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Gloria e vita alla NOISE RECORDS

Qualcuno si ricorderà di un giovane tedesco appassionato alla militanza politica a livelli pressoché estremi. Finì in galera nel periodo della Rote Armee Fraktion e una volta uscito, probabilmente, a salvare Karl-Ulrich Walterbach sarebbe stata la musica.

Per gli innumerevoli metallari degli anni Novanta, seguire un’etichetta discografica era come parteggiare per una sigla politica, perduti nella convinzione di poter influire sul futuro tracciando una crocetta a lapis, o, appunto, con l’ennesimo disco portato a casa dal negozio di fiducia. Con la differenza che, a quasi quarant’anni, mi sono sempre affezionato alle etichette discografiche e mai ad un politico. L’etichetta discografica generava in noi un autentico senso d’appartenenza, il che rappresentava un’indiscutibile somiglianza fra le due cose. Ma sarebbe da ingrati tirarla fuori proprio oggi, perché oggi, appunto, si parla della Noise.

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Se ho scritto un pezzo su Napalm Records che a metà contenuti intraprendeva la via della parodia, è perché molte etichette discografiche fecero un po’ la stessa fine nel varcare la soglia del Duemila. La differenza tra questo e l’altro articolo è che stavolta non elencherò la lista delle uscite e dei progressi maturati anno dopo anno, per cui se mancheranno i Sinner dovrete perdonarmi, mentre se ometterò gli Iron Savior sappiate che l’avrò fatto di proposito.

Ritorniamo al nuovo millennio: poca settorialità, pochissimo criterio operativo e nessuna presa di posizione in quell’ambito che nel calcio dirigenziale definiremmo col termine progettualità. Un po’ li capisco: al mutare dei tempi e con il consolidamento dell’era digitale, una parte dell’utenza ai piani bassi ben realizzò di poterne fare a meno, riservandosi una fetta in più che altrimenti sarebbe stata spartita coi rocker da ufficio e macchinetta del caffè. Ma ormai rimaneva ben poco da spartire. La sua funzione non è inutile, non fraintendetemi: ma la tipologia di promozione e organizzazione, solitamente compito d’un etichetta discografica, nell’epoca delle sponsorizzazioni su Facebook, degli inviti di massa e più in generale di Internet rende ogni processo organizzativo alla portata di due terzi delle band in attività. Alle restanti di esse, per pigrizia, incapacità o per reale necessità derivante dalla gestione di un brand complicato e ramificato, un’etichetta alle spalle serve eccome. Un tempo esse rivestivano un ruolo vitale, e senza il loro supporto operativo non si sarebbe spalancata alcuna porta su vendite o palchi prestigiosi. Inoltre negli anni d’oro dell’heavy metal vi lavoravano dei Professionisti con l’iniziale maiuscola, dei pionieri, gente che pensava in anticipo di dieci anni sui tempi in corso, e che oggi mai e poi mai si fionderebbe a capofitto su un settore del genere se non per pura passione.

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Sabbat

Sabbat

Personalmente ero molto affezionato a Noise Records, ed è un po’ per essa che il militante metallaro in me parteggiava. Mi accorsi rapidamente di quanti compact disc acquistassi, e subito dopo ispezionassi, finendo con l’individuare nello stesso identico punto l’inconfondibile logo della label tedesca. Le sue caratteristiche le ho anticipate nell’articolo sul bruttissimo singolo dei Kreator: come accadrebbe nominando Beppe Marotta ai piani alti dello scouting, un occhio giocava sul sicuro e l’altro era rivolto all’assoluta avanguardia dell’heavy metal anni Ottanta. Il concetto stesso di giocare sul sicuro è piuttosto vago: si trattava di dover dare una robusta continuità all’heavy metal classico sotto forma di una variante, e Noise evitò accuratamente la frangia radiofonica fatta di guitar synth ed eccessi vari, in favore di una musica molto spesso essenziale, poderosa e priva di fronzoli o concessioni verso l’esterno.

Il primo album che ho acquistato con la consapevolezza di far mio un prodotto Noise fu appunto Extreme Aggression – e in questo modo raggiungo l’intento primario di nominare quel meraviglioso album perfino qui sopra. All’epoca della sua uscita l’etichetta era già attiva da alcuni anni, perfettamente intatta, sin da principio, nell’applicazione del tipo di progettualità che ho descritto poc’anzi.

