ed il loro primo album – Bloody Vengeance – non fu mai pareggiato dai suoi successori sulla breve distanza. Non ci arrivarono neanche vicino.

Probabilmente il miglior titolo tra quelli che ho elencato oggi, Bloody Vengeance merita un posto d’onore nella collezione di ogni appassionato al metal estremo, e, assieme a Campo de Exterminio e ai primi due titoli dei Mystifier, compone una validissima alternativa alle celebri uscite firmate in gioventù da Sarcofago e Sepultura. Sarò di parte, ma questa roba era un vero tritacarne. (Marco Belardi)

Andate a tossire a casa vostra: speciale black metal cinese (parte I)

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Come ben sapete, la fobia del famigerato Coronavirus qui in Italia sta prendendo discretamente piede. Basta aprire una pagina internet a caso per venire ogni giorno a conoscenza di episodi di discriminazione nei confronti dei nostri amici musi gialli: boicottaggio totale di ristoranti e negozi di articoli cinesi, gente che cambia strada appena li vede, momenti di panico sugli autobus e metro se uno con gli occhi a mandorla starnutisce, casi umani che hanno smesso di bere la birra Corona e via dicendo. E poi c’è LUI, l’uomo che qui all’interno della cricca Metal Skunk è diventato una sorta di leggenda vivente con un video che trasuda da tutti i fotogrammi voglia di integrazione e amore per il popolo cinese ed è diventato una vera e propria droga. Poiché riteniamo che non sia stato degnamente pubblicizzato e sia carente di visualizzazioni, vi proponiamo integralmente questi 8 secondi di splendore assoluto: cliccate qui.

Partiamo da un gruppo in realtà più datato rispetto agli altri, i MIDWINTER, che attualmente risultano ancora in giro ma all’attivo hanno solo un full length uscito nel 2006 intitolato Enthrone in Blizzard (originalissimo). Il nome del disco e la copertina raffigurante paesaggi innevati lasciano facilmente presagire quello che sarà il contenuto del disco, un black metal di classica ispirazione norvegese anni ’90 che alterna le consuete sfuriate in blast beat a momenti più riflessivi, con influenze pagan metal piuttosto evidenti (la cover di Pestkrieg dei Nachtfalke ne è un’ulteriore riprova). Nel computo totale non siamo di fronte a nulla di trascendentale, ma il disco tutto sommato si lascia ascoltare piacevolmente in tutta la sua interezza.

Tutt’altro discorso da fare invece per i BLACK REAPER, il cui debutto Celestial Descension è andato a finire nella mia playlist del 2018. Ho affettuosamente rinominato questi blackster cinesi Dissechong, e il motivo è presto detto: sono identici ai Dissection. Attenzione, non sto parlando di similitudini, derivazioni o cose simili, sono proprio la copia spiccicata dei Dissection dei tempi d’oro, tanto che a qualcuno è venuto il dubbio che in realtà il buon Jon Nödtveidt viva e lotti insieme a noi e si sia trasferito in Cina. Raramente mi è capitato nel corso degli anni di sentire il suono di una band letteralmente trapiantato in quella di un’altra, per non parlare della produzione ed un cantato che fa impressione da quanto è simile. È questo un difetto? Difficile rispondere, da parte mia ho sempre messo le composizioni sopra tutto, e i pezzi di questo disco, pur se derivativi, sono uno meglio dell’altro, quindi fondamentalmente ‘sti gran cazzi. A favore dei Black Reaper devo dire inoltre che in alcune composizioni si nota un certo Naglfar flavour (Diabolical soprattutto) che ad esempio è assente in altri cloni dei Dissection tipo i Thulcandra, e questo è un ulteriore punto a favore di questo lavoro a dir poco spettacolare.

I VENGEFUL SPECTRE invece sono una recentissima scoperta: mi sono stati nominati per la prima volta dal fu Fabrizio “Doom” Socci, ma poi ho scoperto che anche qui a Metal Skunk hanno alcuni estimatori. Il disco eponimo è uscito appena un mese fa per l’attivissima Pest records, e a differenza dei due precedenti lavori di cui abbiamo parlato ha un lato folk decisamente più accentuato. Il sound è veramente nitido e curatissimo (forse pure troppo per i miei gusti), e devo dire che fa risaltare appieno le sei composizioni presenti, con l’aggiunta di alcuni tipici strumenti del folk asiatico a completare il tutto. Unica pecca la voce del cantante eccessivamente stridula (ricorda un po’ in peggio Jan “Hat” Solstad nei primi due dischi dei Gorgoroth), ma a parte questo niente da dire, veramente un bel dischetto.

A completare il tutto mi sono riservato per ultimo la band che tra quelle elencate è sicuramente la più nota, gli ZURIAAKE, autori di due full (Afterimage of Autumn del 2007 e Gu Yan del 2015) più un EP recentissimo con il quale sembra abbiano suscitato l’interesse della Nuclear Blast. Personalmente ho avuto l’occasione di vedere questa band dal vivo lo scorso anno al Brutal Assault, rimanendo quanto meno sorpreso dalla quantità di gente pronta ad aspettarli. Se scenicamente non passano inosservati, tutti agghindati con tipici costumi d’epoca con tanto di dou lì, il tradizionale cappello di paglia a cono, devo dire che sul piano musicale faccio un po’ fatica a farmeli piacere.

Semplificando parliamo di una sorta di black atmosferico (più nel primo full che nel secondo) imbastardito da influenze post black metal e blackgaze, genere di cui non sono esattamente il più grande estimatore. Se cercate in questi due lavori le tipiche sfuriate black siete decisamente fuori strada, I brani sono tutti mediamente lunghissimi e tutti dall’andamento piuttosto lento, lasciandoti quella sensazione di esplodere da un momento all’altro, cosa però che nella fattispecie non avviene quasi mai. Magari è solo un mio limite legato al tipo di proposta, se devo consigliare comunque uno dei due lavori andrei comunque sul primo.

Come dicevo la scena black cinese è molto variegata e ci sono molte band che non ho nominato, cosa che magari farà qualche mio esimio collega spaziando anche su altri generi. Buon Coronavirus a tutti. (Michele Romani)

 

Ci infettate anche il tutto: speciale black metal cinese (parte II)

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Il plumbeo Michele Romani ha concluso la prima puntata di questo speciale dedicato alla scena black metal cinese ai tempi del coronavirus lasciando a un altro esimio collega, che poi sarei io, l’onere di approfondire le numerose sfumature di un panorama assai variegato. Per il nostro crudele guardiano dei winterdemons sarebbe stato del resto letale approcciarsi alle derive post che interessano ormai anche gli adepti dell’ex Celeste Impero.

Le note di un disco come Winter Requiem, esordio dei REVERIE NOIRE, sarebbero in effetti in grado di portare il microclima della sua bara di ghiaccio nel Telemark ben al di sotto dello zero assoluto necessario al suo benessere. Se non si hanno gusti troppo grim, il debutto di questa one man band di Pechino ha i suoi pregi. Tra tappeti di synth, voci femminili, reminescenze “cascadiche” e sporadiche sfuriate, queste cinque lunghe tracce offrono una varietà di registri che tiene sempre desta l’attenzione e rifuggono dalle dolciastre svenevolezze che rendono spesso insostenibili tante band analoghe del corrotto Occidente. E, trattandosi di un’autoproduzione, i suoni sono più che adeguati. Da tenere d’occhio.

La mancanza di una scena strutturata come in Europa o Usa, probabilmente accompagnata alla riluttanza a uscire di casa per via dell’inquinamento atmosferico, rende molto frequente il formato do it yourself solipsistico. Un altro esempio sono gli STAR DEVOURER, progetto di tale Leo, un messicano trapiantato a Chongqing (quello degli expat con molto tempo libero che mettono su progetti casalinghi è un fenomeno abbastanza diffuso che meriterebbe una trattazione a parte), dedito a una sorta di ambient-black a tema astronomico. I tempi dilatati e i suoni lo-fi del debutto Contact fanno venire in mente una versione un po’ all’acqua di rose dei vecchi Ildjarn. Nel complesso ci si annoia un po’, e deve annoiarsi parecchio pure Leo, dato che ha da poco dato alle stampe uno split con… Se stesso (ovvero con gli altri due suoi progetti: Winter Dynasty e Starving for Death) contenente versioni strumentali dei brani già presenti sul disco.

Quella di proporre due versioni dello stesso disco, una con la voce e l’altra solo strumentale, sembra essere una tendenza piuttosto estesa in Cina. Magari è un modo per aggirare la censura, non so. Un altro esempio sono i DOPAMINE, trio anch’esso fuori da poco con il primo lp, Dying Away In The Deep Fall. Qua siamo in pieno territorio blackgaze e l’ombra di Neige incombe per tutta la durata del disco, saggiamente tenuta sotto i quaranta minuti con un dono della sintesi ammirevole in un filone spesso funestato da prolissità sbrodolone. Vale un po’ lo stesso discorso dei Reverie Noire: non colpisce solo la fedeltà con cui sono replicati canoni fissati dall’altra parte del globo (i cinesi, si sa, in queste cose non li batte nessuno) ma anche come i Dopamine siano molto meglio della media dei cloni occidentali degli Alcest, abili come sono nell’aggirare le trappole del genere, dalla dispersività all’iperglicemia (al netto del consueto campionario di arpeggini e tastiere soffuse, quando c’è da pestare si pesta). Procurateveli.