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Running Wild

Metto subito in chiaro che i Running Wild non furono soltanto tra i primi ad uscire, ma anche tra gli assoluti prediletti di Karl-Ulrich Walterbach grazie all’intoccabile triade composta da Under Jolly Roger, Port Royal e Death or Glory: per molte band firmare con Noise equivalse a sancire un sodalizio che sarebbe andato avanti per una vita. Il loro cominciò con lo split Death Metal del 1984 (condiviso, fra gli altri, con Hellhammer ed Helloween in un risultato finale piuttosto bizzarro). Il vero debutto di questi ultimi sarebbe avvenuto per mezzo di quell’EP pazzesco che voi tutti conoscerete, seguito a ruota da uno dei più begli album power/speed della storia, Walls of Jericho. In parallelo prese forma una delle mie band predilette, i Celtic Frost di Tom Gabriel Warrior, il quale, già a nome Hellhammer, aveva pubblicato sulla medesima piattaforma un certo Apocalyptic Raids. L’effetto che mi provocano i Celtic Frost ogni volta che li nomino ha ben poco da spartire con ogni altra formazione al mondo, per tanto che li ritengo importanti all’interno del panorama che contribuirono ad espandere: roba da brividi, senza sprecar giri di parole. Su Noise uscirono tutti gli album del loro periodo storico, svolta glam inclusa.

A quel punto l’attenzione si era già spostata oltre oceano. Avete presente Megaforce? Era quella dei Metallica di Kill’em All e non solo; era anche quella dei primi Anthrax e di un botto d’altra roba succulenta. Noise collaborò con Megaforce per poter stampare una parte del loro catalogo, tra cui i primissimi lavori degli Overkill. In cambio, i Grave Digger attraversarono l’Atlantico e sdoganarono la propria musica altrove. Karl-Ulrich prese poi con sé i Voivod nel momento più prolifico della loro carriera: Killing Technology sarebbe uscito per Noise, Dimension Hatross pure, mentre per Nothingface non ottenne più d’una concessione europea. Un catalogo che cominciava ad accumulare capolavori su altri capolavori, alcuni dei quali furono compresi con lo scorrere del tempo. Che si guardasse al materiale più classico, dei Rage o dei Grave Digger, o a quello più rivoluzionario, era un successo. Da un lato i due Keeper e il thrash metal dei Tankard, dall’altro i Coroner. Non un album, non due, ma tutti gli album dei Coroner uno dopo l’altro in una mutazione pressoché perpetua. Anche se, lo ammetto, il primo R.I.P. resterà il mio preferito in assoluto.

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Coroner

I Sabbat di Andy Sneap e Martin Walkyier passano facilmente in secondo piano all’interno di un carniere simile, anche se Karl-Ulrich li menzionava spesso, facendo riferimento a una grande occasione sprecata per l’impossibilità di convivere dei due leader. Ai piani alti si stava sviluppando un binario incaricato di sospingere il progenitore del trend degli ultimi anni Novanta, il power metal, che poco a poco si prese un po’ tutta la piazza. Sull’altro procedevano a briglia sciolta le contaminazioni fra diversi sottogeneri, fattore che, in sostanza, avrebbe dominato il decennio a venire. Noise arrivò su quelle cose in anticipo su chiunque altro. Nel 1989 mise la firma sul secondo album dei Watchtower, Control and Resistance: erano gli ultimi anni del techno-thrash e una gemma del genere non poté certo sfuggirgli. Solo in quel caso si guardò al presente, senza badare alla continuità.

Tutto sembrava procedere come da copione. Vi confesso che adoro i Gamma Ray con Ralf Scheepers, e il loro culmine con l’ex cantante dei Tyran’ Pace – a mio modo di vedere le cose – fu il secondo Sigh no More, appunto su Noise. Se i Gamma Ray rimasero fedeli all’etichetta fino al suo crollo verticale, un Martin Walkyier badò addirittura a tirar dentro una seconda band, gli Skyclad, non il proseguo dei Sabbat bensì il nuovo progetto di Martin con due delle menti dei Satan di Court in the Act: finalmente era libero dalla morsa di Andy Sneap, e quest’ultimo si ritrovò prossimo a diventare uno dei produttori più richiesti degli ultimi due decenni. Cominciarono tuttavia i primi problemi, ma non per gli Skyclad.

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Watchtower

Il colosso EMI tentò di sottrarre a Noise alcuni dei suoi fiori all’occhiello, fra cui gli Helloween. La cosa riguardava anche Celtic Frost e Running Wild, e ne nacque una questione legale che fu portata avanti per due o tre anni. Gli Helloween passarono interamente ad EMI in seguito a una lunga pausa forzata, e Noise riuscì a mantenere gli altri moniker. Pensateci un po’: EMI ebbe l’acume di scippare a Noise il suo cavallo di punta, gli Helloween di Eagle Fly Free, I Want Out e Future World. Il debutto sulla nuova etichetta si sarebbe chiamato Pink Bubbles go Ape, seguito a ruota da Chameleon. A questo punto della storia, che EMI fosse stata una casa discografica, una libreria o una panineria slow food, l’avrei chiusa per principio. In sostanza lasciarono EMI e si rimisero a far dischi, sul serio, stavolta con l’ottimo Deris. In contemporanea a Chameleon, che un tempo addirittura non mi dispiaceva, mentre oggi lo detesto, vorrei far luce su due titoli del 1993 ai quali sono rimasto particolarmente affezionato: The Missing Link dei Rage e Parallel Minds dei norvegesi Conception. Roy Khan, il loro cantante, raggiunse i Kamelot e consolidò una delle più interessanti power metal band di quegli anni. Sempre su Noise. A quel punto l’etichetta si era già trasferita di sede in California, alternando ottime intuizioni a qualche cocente delusione. Fu creata la T&T, sottoetichetta che diede i natali agli Stratovarius e lanciò i Virgin Steele, e furono affiliati Hellhound e un altro paio di progetti dal futuro non proprio garantito. I dettagli li ricordo a malapena, ed esiste un libro, disponibile soltanto in tedesco e in inglese ed intitolato Damn the Machine, che certamente li raccoglie e li esalta con maggior precisione rispetto al mio resoconto, anche se non ho mai avuto la determinazione d’andare a leggermelo. Ma se la curiosità vi rodesse dall’interno, sappiate che perfino Amazon ce l’ha: non è una rarità e non è nemmeno una roba finita fuori stampa.

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Helloween

La storia s’interruppe a cavallo tra il 2007 e il 2008, al termine di un decennio caratterizzato da tanto power metal e da poco altro di segnalabile. Qualche cantonata, qualche gruppo storico in declino, e un mercato che già faceva acqua da tutte le parti.

Karl-Ulrich Walterbach ebbe una caratteristica: era innamorato della capacità di scrivere buone canzoni, e non soltanto buona musica, da parte di un gruppo. Plasmò quella necessità con il punk tedesco, e poi rivolse i propri tentacoli in direzione di quello statunitense; ma quando nel 1983 formò Noise Records pensò dapprima a ottenere buone canzoni dall’heavy metal. Da qui le pressioni nei confronti di Tom Gabriel Warrior, affinché egli si concentrasse su di un progetto maggiormente in grado di esaltarne le capacità: e nacquero i Celtic Frost, nonostante gli screzi all’epoca di Cold Lake e i numerosi consigli ignorati dal loro testardo leader. Sempre per questo, pochi anni più tardi, andò fiero degli stessi Helloween che gli avrebbero poi rivolto le spalle. Perché erano capaci di scrivere grandissime canzoni. Egli era ciecamente innamorato della musica, la stessa che lo aveva allontanato dalla militanza estrema e da una gioventù costellata di reati, la stessa che all’epoca del processo con gli Helloween lo costrinse a rivalutare l’intera faccenda come un mare popolato da squali. Fra i quali incluse lo stesso Michael Weikath, senza mai vergognarsene.

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Celtic Frost

Oggi Noise Records si occupa principalmente di ristampe, riportata parzialmente in vita da un ulteriore gruppo, BMG, che nell’acquisirne i diritti non ha ancora sfoggiato una reale volontà di pubblicare materiale inedito, fare dello scouting, e, sempre con essa, mettere nuovamente sotto contratto qualcuno. Non si è trattato del primo passaggio di testimone, dato che già nel 2001 già osservammo e dubitammo di quello al gruppo Sanctuary. Karl-Ulrich Walterbach era letteralmente in fuga dal mercato della musica, intimorito da Napster e dalle battaglie legali dei Metallica contro un nemico odiato da tutti, ma che faceva comodo a chiunque: la tecnologia. Pertanto oggi si razzola nel passato forti d’un catalogo che gli altri, e perfino la EMI, poterono soltanto invidiare, tentando di intaccarlo a colpi di scalpello per ottenerne le parti più promettenti e di sicuro rendimento. Queste erano le etichette degli anni Ottanta per cui potevi tifare e parteggiare: un agglomerato di figure competenti, scout, dirigenti, ma anche avvocati, consulenti fiscali, e, ultimi ma non per importanza, i promoter. L’ultima figura reduce di quei tempi con i mezzi facilitati di oggi. Un’etichetta discografica, e in particolar modo una come la Noise, era sinonimo di professionalità. Venuta a mancare quella, e venuti a mancare i soldi che la alimentavano, finì col morire l’antico concetto di casa discografica inteso come vera e propria leggenda.

Sembrano passati secoli da quando l’attivista socialista Karl-Ulrich Walterbach fu arrestato in Germania, per poi, una volta libero, concentrarsi sulla Modern Music, ampliarla, scinderla in più direzioni. Prima la Aggressive Rock, dedicata al punk nazionale, poi la svolta a cavallo tra 1983 e 1984. Anche se quella magia è del tutto svanita, una cosa è certa: Noise Records, se sei appassionato all’heavy metal e sei nato fra i Settanta e gli Ottanta, è un qualcosa che ti ha letteralmente cresciuto. (Marco Belardi)

Gloria e vita alla Noise Records.