Un altro disco niente male è Fight Back for the Fatherland degli HOLYARROW, progetto solista dell’ex batterista dei Black Reaper che ci propone un concept dedicato all’epoca della dominazione mongola e alla sua caduta che, a metà del XIV secolo, lasciò spazio alla gloriosa dinastia Ming. Spiace che l’afflato patriottico dei testi (tutti cantati in lingua Hokkien) non trovi adeguato riscontro musicale: gli elementi folk autoctoni hanno poco spazio e i brani tendono a ripercorrere, pur filtrati da una prospettiva aliena e personale (graziose le tinte classic metal di The Ispah Rebellion), gli stilemi del viking che fu: mid-tempo bellicosi e solenni cori pagani. Nondimeno, stiamo sempre parlando di musicisti giovanissimi con uno o due album all’attivo e un’altra scena non occidentale con standard qualitativi simili, sui due piedi, non mi viene in mente.

Volete qualcosa di più cruento? Continuiamo a esaminare il catalogo della Pest Productions, l’etichetta per la quale esce buona parte della produzione nazionale, e sentiamoci gli IBEX MOON che, a dispetto del nome, non si rifanno agli Incantation ma suonano un black sparato e thrashettone, manco troppo ignorante, con passaggi slayeriani che si alternano a frangenti dove viene maggiormente fuori l’influenza della vecchia scuola norvegese. Nulla di sconvolgente ma Past/Evil rimane un lavoro solido ed efficace, che conferma, ribadisco, un livello medio inaspettatamente alto per un circuito finora periferico ma in grado negli ultimi anni, di regalare inattese sorprese. Del resto i presupposti culturali ci sono tutti: una storia millenaria e un prepotente nazionalismo.

Sul metal estremo con influenze folk ci si potrebbe dilungare parecchio (un capitolo a parte meriterebbe, per esempio, tutto il filone dei gruppi di etnia mongola che riprendono il cantato gutturale e gli strumenti a corda resi celebri dai The Hu, dai veterani Tengger Cavalry, che alternano pezzi violentissimi a singoloni pop con belle ragazze in copertina, ai giovani Ego Fall, di estrazione deathcore). Mi limiterò a parlarvi della band che ritengo più rappresentativa nonché, per quel che vale, la mia preferita. Ecco a voi i BLACK KIRIN, sulla breccia dal 2012 e tra i primi complessi cinesi a ottenere una buona risonanza all’estero. Piuttosto prolifici, in sei anni hanno pubblicato ben quattro ep e tre full, l’ultimo dei quali, Nanking Massacre, dedicato a quello che fu uno dei più agghiaccianti crimini di guerra della storia contemporanea, andrebbe decisamente recuperato, così come il mini (neanche troppo mini: mezz’ora abbondante) uscito lo scorso anno, il cui titolo non vi so dire perché è solo in ideogrammi ma la cui copertina potete vedere qua sopra (su Spotify, ad ogni modo, trovate tutto).

Nel caso di questo act di Changchun la tradizione musicale cinese non è un orpello o un contorno ma costituisce l’ossatura delle linee melodiche, donando pathos e suggestione a brani dove la componente metal, più che sul black, è incardinata su un death/doom cavernoso e dolente al quale si perdona qualche richiamo di troppo ai Behemoth nelle parti più veloci. Le due anime non si alternano ma convivono: archi, flauti e soavi voci femminili non sono solo protagonisti di interludi ma si intrecciano ai growl e alle chitarre distorte con stupefacente fluidità, complice un tappeto ritmico che concilia con naturalezza delicate percussioni e assalti in doppia cassa. Gran gruppo. Ora però vi devo lasciare che ho lasciato la zuppa di pipistrello sul fuoco. (Ciccio Russo)

David Vincent aveva capito tutto e per questo tentò di invocare FALCOR

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Tra le mille maniere in cui può nascere una canzone, c’è ad esempio la moda nata negli anni Novanta di andare a ricercare ad ogni costo il ritmo vincente. Questo a prescindere da chi componesse all’interno di una band: sono convinto che dopo il Black Album in molti avessero cominciato a comporre partendo da un groove di batteria, da un giro di basso che avesse un discreto tiro o da cose del genere. E non credo che ai tempi di Seven Churches o Scream Bloody Gore, ovvero, poco meno di un decennio prima, questo già accadesse. Almeno, non con la solita frequenza. Il verificarsi di un fatto del genere toglie via dal tavolo quel luogo comune che classificò molta musica degli anni Novanta, e in particolar modo il thrash metal ritmato – e molto spesso associato al Black Album oppure ai Pantera – come costruita a tavolino. Se rinforzi la canzone a partire da un determinato giro di batteria e costringi gli altri a venirti dietro, magari alla fine sposterai tutto dalle parti del funky per il solo fatto che da una ritmica simile non potranno che nascere cose simili. La mia spiegazione a molti fatti di quegli anni, oltre ai noti intrallazzi di Elektra, Atlantic o più probabilmente MTV, la interpreto anche così: nella maniera differente, e non sempre efficace, in cui poteva nascere e prender forma una canzone.

Ho nominato Seven Churches e Scream Bloody Gore perché è da questa introduzione che intendo arrivare all’articolo vero e proprio, che pubblicherò sotto autorizzazione di Roberto Bargone e Ciccio Russo attraverso un compendio in otto volumi disponibile anche in formato audiolibro, incomprensibile data la dialettica, ma con molte più bestemmie rispetto alla versione scritta. Il problema a cui voglio riferirmi è quello del death metal dalla metà dei Novanta in poi, circostanza già affrontata per vie trasversali in Avere vent’anni, ma mai così direttamente.

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Da anni Steve Tucker si dedica all’allevamento di cani da pet therapy, con risultati alterni

Tutto quanto si stava muovendo verso ritmiche sempre più estreme, mentre le linee vocali aprivano ampi spiragli in favore delle chitarre. Partirò proprio da quest’ultimo caso. Prendete il David Vincent più carismatico e calato nel personaggio, e cioè quello di Domination, dopodiché prendete Steve Tucker. Formulas Fatal to the Flesh è un bellissimo album death metal con l’attenzione tutta spostata sulle chitarre: il carisma, il personaggio personale lo recitano loro, e parallelamente, il carico melodico dipende sempre e comunque dalle chitarre. Trey Azagthoth aveva davanti a sé l’eventualità di circondarsi con un’ulteriore figura di spicco, il che avrebbe potuto soffocarlo, rompergli il cazzo h24, metterlo ripetute volte in imbarazzo e un’infinità di altre cose che si rispecchiavano nei Genitorturers (tra cui spilli, palline cinesi, tute in latex con pompe per il sottovuoto e un unico foro d’accesso). E assunse Steve Tucker, che sarà pure un discreto cantante, e le sue performance su Secured Limitations e Invocation to the Continual One non le dimenticherò mai, ma rimane e rimarrà un gregario su cui puntare quando non puoi permetterti rotture di cazzo di alcun tipo. Il cantante di un qualsiasi gruppo non death metal, bensì metal in senso generico, o volendo esagerare rock, è il cantante: gli è sempre rivolta una certa attenzione e non ci si può far nulla. La figura del cantante perse colpi su colpi a causa di quell’andazzo generale, manifestato a caratteri cubitali dai Morbid Angel, e con essa perse un po’ di colpi il death metal stesso, inteso come fenomeno generale.

Prendete l’album più sbagliato degli anni Duemila e lì dentro ne avrete la riprova. Illud Divinum Insanus ha quei quattro o cinque pezzi ricalcati dallo stile di Covenant e con sopra incollata una batteria di merda, suonata da un tizio che assomiglia a un androide di uno spin off di Alien e probabilmente postprodotta dalle stesse macchine. Fa schifo, rovina tutto il rovinabile. Eppure ha quei quattro o cinque pezzi, nonostante le esclamazioni ingiustificabili di David Vincent quando gli sale il personaggio (o quello che ha inalato poco prima di mettersi le cuffie e guardare il microfono), che io ricordo praticamente a memoria. Non ne fanno un album migliore, in quanto Illud Divinum Insanus fa schifo lo stesso e fa schifo a tal punto che quasi lo adoro e vorrei riascoltarlo in questo preciso momento, ma in quei quattro o cinque pezzi riconosco i Morbid Angel in quanto tali. Quelli della prima era Tucker sono due bellissimi album death metal incentrati su Azagthoth, sulle atmosfere, ma senza il piglio e il tiro tipici del death metal delle prime due, tre, o quante ondate voi preferiate. Il piglio da pioniere e da trainatore del Chuck Schuldiner che tuonava su Altering the Future o di John Tardy su un qualunque suo sigillo. Kingdoms Disdained è un buon death metal che farebbe quasi a meno della figura del cantante, dato che lo potreste sostituire con un personaggio a vostro piacimento, ma guai a toccarne le atmosfere: e con esso abbiamo ben allineati gli ultimi dieci anni di pubblicazioni di un intero genere musicale, a suon di cloni degli Incantation e di gente che ha da poco scoperto i racconti di Lovecraft da Feltrinelli.