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Due modi opposti di pensare il thrash metal: HAVOK e WARBRINGER

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Havok

A inizio millennio il thrash metal quasi m’insospettì nell’intraprendere la via del ritorno alle origini. La strada da percorrere era ancora molto lunga, ripida e piena d’ostacoli, ma il processo era ben avviato. Avevo per le mani un disco di questi giovincelli spagnoli, i Legen Beltza, e pensai che qualcuno si stesse finalmente occupando del thrash senza passare per le derive estreme affrontate dai vari Dekapitator, Nocturnal Breed o Aura Noir. O nel peggiore dei casi da Eric Peterson. Il loro approccio era in tutto e per tutto classico, e sulle prime mi vennero in mente proprio i Testament. Di lì a poco, come funghi, Municipal Waste, Toxic Holocaust, Lich King e tutti quanti gli altri: fu un’invasione e probabilmente anche uno dei motivi per i quali sarei tornato a interessarmi al metal, “a gradini”, esattamente come una volta. Ovvero interessandomi alle uscite da vetrina come Surgical Steel dei Carcass e, in parallelo, a gente sconosciuta e intenta a muovere i primi passi verso una carriera tutta da decifrare.

Seguire un gruppo fin dalle sue prime pubblicazioni è una soddisfazione enorme, aiuta a comprendere meglio ogni suo album successivo e in un certo senso crea una specie di legame con esso. Ad esempio ho approfondito i Gama Bomb quando erano già alla quarta o quinta uscita, e non potrei mai affermare d’essermeli goduti fino in fondo.

Vi ho detto che i Legen Beltza mi ricordarono i Testament, ma ciò non significa che non avessero una loro personalità. Il retro-thrash transita obbligatoriamente per i nomi grossi degli anni Ottanta, che siano Metallica o Anthrax, le celebrità tedesche, il techno-thrash o lo speed metal. Per forza di cose, comporre e produrre un album thrash alla maniera degli anni Ottanta invocherà nomi più o meno comodi. Se questo non accade allora vuol dire che l’hai combinata grossa, o più difficilmente, che hai inventato qualcosa di nuovo.

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Quando ero pischello pranzavo con Italia Uno sul televisore e il programma Grand Prix a tutto volume. Nei servizi sul motociclismo c’era sempre questa musichetta basata su uno o due riff heavy metal, generalmente una banalizzazione dei pattern del Black Album sommata a un fastidiosissimo assolo occupante i due terzi della durata. Ogni speciale sulle moto aveva la sua musichetta, inedita ma generalmente uguale a tutte le altre. Rispecchiava l’idea che quello stronzo d’un compositore doveva avere dell’heavy metal: un branco di ignobili motociclisti intenti a invadere un supermercato per farsi divorare dagli zombi che lo popolano, e che, giusto un mese prima dell’Apocalisse, organizzavano motoraduni etilici per confrontarsi le marmitte. L’heavy metal ideato da quel genio visionario non passava per la pesantezza dei Pantera né per il purismo priestiano, ma per il farmaco generico contenente il medesimo principio attivo di Sad but True, seppur con il metronomo accelerato, i suoni sintetici in netto anticipo su Hatebreeder e una sezione solista che definirei oltraggiosa per le orecchie.

Non si sarebbe mai potuto banalizzare il thrash metal nella medesima maniera, almeno, non nel mio immaginario.

Penso che il thrash debba trasudare attitudine e sprigionare energia in ogni direzione. Se non c’è irruenza allora non sta funzionando. È facile prendere i riffoni del (fondamentale) Black Album e farne una merdaccia da televisione, identificando l’heavy metal in roba sì televisiva, ma sotto sotto sufficientemente potente da non essere catalogata altrimenti. Il thrash metal non lo potevi minimizzare alla stessa maniera, non sarebbe stato più lui.

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Il problema esce allo scoperto con nomi del calibro di Bonded by Blood e Suicidal Angels. Gente come questa è riuscita a far suonare il thrash metal in una maniera talmente “scarica” da non trasmettermi emozioni e nemmeno annoiarmi, perché non dispongono di sufficienti elementi – personali o derivativi – nei quali io riesca a identificarli. E allora, e qui entro nello specifico dei Warbringer, ecco che occorre il metal estremo pur di risaltare un elemento che sia uno: in Weapons of Tomorrow troviamo i blast-beat, l’introduzione in screaming a uno dei brani (non a caso uno dei migliori, Defiance of Fate) e talvolta un vago retrogusto di black metal, che, anziché causarvi svariate setticemie agli organi interni, come nel caso dei Dragonlord, vi desterà temporaneamente dal torpore.