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Donald Tardy

Punto numero due, i batteristi – specie seriamente messa a rischio da questo avvio di 2020 caratterizzato da forme virulente aggressive, e, appunto, gente come Neil Peart che ci molla – combinarono un casino ancor più grosso dei cantanti, tutti intenti, com’erano, a sviluppare il gurgling e altri stili canori contraddistinti da terminologie che rasentano un quadro clinico mal descritto su un referto. Faccio una premessa: c’è un abisso tra come mi approcciavo ad un blast beat ai tempi dei primi Krisiun o Nile, e come lo accetto adesso all’interno di una composizione. Il blast beat l’ho sempre inteso come un climax, un passaggio forte che diversifica le ritmiche di quel momento all’interno della canzone. Il death metal oltre il 1995 non è andato in quella direzione, riempì tutto con i blast beat. E allora voglio elogiare, per concludere questo articolo, tre o quattro nomi che vanno in culo ai vari Tony Laureano e Derek Roddy non per la loro tecnica, non per la loro velocità esecutiva e nemmeno perché avessero caviglie larghe quanto i pilastri portanti di un ponte. Ma perché suonavano in funzione della riuscita della canzone, il che li rendeva, automaticamente, dei musicisti intelligenti.

Passando oltre al mio amico taglialegna Kyle Severn, uno dritto come un mulo, con creatività pari a zero ma che non sostituirei con nessun altro negli Incantation, direi di partire da Donald Tardy. Il fratello di John si apprezza in particolar modo su World Demise, l’album che, come ho accennato in partenza, risentì più di ogni altro della tendenza – tipicamente anni Novanta – di pensare la canzone in funzione del suo ritmo. World Demise è un’autentica bomba, è pura rivisitazione e ammodernamento di tanti concetti espressi in passato dai Celtic Frost, e il fatto che in molti abbiano parlato di “svendita” degli Obituary intesi come pura death metal band, indica, di fatto, il grado di disonestà che c’è in giro. Magari vi siete filati tutta la merda in scia dei Suffocation a un livello pari al 3% del potenziale dei Suffocation stessi, ma avete sputato su World Demise, che aveva nei suoi punti vincenti proprio la batteria di Donald Tardy. Semplice, ma sempre giusta; in bella vista, ma mai sopra le righe.

Ken Owen trasformato in Paolo Bonolis e, a sinistra, l’ex milanista Kevin Constant: un’immagine che mi raggela il sangue nelle vene

Dopodiché tocca a Ken Owen. E voglio tirar fuori un titolo celebre anche nel suo caso: Heartwork. Provate a concentrarvi sulla batteria di quel disco, prestate attenzione agli accenti, agli arrangiamenti, a quanto le canzoni di Heartwork guadagnino proprio per mezzo delle sue ritmiche. Il lavoro di Ken Owen su Heartwork fu pazzesco, non perché egli fosse particolarmente abile sui rulli o in velocità con il doppio pedale, con il gravity blast, con lo swivel o tutte quelle robe lì. Ken Owen ce li aveva soprattutto in testa i requisiti per scrivere gli arrangiamenti giusti, il che favorisce un’altro livello di pensare e costruire il pezzo. Creatività e fantasia di Ken Owen, per dirla alla Football Manager, erano caratteristiche che prescindevano dalla velocità esecutiva e che facilitarono la riuscita di titoli come Arbeit Macht Fleisch, Blind Bleeding the Blind, Buried Dreams e la title-track, ovvero, le mie preferite su tutte, pezzi che ho imparato a memoria anche grazie al lavoro svolto dallo sfortunato batterista britannico.

Infine c’è Marco Foddis. I Pestilence erano un gruppo in cui voce e chitarra si spartivano abilmente il posto in primo piano, questo nonostante l’alternanza dei vari interpreti nel corso delle annate. Premetto di considerare Out of the Body la canzone death metal perfetta, e che Testimony of the Ancients mostrò, in seguito, un netto affinamento delle abilità degli autori come musicisti, e aggiungo che non c’è brano dei Pestilence storici in cui Marco Foddis suoni la batteria provando ad elevarsi al di sopra di chitarra e voce. Opta per uno stile molto classico, e quindi, per uno stile in cui la batteria non è ancora concepita come un punto focale come quella di un Dave Lombardo o un Gene Hoglan, o di un Mike Portnoy, volendo uscire per un attimo dal contesto seminato dall’esplosione del thrash metal. A differenza di World Demise, che è ritmo puro, che è Donald Tardy in primo piano nonostante la spiazzante semplicità delle sue partiture, Marco Foddis ha sempre pensato a servire i pezzi e a fare quello soltanto, ed è più vicino all’operato di un Ken Owen rispetto a quanto accadesse negli Obituary con tutti quei groove e quella campana del piatto ride presa a sassate. Paradossalmente, pensateci, ciò avvenne all’interno di un gruppo relativamente più estremo rispetto agli Obituary di metà Novanta, per quello che il metronomo poteva concedere ai rispettivi batteristi e per gli obiettivi che erano stati prefissati dalle rispettive parti.

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Pestilence

Oggi il death metal ha bisogno di gente così, ma purtroppo, YouTube, tutorial e maestri dislocati più o meno in ogni condominio hanno fatto sì che molte prestazioni si uniformassero, finendo per ricevere la botta finale dalle orride post-produzioni volte al risparmio e alla cancellazione del minimo errore umano, nonché dell’impronta dei musicisti stessi. I quali, due o tre decenni addietro, in molti casi arrivavano a destinazione affinando la propria tecnica dal niente, e in più di un caso, da questo errore grossolano e autodidattico ne traevano in qualche modo uno stile. Propendo sempre per l’evoluzione, ma in certi casi quest’ultima dovrebbe proseguire da dove gli anni d’oro di un filone musicale intero avevano un po’ sbagliato strada ed interrotto il tutto. Certi gruppi dovrebbero dimenticare il resto del percorso, per focalizzarsi su come far funzionare al meglio quello che tentano di mettere in atto: ripartire e progredire sì, ma almeno dal punto giusto. Smaltita la sbornia Vektor, sento i Blood Incantation far finta di riprendere dal 1990 e suonare comunque più attuali di quanto si pensi, il tutto senza avere inventato nulla di effettivamente nuovo. È un primo e piccolissimo passo, e se di primi passi ne verranno fatti altri, prima o poi qualcosa di inedito emergerà davvero: e ciò avverrà per l’avere nuovamente evoluto e modificato qualcosa dopo averne tagliato via gli errori commessi e accumulati nel corso degli anni. E non di certo per immobilismo. (Marco Belardi)

 


Etichette schierate contro le diseguaglianze: NAPALM RECORDS

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Questo articolo nasce da una conversazione con Gabriele Traversa, nel corso della quale avevo tentato di capire se il suo interessamento per i gruppi metal di carattere sanremese avesse, o meno, origini morbose. Nel domandargli dov’è che scovasse quegli innati talenti, ricevetti per risposta: “Napalm Records, è una specie di IperCoop”.

Verso la fine del 2019 mi ero prefissato di scrivere un po’ di pezzi su alcune etichette discografiche, approfondendone le origini e, in particolar modo, andando a indagare su quel processo che ha portato molte di loro a investire su un determinato settore per più lustri, mirando infine a una sorta di buttadentro generale. Non giriamoci intorno, il concetto di base è la Nuclear Blast.

Napalm Records era tuttavia perfetta per un primo articolo. Nonostante il palese divergere dalle sue origini, essa ha mantenuto – ben più di altre etichette – una caratterizzazione riconoscibile e costante nel tempo. In azienda si ricercano con ostinatezza due cose: che nel tuo gruppo canti una donna e che facciate un’innocente caciara da pub tedesco, e cronologicamente il gentil sesso è arrivato per primo.

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Abigor

La Napalm però è austriaca e non tedesca, come precisava, alla stazione di Graz, Heinrich Harrer nel romanzatissimo Sette Anni in Tibet. Come altre etichette europee nate in quel periodo, Napalm Records ebbe un discreto occhio per il metal estremo, mettendo sotto contratto una serie di gruppi i cui risultati sarebbero stati piuttosto alterni. Si cominciò osservando nel vicinato, individuando così gli Abigor. Non so cosa ne pensiate voi degli Abigor, ma personalmente ritengo sia uno di quei gruppi che ho sempre detto d’apprezzare, senza mai averne riascoltato per la seconda volta una qualunque pubblicazione. Abigor a parte, per Napalm Records firmarono anche i Summoning, e si restò in tema, dato che condividevano con essi la figura di Silenius. E poi si guardò sempre più a nord, perché è in Scandinavia che girava la roba più interessante di tutto il panorama.

Con Nord del 1996 videro la luce i Setherial, con quello che è ad oggi il loro album che preferisco. Spostandoci dalla Svezia alla Norvegia, Einherjer e Morgul completavano un roster dal carattere sempre più deciso. Un altro debutto pazzesco fu quello di Falkenbach di Vratyas Vakyas, dalla Germania, e grossomodo nel 1998 a firma Vintersorg si sarebbe conclusa la prima ed entusiasmante fase: quella del black metal che si risollevava dal ciclone Euronymous/Vikernes, andando a ricercare nuove vie da percorrere attraverso l’epicità, la maestosità delle atmosfere, e, molto spesso, l’aiuto di una marcata vena folk. Tutto molto bello, seppur in apparenza. 

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Vintersorg

“No!”

Pensate un po’, ho conosciuto Napalm Records proprio nel 1998 con Vintersorg. All’epoca ero totalmente all’oscuro del sentiero già percorso dall’etichetta austriaca, e così, a forza di indagare (sinonimo di girare innumerevoli cd sul retro, nell’atto di ricercarne il logo), sarei risalito agli Abigor e tutto quanto il resto, facendomi così un’opinione. Da quel punto Napalm Records non fu più la stessa, poiché in lei irruppe una cosa denominata gothic metal.

A conti fatti attribuisco la colpa di tutto questo nientemeno che ai Dismal Euphony.

Soria Moria Slott era un prodotto Napalm Records in tutto e per tutto: black metal con la particolarità d’esser caratteristico e non entro i ranghi di Nocturno Culto e Fenriz. Di base avevamo sì il black metal, ma, come accaduto a casa nostra con gli Evol, i Dismal Euphony fecero ampio ausilio di voci femminili. In seguito a quel titolo, ogni pubblicazione firmata dai norvegesi registrò una lenta e inesorabile discesa negli abissi del gothic metal, al punto di mettere le linee vocali femminili al centro dell’attenzione e d’intitolare un album Python Zero. Il loro gothic metal si autocertificava tale in quanto rispettoso di pochi ma fondamentali criteri: vi cantava una donna, non era facilmente catalogabile come doom, e nemmeno come black metal, e i recensori dell’epoca erano tutti in evidente imbarazzo poiché negli anni Novanta si dovevano inventare nuove etichette da affibbiare prima possibile a qualcuno. Inoltre il gothic metal di quei tempi nulla aveva in comune con quello dei Katatonia, ossia, la perfetta reinterpretazione del gothic rock in ambiti metallari attraverso un titolo come Discouraged Ones.

Voci femminili, tastiere e scazzo generale da vendere un tanto al chilo: era il gothic metal di Napalm Records e presto sarebbe entrato nelle vostre case.

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Vibeke Stene (Tristania)

La cosa prese a espandersi a macchia d’olio, gli ci vollero uno o due anni. Prima fu il turno dei Tristania, con Widow’s Weeds e Beyond the Veil. Nomino quei due perché, in seguito ad essi, credo che i Tristania non abbiano avuto granché da dire. Nemmeno con World of Glass, che a molti piacque. Nella fattispecie Beyond the Veil fu l’album capace più di ogni altro di rappresentare il gothic metal per ciò che esso era divenuto: ne comprendeva ogni cliché acquisito, prescindeva dalla definizione scaturita dalla metamorfosi dei Katatonia e in un certo senso formava una cosa – almeno all’apparenza – inedita.

Toccò anche ai Lacrimas Profundere, probabilmente il gruppo più gothic metal – nel senso classico del termine – che Napalm Records avesse mai messo sotto contratto. Sentitevi Burning: A Wish, istiga a buttarsi dalla finestra più vicina ma è semplicemente meraviglioso. Poi fu il turno dei Trail of Tears, dei The Sins of Thy Beloved e di un sacco d’altra gente. Tutto in rapida successione.

Di tanto in tanto fece timidamente capolino il metal estremo: con i Belphegor, anch’essi austriaci, e con gli Enthroned. Come due pesci fuor d’acqua. In linea di massima si guardò più a rimescoloni paraculo come gli Hollenthon che al metal estremo vero e proprio.

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Korpiklaani

Ci stiamo avvicinando alla terza e penultima fase, forse la più importante. Il colpevole stavolta è Jonne Jarvela, il finlandese degli Shaman. Quest’ultimo formò i Korpiklaani, e in Austria, un paese statisticamente pieno di birra, ai piani alti sembrarono gradire.

A quel punto ecco che le donne insorsero, riempiendo le piazze d’ogni cittadella della Stiria di manifesti e cori che accusavano Napalm Records d’ogni nefandezza immaginabile. Inveirono con tutte le loro forze, alleate e non più in preda ai tipici bisticci.

“Ridateci la nostra visibilità! Ridateci il nostro posto! Ci avete illuse! Non è vero che i Tristania sono peggiorati così tanto! Stanno in piedi anche senza Morten Veland!”

Le tapparelle degli uffici di Napalm Records sembravano tutte chiuse, ma dall’interno qualcuno sbirciava e meditava sul da farsi. Si stabilì di tirar dritto, basta roba depressa e sinfonica, basta con i Leaves’ Eyes.

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Alestorm

“È il tempo della caciara generale: fuori le pinte!”

Gli austriaci diedero prova delle loro conoscenze tattiche e militaresche, e lo fecero gettando un’esca: misero sotto contratto i moderni baluardi del gothic metal, i Moonspell, che in sostanza si segnalavano in calo dai tempi di The Antidote. In parallelo furono racimolati i gruppi più cazzoni del pianeta: innanzitutto i Grave Digger – “solo il suono d’una cornamusa può coprire i conati delle sbronze da birra!” – servivano con urgenza i cori, e inoltre pure loro erano dei veterani, ancor più dei portoghesi. Ebbero molto culo, i Grave Digger: il primo album su Napalm Records uscì fuori ispirato e deciso, a titolo Ballads of a Hangman. Dopodiché fu dura, anzi durissima, continuare a sopportarli.

Si arrivò così agli Alestorm. Come nel caso dei Korpiklaani, anche gli Alestorm, oggigiorno, mi procurano un relativo ribrezzo, rientrando di diritto in una categoria di metal da bollino verde che onestamente non ho mai compreso né voluto approfondire. E vi includo i Turisas (su Century Media) e relativa parentela di primo e inferiore grado.

“Volete fare del trambusto senza che giri uno spinello?”

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Mina Caputo (Life Of Agony)

“Ci sono i Monster Magnet e i Karma To Burn in gita in Austria, stanno proprio qua sotto. Li facciamo salire per un caffè corretto?”. La risultante fu Last Patrol, uno dei miei album preferiti degli anni Dieci, una roba su cui avrei voluto leggere Man’s Ruin, mentre quest’ultima etichetta risultava già preistoria.

L’esperimento Grave Digger suggeriva piuttosto d’insistere sul power metal caciarone, mentre un’orda di femministe capitanate da Mina Caputo dei Life Of Agony urlava e strideva a pochi passi dai laboriosi uffici della Napalm Records. Furono ancora le autorità a cantar vittoria: si misero sotto contratto i Powerwolf, in sostanza la versione non guerrafondaia ma orrorifica dei Sabaton. In altre parole, un gruppo che riesco a tenere su per cinque, massimo dieci minuti, dopodiché inizio automaticamente a maledire il cielo. Firmarono pure gli Hammerfall, fu il degenero totale. Nel pensare che si fosse toccato il fondo fui un illuso: il peggio stava giusto per venire.

Un piccolo esercizio didattico: ho segnato in grassetto i nomi delle band: scorrete per un attimo su, leggete da cosa siamo partiti e ritornate fin qui senza aver bestemmiato nemmeno una volta. Non è questione di preferire il black metal al power metal, o i gruppi che non fanno quattrini ai gruppi che ne raccolgono

A quel punto Mina Caputo, non si sa con cosa, riesce a sfondare il portone.

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Xandria

Siamo ai giorni d’oggi: Mina Caputo irrompe, porta dentro gli Xandria di Dianne van Giersbergen assieme ai Sirenia di Morten Veland (ex Tristania), e dissotterra gli W.A.S.P. poiché ritiene di poter andare d’accordo con quel che rimane di Blackie Lawless.

Quello che le femministe rinvengono all’interno dello stabilimento è un’orgia senza criterio di stili musicali, di uffici impegnati a giocare a Clash of Clans sul cellulare e segretarie prese a rispondere agli spazientiti Candlemass, assicurando loro che la situazione è assolutamente sotto controllo e che non debbono vergognarsi di starsene lì dentro. Ci sono pure i DevilDriver di Dez Fafara su Napalm Records, insomma, c’è il tipo dei Coal Chamber.

Mina Caputo si siede a una scrivania e guarda in faccia il capo, mentre, da sotto la giacca, gli fa intendere che lo sta puntando con qualcosa che potrebbe benissimo essere una pistola di grosso calibro. Vince con la minaccia dell’arma e di proposte ora irrifiutabili, fra cui quella di pubblicare il nuovo dei Life Of Agony esattamente su Napalm Records. Sarà il turno di A Place Where There’s No Pain, il titolo più petaloso e i contenuti più improponibili dagli autori d’un mezzo colosso degli anni Novanta come River Runs Red.

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Delain

A quel punto, sotto la minaccia di un’arma che probabilmente non c’era, o era ben altro, Napalm Records si occuperà dei Temperance e dei Delain e darà un sacco di lavoro a Gabriele Traversa. E tutto questo ebbe inizio con gli Abigor, col voler variare sul tema di un black metal che già negli anni di Nemesis Divina (a proposito, indovinate per chi è uscito l’ultimo dei Satyricon) ci mostrava moltissimi limiti e una longevità in netto calo. Tutto questo ebbe inizio da un progetto ben preciso e da idee limpide, e finì in preda alla ruffianeria e alla volontà di sommare, alle linee guida Nuclear Blast, una mancanza di pudore ancor più marcata della loro. Ora l’assalto agli Amaranthe, ultimo anello mancante per cambiare, una volta per tutte, la definizione di fossa biologica. (Marco Belardi)

Avere cent’anni: replicanti metallari da un futuro distopico

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Siamo agli inizi del ventiduesimo secolo. L’heavy metal è estinto, o, peggio, ridotto alla stregua di un lussuoso marchio d’abbigliamento da mostrare agli amici. Le sale prova hanno ora l’aspetto di desolati deserti. Tuttavia, la scena è in qualche modo sopravvissuta.

La baracca è tenuta artificiosamente in vita da un colosso chiamato La Corporazione, con sede in una metropoli uguale alle altre e dominata da torrioni industriali che svettano su arterie inondate di luci tremolanti. Per mezzo di androidi ricostruiti in laboratorio, entità storiche come Slayer, Dream Theater o Metallica rivivranno agli occhi dei fan anziché nella memoria dei loro eredi biologici, sebbene sia stato necessario adeguarli ai canoni di conformismo del 2120. La Corporazione ha tuttavia un problema: l’ultima generazione di queste repliche del passato è in grado di sviluppare sentimenti complessi e di divergere dai programmi stabiliti, in modo senziente e perciò pericoloso.