 

Il thrash metal, pur girando alla larga da questi, ha un vitale bisogno di riferirsi ai maestri degli anni Ottanta se le sue nuove leve vorranno cavare qualche ragno dal buco: questa è la sensazione che sto consolidando, anno dopo anno, dopo essermi incuriosito e successivamente appassionato al retro-thrash dei giorni d’oggi. Altrimenti non funziona, non lascia il segno, perché se vuoi vivere di vecchia scuola non potrai mai azzerare tutto e pretendere dei risultati.

Nel caso i Warbringer siano già pane per i vostri denti, fiondatevi pure su Weapons of Tomorrow. È senza alcun dubbio il loro migliore album, l’unico che, al termine del primo ascolto, ho preteso di approfondire ancora come se mi fossi accorto che qualcosina in più, qua dentro, effettivamente c’era.

Caschiamo da tutt’altra parte con gli Havok, anche se il livello del loro nuovo full length, dall’insospettabile titolo V, è molto simile a quello dei Warbringer. Eppure mi pare che V sia svariati gradini sopra a Weapons of Tomorrow. E non ho dubbi che rimetterò su l’album degli Havok, se un giorno dovessi sceglierne uno.

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La differenza sta tutta nel concetto alla base dell’articolo: gli Havok avranno anche tutti i difetti del mondo, non sono dei mostri nello scrivere canzoni memorabili e hanno un cantante talmente fastidioso che potrebbe stare negli Arch Enemy. Eppure fanno dello stile, dell’attitudine e del relativo citazionismo un’arma nucleare. Perdono tempo dietro alle composizioni e le arrangiano con perizia, motivo per cui troverai sempre quei guizzi che ti faranno assaporare con piacere un qualcosa di non esattamente eclatante. Rifletteteci un attimo: quanto thrash metal americano degli anni Ottanta era esattamente così? Siamo impazziti per dischetti nella media che avevano soltanto il mood giusto, il cantante schizzato che ci ricordava i Vio-lence o le chitarre tecniche e in perfetta sintonia come solo dalle parti dei migliori Megadeth potevamo sentirne. Siamo impazziti per album privi d’una Leper Messiah, o d’una In my Darkest Hour, per registrazioni in cui niente valeva l’esatta metà di quei celeberrimi titoli. Eppure diventavamo matti: nel thrash metal il mood, lo stile, il “come”, contano più di molte altre cose. In certi casi più delle canzoni stesse.

Non pretendo che ogni gruppo spari fuori roba epocale, ma gli Havok hanno davvero pochi difetti strutturali, e come si suona il thrash metal l’hanno capito benissimo. Avranno una batteria un pelino troppo complessa e tecnica per gli standard del genere, quella voce annichilente e qualche album non esattamente indimenticabile come lo era stato Conformicide pochi anni fa. Ma ci sanno fare, hanno compreso come si ricrea uno stile vincente e gli stanno andando incontro. I Warbringer avrebbero pure più talento, sì, ma per quello che mi riguarda suonano un thrash metal talmente banalizzato, e privo d’attributi, che dopo quindici anni di carriera si può soltanto sperare vorranno spostarlo in territori più distanti possibile da quelli del retro-thrash. Altrimenti faranno la medesima fine dei Suicidal Angels, bravi interpreti, ma decisamente sterili. (Marco Belardi)

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Warbringer

Consigli musicali per Silvia Romano ora che si è convertita all’islam

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Avendo studiato e lavorato in certi ambiti, di convertiti all’islam ne ho conosciuti parecchi, fidatevi; e dei tipi più strambi. Essendo un ateo “non praticante”, non ho assolutamente nulla contro l’atto della conversione in sé; anzi credo che, se mai un giorno dovessi diventare improvvisamente religioso e credente, eleggerei proprio l’islam a mia religione, perché è indubbio che abbia una coerenza e una logica che mancano alle altre religioni rivelate.

Ma c’è una cosa che non ho mai capito delle persone che fanno questa scelta e che, alla fine, è anche ciò che mi ha sempre trattenuto dal farla e, salvo sconvolgimenti imprevedibili della vita (tipo un rapimento di 18 mesi), mi tratterrà dal farla anche in futuro. Mi riferisco al fatto che, quando una persona si converte, tende ad abbracciare la versione più ortodossa e bacchettona della sua nuova religione, in un modo intransigente in cui tendenzialmente non abbracciava neanche quella precedente. Perché di base con la tua religione/cultura di appartenenza, che fondamentalmente non hai scelto, ti prendi delle libertà che non ti permetti di avere con quella nuova, che invece hai scelto informandoti ed entrando in contatto solo con la versione ufficiale, senza arrivare a toccare con mano le mille sfaccettature che poi assume nella vita di tutti i giorni. Che senso ha convertirsi all’islam per poi non pregare cinque volte al giorno (prescrizione che pure non è rispettata da tutti i musulmani allo stesso modo)? A quel punto perché ti sei convertito/a? Neanche avere tutti i sacramenti e usare le bestemmie come intercalare manco fossi un toscano o un veneto ha senso ovviamente, ma ci si prende la libertà di farlo perché in molti casi non lo si è scelto consapevolmente.