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Negli anni della cosiddetta modernità si settarono standard dai quali ripartire senza che il genere intero fosse percepito come un promotore di sommossa sociale, il cui bersaglio poteva collocarsi in ambiti religiosi, sociali o politici. Grazie a capisaldi come The Gathering osservammo un nuovo metodo di concepimento della medesima musica, lo osservarono i metallari e lo presero come traccia da seguire. Arch Enemy e Lacuna Coil divennero indiscutibili gruppi di punta, e, al contempo, Sabaton ed Amon Amarth erano ora destinati a guidare i festival europei al suon di show pirotecnici. Gli In Flames si confermarono un punto di riferimento a cui rifarsi: un tempo avremmo fatto il nome dei Carcass, ma c’erano troppa ironia, sarcasmo e satira sociale nei loro testi. L’America si crogiolava nello sterile fragore del suo metalcore diretto a un pubblico giovanile, e un po’ alla volta perdemmo i Grandi Antichi di quella musica: Chuck Schuldiner, Dimebag Darrell, Lemmy Kilmister, i morti prematuri e infine quelli per raggiunta vecchiaia. La merda aveva ora il via libera per dilagare.

La Corporazione si assicurò che il metal ripartisse dai suoi ultimi decenni di commercializzazione, e mai dai cosiddetti anni di gloria. Nei sintetici che si fabbricarono in gran numero non furono impiantate le sembianze di Mark Shelton o la capacità di riprodurre un vecchio album degli Angel Witch. Il metal rinacque dal Duemila per evitare che per mezzo di esso venissero trasmessi l’alcolismo, la deviazione, l’anticonformismo; ma anche fiere del disco, fanzine, pompe nei cessi o più probabilmente entrare nei cessi per appiccicare l’adesivo di Metal Skunk, e infine le bevute omaggio annacquate e le successive che eri costretto a comperare per sentirti un minimo alticcio. Macchinate in cinque in una Fiat Uno per andare a vedere gli Slayer a più di trecento chilometri di distanza, non furono affatto contemplate. Il progetto incentivava il merchandising, concerti virtuali sotto forma di ologramma, attori autorizzati o androidi recitanti, ma anche successivi meet’n’greet con la possibilità di abbracciare i propri beniamini e token che includevano il vinile autografato digitalmente. E un’ultima ma importante cosa. Agli androidi fu impedito di bestemmiare, categoricamente. Erano abilitati a replicare ogni frase tipica delle celebrità d’un tempo, ma non potevano in alcun modo bestemmiare. La sensazionale trovata della Corporazione fu di disattivare istantaneamente la replica nel caso essa avesse affermato, o anche solo ascoltato, un’imprecazione verso qualsiasi Dio: nessun fan ne avrebbe così lanciata una, pena la cessazione del servizio, e neanche il sintetico, poiché avrebbe pagato un prezzo altissimo. L’operatività.

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Nel 2118 alcuni di loro presero a suonare una musica divergente da quella imposta dai canoni della Corporazione: il post atmospherical funeral doom con tinte black metal dalla frangia che mette le cime dolomitiche in copertina. Preso atto della reazione entusiastica da parte del pubblico, le autorità dovettero intervenire ritirando tempestivamente ogni elemento mal funzionante. Era in programma la riproposizione per intero di Helix degli Amaranthe e gli androidi avevano optato per altro, in piena autonomia. Sugli autobus fu riproposta per alcuni giorni una versione rivisitata del Monsters Of Rock 1992, con un logo adeguato e il bill privato della dicitura Black Sabbath, poiché inneggiante all’esoterismo ed al razzismo. Al posto degli autori di Paranoid trovò luogo il solo nome di Tony Iommi. La sua chitarra originale fu mantenuta intatta nelle immagini in proiezione, in quanto la dicitura Diavoletto consisteva in un vezzeggiativo che allietò le alte sfere della Corporazione, suscitando ilarità in ogni ufficio del Palazzo.

Con la massima urgenza fu convocato in sede uno specialista, Rick Diahan, facente parte di una divisione sotterranea e poco chiacchierata della Corporazione. Quelli come lui erano chiamati in causa solo nei rari casi in cui le autorità, da sole, non avrebbero potuto rintracciare e ritirare uno o più individui non idonei alle mansioni. Un assistente lo accompagnò negli uffici riservati alle alte sfere, dove Diahan venne scrupolosamente messo al corrente del problema. Non gli fu comunicato perché scelsero proprio lui, ma seppe che un elemento riottoso era stato sottoposto al test oculare ed aveva riconosciuto alcuni fotogrammi subliminali di un video proibito dei Cannibal Corpse. Fu ritirato all’istante, ma riuscì a compromettere fisicamente un impiegato durante le operazioni di cattura. Il compito di Rick Diahan era ora quello di raggiungere l’area concerti e mettere fine all’operato degli ultimi riottosi esistenti in circolazione. Il silenzioso assistente lasciò al suo fianco un piccolo origami ritraente un caprone, e fece ritorno al veicolo col quale lo aveva accompagnato alla sede.

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Sembrava tutto in regola. Gli androidi eseguivano So Far Away degli Avenged Sevenfold a una folla impazzita, lanciando petali di rose nell’area dedicata al sesso femminile e di tulipano in quella riservata ai maschi. Un ologramma volgeva il microfono al pubblico, preso a intonare le struggenti parole di Matt Sanders e a darsi il cambio con i nuovi arrivi. Il concerto era un rito di passaggio come molte altre perle della quotidianità: la lettura di un e-book sui mezzi pubblici, o la centesima consultazione giornaliera del supporto multimediale. Il consumatore pagava per sostare a tempo in un’area grande quanto il parcheggio di un piccolo centro commerciale, e al termine della visione veniva rimpiazzato da altri fortunati fanatici, pronti per assistere a loro volta a uno spezzone di concerto. Creare un’area sufficientemente grande per tutti avrebbe significato ottimizzare di meno gli introiti, aggregare e far ritornare in auge concetti poco limpidi come la fratellanza, i Manowar oppure le sbronze colossali. E la Corporazione, questo, non poteva affatto permetterlo. Sarebbe bastato un altro elemento difettoso per far precipitare il frutto d’ogni sforzo certosino.

Rick Diahan terminò la sua prima giornata di ricerche e riposò, sebbene non si sentisse mai realmente stanco. Sognò un caprone che correva libero in un bosco, si svegliò di soprassalto e iniziò a ingrandire e ispezionare alcuni fotogrammi scattati al concerto. Fu allora che bussarono. Venne scaraventato sul pavimento da un calcio diretto al costato, il sintetico aveva le sembianze di John Tardy e gli lanciava ferali ululati di ammonimento, avanzando passo dopo passo. Stava per assalirlo una seconda volta, probabilmente quella fatale, quando chiese: “Cacciatore di androidi, chi sei?”

“Diahan.”

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John Tardy si spense all’istante, capitolando sul pavimento proprio di fianco al suo aguzzino.

Fu sottoposto ad alcune medicazioni di routine ed era dubbioso, come se qualcosa di prossimo alla soluzione fosse a portata di mano, ma non riuscisse a decifrare cosa. Inoltre c’era quel caprone che lo tormentava, e in tasca ne custodiva ancora l’origami. Tornò all’area concerti, esibendo il pass che gli permetteva di accedere sotto una fitta coltre di petali bagnati dalla pioviggine. Mentre la replica di Alissa United-Colors Gluz inneggiava alla lotta contro le diseguaglianze prima d’introdurre The Immortal, e di duettare con l’ologramma di Johan Liiva in un evento che gli anni Duemila meritarono di conoscere, ma non di apprezzare, alcuni partecipanti individuarono Rick e si allontanarono a passo svelto. Percorsero la zona meet’n’greet, la vasta area consumazioni, e uscirono sotto una pioggia che sembrava peggiorare minuto dopo minuto.

Rick Diahan li inseguì. Si erano sparpagliati per un intero isolato, ma il biondo alla Billy Idol riuscì a tenerlo d’occhio fino al cornicione superiore di un palazzo, un luogo poco sicuro a causa delle insistenti precipitazioni e degli scivolosi escrementi, direi onnipresenti, emessi dalla colomba di Grand Declaration of War dei Mayhem. Lo mise in un angolo: l’androide poteva scegliere se precipitare a pochi metri da quel palco, stampando l’Orrore della morte in occhi che non potevano certo conoscerla attraverso l’heavy metal, o rimanere lì a confrontarsi con il nemico. E decise di rivolgergli la parola.

Io ne ho viste cose che voi metallari non potreste immaginarvi: album sinfonici dei Blind Guardian in fiamme nei cassonetti della plastica, e ho visto le Onde Theta balenare nel buio vicino alle porte di casa Bargone. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come petali nella pioggia durante lo show degli Arch Enemy. È tempo di morire, diahane.

(Marco Belardi)

 

Approfitto dell’uscita del singolo dei KREATOR per parlarvi dei Kreator

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Per me i Kreator sono una cosa parecchio importante, e li ho difesi con tutte le forze fino a nascondermi in un angolo ad ogni uscita dell’epopea Phantom Antichrist/Gods of Violence. Adesso mi provocano un certo imbarazzo, ma per rispetto e riconoscenza tento appunto di parlarne men che posso.

Li ho conosciuti con un cd masterizzato di Extreme Aggression passato sui banchi delle superiori, un oggetto che, pochi giorni più tardi, si sarebbe tramutato nel duplice acquisto del medesimo titolo e di Pleasure to Kill. Procedetti quindi per gradi e partendo dagli essenziali, dopodiché “mi toccò” scoprire un mondo intero che si sviluppava su tutto e il contrario di tutto.

Oggi apprendo un’altra cosa: che è uscito un nuovo singolo dei Kreator, dal titolo 666 – World Divided. E allora scorro a ritroso nel tempo, e, volgendo lo sguardo agli anni di Endless Pain, mi rendo conto che quei ragazzini appena diciottenni all’epoca si sarebbero ben guardati dall’intitolare una canzone in quel modo. Sbagliarono sì la scelta del moniker due o tre volte (a casaccio da titoli di brani famosi e talvolta contemporanei come Metal MilitiaTyrant e Tormentor), ma 666 – World Divided non gli sarà mai e poi mai passato per la testa. Questo fino ad oggi.

Mille Petrozza precisa che “dobbiamo rimanere uniti in un mondo diviso”, mentre la tag sottostante aggiunge qualcosa tipo “pesante ma molto melodico”, frase che ripetono grossomodo da quando uscì Violent Revolution, il giorno in cui Tommy Vetterli fu sacrificato per far posto al re indiscusso della plastica, Sami Ylo-Sirnio. Ossia, il mostro finale che in un Pacific Rim dai toni ambientalisti si scontrerebbe con una gigantesca Greta Thunberg intorno a tre quarti del film, tentando di annientarla con le sue ripetitive melodie di merda.

Mi è impossibile scrivere alcunché su quella canzone. Ho pure visto il videoclip e ve lo riporto come un misto di figure demoniache in vestaglia, alla The Ring, presenze femminili seminude e Jurgen “Ventor” Reil con i capelli più unti del mondo. Rapportate ora i contenuti del videoclip alla canzone e avrete ottenuto quel che mi verrebbe da dire a riguardo, e da cui saggiamente mi trattengo.

Parliamo piuttosto di cose serie, un po’ come ho fatto con i Sodom: che cosa sono i Kreator per il sottoscritto?

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Di loro ho coverizzato svariati pezzi con una band che non esisteva già più nel 2005: Flag of Hate, Betrayer, People of the Lie. Ci divertivamo un sacco a rifarli perché erano semplici e perché suonavano la carica come pochi al mondo. Era come se qualcuno fosse riuscito a importare un concetto anthemico, un tiro da stadio, all’interno di un fenomeno ancora per poco circoscritto come quello del thrash metal. Flag of Hate fu come l’embrione da cui si sviluppò tutto il discorso legato al citazionismo, all’alleanza, ai cazzi-contro-cazzi di cui si sente spesso rammentare nei testi metallari che tanto piacciono al Bargone. Love us or Hate us era il concetto che volevano esprimere; tutti i discorsi su dittatura, schiavitù e un futuro di merda, dal canto loro, non erano che il tramite per mantenere la voce grossa nel circuito thrash metal internazionale.

I Kreator crebbero per mezzo di Noise Records, un’etichetta su cui un giorno scriverò qualcosa come ho fatto nei riguardi della Napalm, e quel giorno, certamente, utilizzerò molti più elogi. All’epoca uscirono per Noise nomi come Hellhammer, Running Wild, Coroner, Voivod, Gamma Ray. Vi era un occhio di riguardo per cose molto semplici e che ben presto sarebbero esplose, e uno per l’avanguardia assoluta del metal anni Ottanta, quella frangia più evoluta e talvolta anche un po’ indecifrabile per i tempi che correvano. Noise giocava d’anticipo su tutti, cosa che Napalm fece con l’ultimo black metal accettabile e folkloristico, oltre che col gothic metal europeo.

Pleasure to Kill fu la prima cannonata ad altezza gambe: lo conoscete tutti, e se non lo conoscete, alle diciotto è opportuno che usciate sul balcone ma non per suonare o cantare. Non è necessario spendere una sola parola nei confronti di quell’album, uno dei miei cinque, massimo dieci preferiti di sempre. È perfetto così anche se in troppi brani ci cantò la persona sbagliata, è un rullo trasportatore di classici ringhiati con una cattiveria che è la solita di Reign in Blood e di pochi altri titoli usciti per mano giusta al momento giusto. A tal proposito, Harris Johns si occupò della produzione prima di lavorare per una vita con Sodom e Tankard. Sempre a proposito di quegli anni, recuperate ad ogni costo l’EP Flag of Hate (comunque presente nella ristampa Century Media del celebre full) anche solo per poter sentire il classico Awakening of the Gods.

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Di Terrible Certainty, un buonissimo disco d’assestamento, ho già scritto altrove. Extreme Aggression è invece l’album dei Kreator a cui mi sento maggiormente affezionato: quando riferiamo delle nostre band preferite, noi tutti abbiamo in mente un titolo che consiglieremmo a chiunque, e un prediletto “personale”. Nel caso dei Kreator dico che con Extreme Aggression raggiunsero una completezza disumana, e che forse oggi non risulta tributato come esso meriterebbe. Il suono era asciutto come da tradizione del techno-thrash contemporaneo, con ogni strumento udibile alla perfezione e il basso ben nascosto da qualche parte. Le melodie che oggi conosciamo erano già vive, soltanto usate con criterio e non per raggiungere un pubblico fatto di arrembanti lolitas bisognose d’affermare la propria fede metallica. Se il successivo Coma of Souls rappresenterà la summa dei Kreator melodici, con Extreme Aggression si celebrava il riff, e si esaltava all’ennesima potenza l’attitudine anticipata in copertina. E poi che pezzi, Fatal Energy (un po’ la madrina dei concetti espressi in seguito), No Reason to Exist, la stessa Betrayer oltre al capolavoro messo in partenza, con quel grido straziante a dare il via ai giochi. Non dico che quest’articolo fosse una scusa per parlarvi di Extreme Aggression, ma ammetto che ci si vada parecchio vicino.

Coma of Souls è un album formalmente perfetto, all’interno del quale rimpiango una sola cosa: che non suonasse diversamente, non nella tecnica quanto negli intenti. C’è Frank Blackfire alla chitarra, ma l’ex chitarrista dei Sodom dovette un po’ adeguarsi a uno schema ben collaudato, mentre in Agent Orange “americanizzò” la formula a proprio piacimento, rendendola irresistibile. I Kreator erano e restano un monopolio di Mille Petrozza con un fedele taglialegna alla batteria, e qualunque figura, posta al fianco del capo, non ha mai avuto modo di lasciare il segno come può aver fatto altrove. L’altro album cruciale degli anni Novanta prese il titolo di Renewal, quella che considero una delle più grosse occasioni mancate della loro discografia. Sono innamorato pazzo di come suona Renewal, e lo sono di circa metà delle sue canzoni su cui cito – in particolar modo – il capolavoro Europe After the Rain, Winter Martyrium e Brainseed. Eppure gli manca qualcosa, e non capisco se il passo sia stato più lungo della gamba, oppure troppo breve e frettoloso. In ogni caso niente di transitorio, ma piuttosto una rischiosa presa di posizione negli anni in cui tutti aspettavano il vicino di casa per fare la mossa mainstream: Anthrax, Forbidden, Overkill, toccò un po’ a tutti e la Germania non fu affatto esente.

Cause for Conflict è il classico album che incidi dopo esserti reso conto d’aver fatto una cazzata, e, con lo scopo unico di rimettere insieme alcuni cocci, finirai per romperne altri. A me piace, ne apprezzo la furia e il buon senso di lasciar relativa libertà creativa a un mostro come Joe Cangelosi, il temporaneo sostituto di Ventor, ma aveva ben pochi pezzi di cui vantarsi. Catholic Despot, se proprio volete provarne una, ma per quanto sia affezionato ad esso debbo ammetterne la relativa debolezza di fondo.

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Infine si arriva a Outcast ed Endorama, già trattati in un modo o in un altro all’interno della nostra rubrica Avere vent’anni. Outcast, e appunto Endorama, ci hanno consegnato le migliori canzoni dei Kreator degli anni Novanta: il senso di incompiutezza si sposta in direzione del talentuoso chitarrista che Petrozza reclutò al suo fianco, Tommy Vetterli degli appena scoppiati Coroner. Qualunque cosa intendesse fare Mille Petrozza mentre Dark Tranquillity e Paradise Lost ottenevano risultati alterni da soluzioni parallele, venne a coincidere con un graduale ritorno alla ribalta delle sonorità classiche, ammodernate, sì viziate a dismisura, ma pur sempre classiche. Mille Petrozza si rimangiò tutto, egli avrebbe potuto accompagnare i Kreator dove gli pareva ancora per un po’ ma si limitò a mettersi comodo, seduto come uno spettatore, come se il nuovo millennio prendesse poco a poco la figura d’una meritata pensione.