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Ovviamente si sta generalizzando: sono sicuro che da qualche parte esisterà anche qualche toscano o qualche veneto che non bestemmia da più di dieci minuti. Ma permettetemi di fare un altro esempio pratico: in università conobbi un ragazzo convertito all’islam. Una volta ci trovammo entrambi ad una festa che quell’anno si teneva nel mese di Ramadan, durante il quale, come saprete, i musulmani devono digiunare dall’alba al tramonto. Lui quindi arrivò più tardi, quando il sole era già calato, e cominciò a mangiare. Dopodiché si avvicinò a me, prese la bottiglia di vino che avevo in mano, si versò un bicchiere che scolò immediatamente e disse: “Ah… dopo una giornata di digiuno, un bel bicchiere di vino!

Mi rendo conto solo adesso che a scriverla fa cacare e sembra una di quelle battute tristi da ingegneri che puoi capire solo se hai superato l’esame di meccanica quantistica, ma vi assicuro che è tutto accaduto realmente e all’epoca continuai a ridere per i tre giorni successivi. Spero comunque che abbiate colto il punto – di musulmani che bevono più o meno di nascosto ce ne sono a bizzeffe, ma che s’era convertito a fare quello?

Un altro esempio ancora, utile per semplificare: nonostante un dibattito teologico ed epistemologico molto florido che va avanti all’incirca dal IX secolo, il Corano viene considerato dall’ortodossia islamica come creato direttamente da Dio e diffuso all’umanità attraverso la bocca del profeta Maometto. E tutto ciò che Dio dice, va da sé, non può essere falso. Ora, nel Corano trovano spazio anche i cosidetti djinn, spiriti spesso malvagi tipici della cultura mediorientale che interferiscono con gli umani e le loro vite. Da questi esseri nasce la figura del genio della lampada, resa famosa dall’Aladdin della Disney, ma i più attenti di voi avranno sicuramente riconosciuto il titolo di un album dei Melechesh. Io credo in Ashmedi e nei Melechesh, ma se mi convertissi dovrei costringermi a credere anche nei djinn/geni? Ad ogni modo queste sono riflessioni personali, e se Silvia si sia convertita perché costretta e affetta da sindrome di Stoccolma o perché veramente convinta a me non interessa. E non dovrebbe interessare neanche voi, tranne in tre casi: 1) se siete Silvia Romano stessa, 2) se siete sua madre o suo padre e 3) se siete il/la suo/a psicologo/a. Quindi, cara Silvia, per questo motivo qui mi limiterò a consigliarti qualche gruppo arabo metal e non solo, per poter apprezzare meglio insieme la controcultura di una cultura che ci ha affascinato entrambi e che non trovi sui libri, tantomeno se sacri.

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Dei tunisini Myrath ho già scritto a più riprese, quindi ti rimanderei semplicemente a quelle recensioni – mentre i loro connazionali Ymyrgar li lascerei proprio perdere. Se, giustamente, cercassi qualcosa di meno macchiettistico e più autentico ti consiglierei invece gli egiziani Sand Aura, che propongono una sorta di progressive death metal con inserti di musica folk araba. Il loro unico album Elegy of the Orient comincia ad essere un po’ datato, ma è comprensibile dato che era uscito in un anno (2012) in cui il popolo egiziano aveva finalmente respirato un po’ di libertà che si è purtroppo dimostrata di breve durata a causa della restaurazione del potere dei militari. Sempre in Egitto trovi i Nathyr, che nel loro unico album As the Legacy Unveils del 2015 propongono un death metal più canonico e semplice. Nulla di particolare, ma interessante per puri fini enciclopedici. E onore al coraggio, considerando che vengono da Alessandria: nel passato città cosmopolita per eccellenza che diede i natali ad Ungaretti e ad una pletora di artisti internazionali, ora covo di salafiti (Silvia, stai lontana dai salafiti, fidati). Per altri consigli sulla valle del Nilo ti rimando alla recensione di The Order of Amenti dei Crescent scritta da Ciccio, che gli egiziani ce li ha in casa – io invece non ti nascondo che provo più simpatia per i magrebini.

Anche la Giordania ha una bella scena, soprattutto rock, dalla quale ti consiglierei di andare ad ascoltare gli Albaitil Ashwai e gli El Morabba3. Ma visto che questo blog si chiama Metal Skunk e non Rock Skunk, ti direi di provare con i Bilocate, che suonano una sorta di death metal melodico con influenze gothic. L’unica eccezione a generi esterni al metal la facciamo per la Palestina, da dove vengono i Khalas (“basta!” in arabo), di cui si sono un po’ perse le tracce purtroppo. Comunque, il loro vivace rock misto a folk dovrebbe piacere un po’ a chiunque. L’hip hop qua ha davvero spopolato ed esisterebbero un sacco di artisti da citare, con i quali purtroppo però ci sarebbe uno scoglio linguistico non indifferente. L’elettronica invece è un linguaggio più universale, scollegato nella maggior parte dei casi dalle liriche, perciò ti rimanderei a Electrosteen, una raccolta di vari artisti palestinesi pubblicata dalla Mostakell Records, etichetta indipendente egiziana che regala piccole perle come i due gruppi rock giordani di cui sopra. Per rimanere nell’area ti farei provare ad ascoltare anche i Netherion, gruppo death metal di Damasco che stilisticamente si ispira chiaramente ai Morbid Angel, e i Damaar, combo war metal di Beirut tra i più irriverenti.

Non ti sorprenderà sapere infine che i gruppi più blasfemi li puoi trovare nei bacchettoni Stati del golfo persico (arabo?). Negli Emirati arabi uniti spopola il death metal con Nervecell e Perversion. In Arabia Saudita e in Bahrein invece va di più il black metal. Nel primo Paese trovi gli al-Namrood, che hanno fatto un po’ di scalpore perché ovviamente non possono rivelare la loro vera identità, altrimenti rischierebbero pene indicibili. Da Kitab al-awthan del 2012 il gruppo ha pubblicato altri quattro album dalla qualità sorprendentemente costante (e, come hai potuto notare, la costanza, per evidenti motivi storici e politici, non è all’ordine del giorno). L’ultimo album, Enkar, pubblicato nel 2017 è un piccolo gioiello, ma purtroppo su queste pagine ce lo siamo lasciato scappare. Sembra pubblicheranno un altro album quest’anno: resta connessa che sicuramente ne scriveremo. Nel secondo Paese puoi invece trovare i Dhul-Qarnayn, termine che si trova nel Corano che in arabo significa letteralmente “quello dalle due corna” e che stranamente non si riferisce a Satana ma ad Alessandro Magno. Ma non ti preoccupare, per mantenere alta la dose di blasfemia sono entrambi pubblicati dalla Shaytan Productions. E Shaytan, sì, è la parola araba per Satana. (Edoardo Giardina)

Il mio odio e soprattutto amore per l’heavy metal da classifica

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Ogni volta che Traversa accende il computer e si mette a digitare, finisco per apprendere nuove cose sui lati oscuri del metallo contemporaneo, ossia su tutto ciò che corrisponde all’esatto contrario della mia idea di heavy metal.  Meticolosamente lui studia e analizza questo genere di aberrazioni e le riporta alla luce, pur essendo nefandezze che meriterebbero di rimaner celate in profondità, per proteggerci.

Oggi ero in cucina, avevo appena terminato le mie penne al sugo di trombette da morto e stavo riflettendo su quale album dei Manowar rimettere su. Pensieri del genere mi portano sempre nel solito vicolo cieco: preferisco i primi quattro, ma puntualmente riascolto i quattro che li seguirono. Agli esordi erano ispirati e perlopiù indirizzati a un pubblico settoriale, e quel che trasudava dall’ignobile copertina di Into Glory Ride era degno di trovare un riscontro in musica. Non sono mai andato pazzo per quel gruppo, ma se dici una cosa del genere e poi ne conosci a menadito una trentina di canzoni vuol dire che sei automaticamente in torto. Merito della ruffianeria: l’ingrediente che nell’heavy metal è sempre stato presente e che noi metallari abbiamo silenziosamente preteso, senza mai ammetterlo apertamente.