Credo che il problema sostanziale dei Kreator sia stato il boom smisurato di Violent Revolution, che è pure un bell’album, una sorta di Coma of Souls sotto conservanti per gente che voleva il thrash metal senza spaccarsi più il collo e le ginocchia. Mille Petrozza aveva realizzato il suo desiderio: come ho accennato a inizio articolo, rendere questa roba canticchiabile in coro, non da ubriachi come in una Ausgebombt, bensì sempre. Ed è esattamente quello che speravo non andasse mai ad intaccare il thrash metal, ma qualcuno dirà che così facendo, perlomeno, ce ne è un po’ per tutti. E non sarà di certo un mestierante come Jens Bogren a tirarli fuori dai (miei) guai. (Marco Belardi)

Dalle fiere del disco a Bandcamp, storia di una dipendenza

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In gioventù mi tenni alla larga dal vinile come se si trattasse d’eroina. Ero, in compenso, uno sputtanatore terminale di paghette settimanali; un gesto piuttosto ingrato, dato che comportava la trasformazione dei soldi ricevuti ogni sabato (senza fare niente in cambio, aggiungo) in pinte di birra al pub oppure in album dei Crisis raccattati alle fiere. Il lunedì piangevo sistematicamente miseria, ma avevo pur sempre collocato roba come Deathshead Extermination sullo scaffale, nella posizione elevata e luminosa che riservavo ai nuovi arrivi. Dopodiché cominciai a lavorare, il che aggravò le cose.

La faccenda si fece preoccupante. Prendevo lo scooter e mi avventuravo per quarantacinque minuti lungo le colline del Pacciani, per raggiungere l’Autostrada e fare il caffè a milanesi come Bargone, tutti intenti a raggiungere Roma per affari o per visitare un Duomo differente dal loro. Stipendio alla mano, capii subito che avrei sputtanato molti più soldi di prima. Le fiere del disco si moltiplicavano, e il cuore pompava sangue e adrenalina dappertutto mentre su quei tavoli imbanditi individuavo Coping With the Urban Coyote degli Unida un attimo prima del bifolco al mio fianco.

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Ero come un drogato, con la differenza che gli amici non se ne accorgevano. Ci sono bar che non riescono a vendere le paste del giorno prima, con la crema pasticcera all’interno che è già rancida, e allora installano qualche slot machine e prendono a selezionare la clientela. Gli ultimi irriducibili del Crodino spariscono di colpo, poiché detestano il suono ossessivo di quelle macchinette infernali. Il loro posto viene preso da questi elementi solitari e dallo sguardo assente, assai più fattoni di tutto Rainier Fog, col cervello impegnato a osservare il posizionamento degli sgabelli per dedurne se il cash uscirà prima da Himalayan Adventures, da Treasure of the Witch o da un altro cassone pieno di led e spiccioli, intitolato di merda e con su appiccicato il bollino che ne contrassegna la messa in regola.

Ci sono quelli che si bucano di eroina, speedball o di qualunque altra cosa gli capiti a tiro in tempi di magra. In fin dei conti è con alcuni di loro che mi sono avvicinato al rock, ma io mi bucavo di dischi. Avevo una cameretta lunga quattro metri e larga tre, arredatissima e dunque per nulla spaziosa. Su una parete c’era questo scaffale pieno di piccoli souvenir ricevuti da molti angoli della Toscana, tipo Monte Amiata o Castiglione della Pescaia. C’era anche la foto della mia vecchia gatta, Briciola, un baule di dieci chili che mangiava qualunque cosa gli capitasse a tiro. Scomparì tutto. Lo scaffale iniziò ad assomigliare a una visuale aerea dell’agglomerato urbano di Prato, dove le famiglie autoctone gettavano la spugna per trasferirsi a Pieve a Nievole e al loro posto comparivano i cinesi, i quali avrebbero aperto all’istante un’attività. Briciola si trasferì di fianco al mio letto, e da lì poteva osservare come al suo posto fosse comparsa la scarna discografia dei Death Angel, affiancata però dai The Organization. Infine misi tutto in ordine alfabetico per non perderci più la testa: il quartiere si era assettato per un’ultima volta, sebbene stesse assumendo le sembianze di una dannata metropoli. Mancavano solo i fumi di scarico e i ratti nei vicoli, anche se la cassetta originale di Reload era la similitudine più plausibile.

A una fiera come tante feci bottino pieno: None Shall Defy degli Infernal Majesty e Paradise Lost dei Cirith Ungol nella stessa settimana in cui Ebay mi aveva inviato il raro debutto degli australiani Hobbs Angel of Death. Nello stesso periodo mi arrivò pure il meraviglioso Technocracy dei Corrosion, tutto scassato dai corrieri o dal postino. Ero all’apice. Inoltre frequentavo Data Records in centro a Firenze, un negozio di vinili ove regolarmente sfogliavo vecchie riviste per leggervi che cosa dichiarassero i Metallica negli anni del Black Album, o gli Iron Maiden dopo aver preso Nicko alla batteria. Non avevo vissuto quegli anni e pretendevo di saperne di più. Ero lì per le riviste, di cd ce ne erano pochissimi – il che mi faceva sentire potenzialmente al sicuro – ma l’occhio mi cadeva sempre più sui vinili. Ogni ripiano ne era colmo, dai Vicious Rumors ai semisconosciuti Harppia, brasiliani. Non gli mancava niente.

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Le persone appendono in stanza la riproduzione di un Cézanne, la foto ricordo alla pineta di Baratti oppure il calendario di Alessia Merz. Esibii a lungo solo l’ultimo di questi simulacri, e nell’attuale redazione non sono stato il solo. Probabilmente una generazione intera ce l’aveva e si mantenne magra per mezzo di esso. Alla Data Records ebbi l’idea di prendere uno o due vinili per sistemarli sulla parete Merz a scopo puramente decorativo, che ne so, nell’intento di esaltare un qualcosa di significativo ed embrionale. Kill’em All andava benissimo, immagine minimale e di impatto. Master of Reality pure. Sarebbe stato come farsi una pera per provare: entro una settimana avrei acquistato un oggetto più grande del lettore Aiwa per musicassette, e anche del Sony in cui mettevo i miei compact disc. Ci sarebbero entrati i vinili: una bella siringa al posto del filtro da mettere davanti a un banale cannone. Avrei iniziato a farmi senza soluzione di continuità, sarei tornato alla Data Records per svaligiarla, e, successivamente, avrei proposto al direttore qualche ora di straordinari, lì, alla stazione in cui Milano e Roma facevano riprender fiato ai loro migliori yuppie a suon di brioche scongelate. Ma non acquistai immediatamente quei vinili, perché dentro di me albergava ancora un lato relativamente ragionevole. Tornai a casa e rimuginai a lungo, e mi portai dietro un paio di vecchissimi Metal Shock per poterli studiare con attenzione. A un certo punto una voce femminile mi interruppe. Era la Merz, sul muro verticale:

MA TE LA VUOI FARE UNA SEGA?

Fu come una schiarita in cielo subito dopo la tormenta. Stabilii tassativamente di non prendere alcun vinile, e seppi resistere all’inumana tentazione nel momento che ne preannunciava il totale sopravvento. Continuai ad acquistare i pratici cd, i quali si mischiavano ai promo e agli originali che arrivavano per la webzine MetalManiacs, rimasta attiva sino all’estate del 2006 con una grafica che rasentava i canoni imposti da MS-DOS. Camera mia assomigliava a un negozio dall’unico cliente in condizioni disastrose. Sguardo assente su un booklet, proprio come quelli delle slot.

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Ma il giorno in cui comprai Christ Illusion si ruppe qualcosa. Ricordo che eravamo in pieno agosto, il sito stava chiudendo, con le news aggiornate una volta ogni dieci giorni e sempre meno articoli da pubblicare. Il paradosso: io con zero voglia di ascoltare inediti e scrivere. Tenni tutto in balia della polvere per qualche tempo, e lentamente smisi di interessarmi a cosa bollisse nella pentola di casa Century Media. Scelsi di darci un taglio nel modo più forzato possibile, da un giorno all’altro. Al metal avevo dedicato un tempo (e denaro) che non riuscivo minimamente a quantificare. Era come il virus dei collezionisti, quello che porta le persone a spendere un patrimonio per un artefatto Mox delle Magic The Gathering: drogati, dappertutto. Che il tuo nome sia Warhammer, Minerali e gemme o l’heavy metal in persona, per chiunque cada nella tua ragnatela saranno cazzi davvero amari.

Ricordo bene un altro dettaglio di quei tempi. Ero particolarmente affezionato al libretto dei cd: avevano le dimensioni ideali e un sacco di informazioni al loro interno, tranne quando i Metallica facevano i cazzoni e scarabocchiavano i testi col Tratto Pen. A un certo punto fu come se del libretto non m’importasse più nulla, perché quello che dovevo metabolizzare l’avevo metabolizzato, e del booklet delle nuove uscite non mi fregava granché. Ci fu un periodo storico da cui pretendevo quel genere d’informazioni, e la piega generale che la scena intera stava prendendo non mi aiutava a restare altrettanto curioso. Avevo concluso un ciclo della mia vita, e sebbene oggi abbia ripreso a scrivere con una costanza che spesso fa preoccupare il Carrozzi, nulla potrà essere paragonabile ad allora. Per mia fortuna.

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Sono passato in tutto e per tutto al digitale e so benissimo che se mi riazzardassi a comprare l’ultimo Blood Incantation rischierei di fottermi cervello e portafoglio come da principio. Ho stabilito di lasciare le cose così come stanno, ovvero affogate nella pratica freddezza di un account Spotify. Ho lentamente ripreso ad andare a qualche concerto, talvolta con la scusa della fotografia, ed altre, giusto per bere un paio di birre e godermi la musica che amo. Inoltre convivo a forza col giudizio del militante metallaro di stampo bolscevico, il quale è solito affermare, con voce grondante cameratismo:

– che è opportuno contribuire alla scena a oltranza, il passato è passato!, brandire subito la vanga e portare in camera altri dischi ad ardere.

– che non si deve mai arretrare al sopraggiungere d’un evento 1:00 AM fino all’alba, poiché il lavoro al mattino seguente non rende liberi.

– che una volta recluso in una casa di riposo dai cari che non sopportano le tue fughe notturne dall’appartamento, sarà lì che dovrai far pervenire le ultime novità del catalogo Unique Leader.

Non biasimo in tutto e per tutto il bolscevismo metallaro ai limiti dell’appartenenza sindacale. Ma che io abbia “dato” o non dato a sufficienza – a patto che questa soglia esista – ho già avuto un passato da ventenne che fa il cazzo che gli pare senza recare conseguenze all’ambito personale. E quel passato è passato.

Ho tuttavia un nemico, BandCamp. Con lui è la stessa e identica cosa di allora. BandCamp infogna, logora, lavora ai fianchi. Ne sto alla larga finché posso, ma poi mi capitano sotto tiro gli Hazzerd, canadesi, e ho paura. Se entro in BandCamp e inizio a ispezionare l’ispezionabile farò una brutta fine, e in più c’è Ciccio Russo che provoca e tira fuori a sua volta questi crucchi, i Traitor, che hanno una combo di chitarre e basso vecchia scuola e una voce che ricorda vagamente il Petrozza dei tempi che furono. Non sono gli Assassin o i Bonded che ti arrivano comunque nella lista delle uscite mensili di Loudwire, o nei suggerimenti di Google. Questa è la roba che sgorga da BandCamp, una fontana piena di gente spesso priva della benché minima personalità e fortunata di trovarsi nel movimento giusto al momento giusto: e quella roba, per una serie di motivi che non sto a elencarvi perché già li conoscerete, sono e sarò sempre tentato di comprarla tutta. (Marco Belardi)

 

Storia male illustrata del black metal vampiresco

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Prima che l’inverno a cavallo tra il 1993 e il 1994 culminasse, una temeraria spedizione organizzata da esploratori norvegesi decise di tributare l’impresa di Ernest Shackleton a bordo del veliero Endurance e il conseguente salvataggio dei superstiti, i quali, presso l’isola di Elephant, resistettero per settimane alla minaccia di fame e intemperie. Sebbene fossero trascorsi ottant’anni dalla sfiorata tragedia, gli scandinavi optarono ugualmente per un approccio tradizionale alla navigazione e scelsero di volgere il proprio sguardo al Polo Nord, più ragionevolmente raggiungibile rispetto a quello opposto, con il fine unico di ricercare gelide terre ove recarsi a registrare i nuovi videoclip di Emperor, Satyricon ed Immortal.

La nave venne varata in Inghilterra da un giovane e promettente marinaio, che i possenti norvegesi, non senza evitabile presunzione, schernirono e sottovalutarono per la sua bassa statura oltre che per la voce così fastidiosamente acuta. Tuttavia il veliero rimase di proprietà della Corona inglese, e il popolo nordico riuscì a strappare soltanto una preziosa quanto striminzita concessione all’utilizzo: come capitano fu nominato l’emergente Daniel Lloyd Davey, mentre le operazioni a terra, la gestione delle mute di cani da slitta e ogni altra questione di natura logistica avrebbero ricevuto meticolosa cura da parte degli ufficiali Olve Eikemo, Sigurd Wongraven e Tomas Haugen. Quest’ultimo era rigorosamente accompagnato dal fedele ed eclettico medico di bordo Vegard Sverre Tveitan, esperto nella prevenzione dello scorbuto e nell’utilizzo di lacci per capelli.

Sarah Jezebel Deva

La navigazione procedette senza particolari intoppi in direzione delle isole Svalbard, presso le quali sarebbero state imbarcate generose razioni di carne di foca e carbone. Gli unici intoppi provenivano dalla mancanza di coordinamento tra i due equipaggi: quello inglese, composto dal capitano Davey e dai suoi pallidi mozzi, e quello norvegese, ambizioso di sensazionali scoperte e con lo sguardo perennemente rivolto all’orizzonte. In una notte timidamente illuminata dall’aurora boreale, il veliero cominciò a fare i conti con il pack frammentato alla deriva: si scelse di proseguire nella navigazione con lo scopo di approdare alle terre della Groenlandia più rivolte al Polo, ma così facendo si cominciò a deviare più e più volte a causa dell’infittirsi del pack, finendo per circumnavigare la gigantesca isola verso l’imbuto mortale e l’intricato labirinto rispettivamente caratterizzati dalla Baia di Baffin e dal Passaggio a Nord Ovest.

A un certo punto procedere divenne impossibile, tanto il ghiaccio aveva preso il sopravvento, e così il veliero fece sosta nel pack completamente solidificato in attesa di giorni favorevoli. I cani si mostravano sospettosi verso l’equipaggio inglese: abbaiavano continuamente al capitano Davey e sembravano sfidare, a zanne serrate, anche i suoi pallidi assistenti. Al contrario i norvegesi, in tutta tranquillità, iniziarono a nascondersi in stiva per effettuare alcune videochiamate verso il Nord Europa.

Daniel Lloyd Davey

Il medico di bordo origliò una conversazione tra il fedele Tomas Haugen e una personalità ignota, nel corso della quale pareva si progettasse in gran segreto qualcosa di nuovo, nominando inspiegabilmente il gas Zyklon. Nella fattispecie colse la frase “ha sempre i capelli buttati all’indietro, un giorno indosserà maglioncini a collo alto e si farà crescere la barba hipster”, e si insospettì non poco.

Sigurd Wongraven era al telefono con il centro assistenza Amazon, da cui aveva ordinato un teschio e un rapace impagliato da fotografare per un libretto illustrativo, e cercava di capire se un certo Ted Skjellum fosse stato a casa per poter ricevere la consegna del pacco da parte del corriere Bartolini.

Olve Eikemo scese addirittura sul pack per telefonare, probabilmente mosso dall’imbarazzo per le parole che avrebbe pronunciato: scivolò e rotolò per metri, finché venne attaccato da alcune misteriose figure nell’oscurità. A quel punto corse di nuovo a bordo, mentre i cani abbaiavano al buio senza ricevere alcuna considerazione dal resto dell’equipaggio.

Al mattino i cani erano tutti morti, e a scomparire era stato proprio il loro sangue, del quale si rinvennero solo alcune tracce. Sigurd iniziò a truccarsi nervosamente la faccia con il fard e gli altri lo ammonirono subitaneamente, invitandolo a seguire le istruzioni comportamentali ricevute dall’ammiraglio Oystein Aarseth prima di salpare. Olve si rifugiò in stiva e cominciò a bere ossessivamente birra, e inoltre ruppe del gesso, lo sminuzzò e prese a inalarlo in nome di Blashyrkh. Il medico di bordo fu costretto a sedarlo, dopodiché aggiunse altra gelatina ai capelli e si dileguò.

Tomas Haugen aveva intuito qualcosa, o almeno così suggerivano i lunghi silenzi e gli sguardi inquisitori che dall’alto spediva al capitano Davey, come un ripetuto monito dai toni severi.

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L’Endurance ancora intatta nella morsa del pack

I naviganti furono svegliati dal tonfo sordo dell’albero di trinchetto, il quale si era spezzato a metà sotto la pressione incessante del pack. La nave, anziché innalzarsi verso l’alto, era finita in mezzo a un pericoloso gioco di compressione e stritolamento, azione causata da due blocchi di ghiaccio mossi l’uno contro l’altro. Iniziarono a caricare sulle slitte cibo, capi di vestiario e altri beni essenziali come la musicassetta di December Moon dei Morbid, e portarono con sé ben tre scialuppe da destinare all’equipaggio in caso di navigazione sicura nelle acque libere dal ghiaccio. Si diressero a sud-est, e poi scomparvero nel nulla.

Due anni più tardi una nave rompighiaccio riuscì ad accedere, all’irrompere della primavera, in quella che a lungo era stata nominata zona di ricerca, senza produrre significativi risultati. L’allora ammiraglio Roger Rasmussen, detto Hell Commander, attendeva ansioso in diretta radio, vomitando di tanto in tanto nel secchio custodito di fianco alla scrivania. Quello che l’equipaggio della rompighiaccio ebbe modo d’osservare destò stupore e raccapriccio in ognuno. Nessuno osava aprir bocca, anzi si limitavano a ricacciar dentro i conati con la flebile speranza che presto sarebbe giunto l’ordine di ripartire, con i motori spinti a pieno regime.

Sulla costa sassosa e sferzata dal vento di un’isola minore della Groenlandia, oramai scollegata da terra dal precoce sciogliersi dei ghiacci, l’equipaggio inglese del veliero era sopravvissuto per lunghe stagioni cibandosi avidamente di robuste foche fasciate. Uno di loro, Nicholas, era particolarmente ingrassato e affermava di non aver mai buttato via niente. Il capitano Davey sembrava aver perduto ogni parvenza del portamento degno d’un ufficiale: aveva rubato il cerone facciale da una cassa di equipaggiamenti di sopravvivenza dei norvegesi, e si era pittato la faccia in una maniera che suscitò orrore nei marinai giunti in suo soccorso. Inoltre, proprio in quel momento, i due chitarristi – Stuart e Gian – stavano bollendo il sangue d’un grosso tricheco deceduto da giorni, e di tanto in tanto ne lanciavano una manciata addosso a una ragazza Inuit che tenevano in ostaggio e che avevano denominato “la corista”.

Il capitano dell’imbarcazione telefonò a terra e avvisò l’Hell Commander: “Qui pattuglia di soccorso, chiamo terra. Stiamo ritornando a casa con il futuro del black metal. Passo e chiudo.” (Marco Belardi)

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