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I Manowar di Fighting the World e della discografia che ne fuoriuscì erano tamarri, spregiudicati e autentici cecchini della canzone. Li ho presi per il culo per una vita, eppure sono andato a vederli due volte senza riuscire a staccare occhi e orecchie dal palco per un solo minuto. Vivevano l’heavy metal in parallelo alla brutalizzazione del medesimo per mezzo di MTV, con i mostri sacri del mainstream che ostentavano tutta la loro predisposizione – reale o presunta – verso il cosiddetto “salto”. Per un Alice Cooper che azzeccava Constrictor, un Ozzy Osbourne metteva in fila due album costituiti da altrettanti ottimi singoli e niente di più, con Diary of a Madman che sembrava un lontano ricordo. Erano gli anni dei capelli cotonati, dei synth e dei videoclip in posa, gli anni della poca sostanza in cui ai Manowar non servì ricorrere a tutto questo battage mediatico. Eppure, esattamente come gli altri, anche loro avevano fatto un evidente passo indietro rispetto a Sign of the Hammer, il quale, non dimentichiamolo, segnò la loro definitiva consacrazione a livello mondiale. Ai Manowar voglio sostanzialmente bene, ne ascolto un album ogni tre anni e non attendo impaziente il prossimo disco, l’ennesimo concerto o uno di quei comizi alla Beppe Grillo in cui Joey racconta cose e Bargone non solo ascolta, ci fa pure il report: le puttanate più insostenibili dei Manowar non risalgono agli anni della loro ampia commercializzazione, in cui un album era seguito da tour lunghi due o tre anni. Risalgono ai tempi morti emersi da Louder Than Hell in poi, quei tempi in cui Joey, l’imprenditore, tra un disco e l’altro, ebbe il modo di pensare a cosa altro fare.

In un periodo a cavallo tra 1997 e 1998 ero parte di una congrega di matti fissati con Ultima Online e qualche gioco di ruolo da tavolo, e non riuscivo a far piacere niente agli altri. Gli Anthrax carini, ma giusto un paio di canzoni, i Megadeth belle chitarre, gli Slayer madonna che casino. I Metallica, tuttavia, erano dei venduti pure per loro che non conoscevano neanche Whiplash, e, se avessero sconfinato nel death metal avrebbero di sicuro chiamato un prete per disinfestare l’appartamento. Le loro esigenze erano le stesse del metallaro a cui si rivolge la musica narrata dal Traversa: divertimento, fare da sottofondo a qualunque cosa tu stia facendo e non più fungere da credo, stato mentale o scarica adrenalinica. Ecco che andarono matti per i Finntroll delle prime pubblicazioni: quella roba arrivava precisa per loro, col suo dilagante carico di ruffianeria.

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maggio

Trombette da morto – Ph: Marco Belardi

In rigetto ai Finntroll, ho sempre ritenuto l’heavy metal un qualcosa che non può prescindere completamente dalla cattiveria e dall’aggressività, e che ha il dovere d’incarnare in maniera non strettamente giovanile un profondo senso di opposizione. L’heavy metal è quella cosa che misi in cuffia ai vicini d’appartamento a Pinarella di Cervia, più o meno fanatici di Innuendo, suscitando in loro naturale ribrezzo. Di cosa parlerà mai questa roba? Non gli leggevo in faccia altro, e avevano perfettamente centrato il punto: non fa per voi, fa per me e non ho il minimo interesse che un giorno possa fare per voi. Un’altra risposta non era teorizzabile. Nel diventare celebre, l’heavy metal ha sistematicamente sputtanato tutti questi meccanismi, obbligando sé stesso a rivolgersi anche a loro, ai fan di Innuendo, nuovi potenziali clienti di un mondo che stava lievitando già da un decennio. Ecco quindi che la gente degli anni Ottanta si reinventò, cacciando fuori i giri di basso e la batteria minimale di supporto ai Judas Priest di Turbo, o agli Accept, che già in Balls to the Wall mi parevano un’altra cosa, e che in Eat the Heat, pur rimanendo di base gli Accept, con un singolo come Generation Clash si resero quasi irritanti. Eppure i Manowar avevano soltanto aggiunto un punto esclamativo alla ricetta base: i più fricchettoni di tutti, una volta premuto play, diventavano i meno fricchettoni di tutti a un solo televisore di distanza dai frequentatori fissi dei palinsesti americani: erano il gruppo americano con la mentalità più europea che potessimo immaginare. Forse è per quello che ce li ho dentro, nonostante ritornino un bersaglio facile a ogni visione di quella copertina, Into Glory Ride, con addosso tutta quella roba che si vergognerebbero di vendere persino da Primark.

Una volta infiltrato all’interno della summenzionata compagnia di disgraziati supporter del peggior power metal europeo, sdoganai con furore gli Helloween. Me li ero appena visti dal vivo, Better than Raw era un album pazzesco e tutti loro mi diedero ragione finendo per comprarlo. Al contrario non avevo mai sponsorizzato niente dei Manowar perché già li ascoltavano ventitré ore al giorno, con l’eccezione che pareva avessero inciso solo Kings of Metal. L’unico di loro che aveva una ragazza la faceva puntualmente incazzare con Pleasure Slave. La mia azione di consigliere sugli Helloween mi portò a pronunciare le parole che attualmente, più di tutte le altre da quando ho iniziato a avere a che fare con l’heavy metal, non so se rimangiarmi o meno. Mi chiesero quale fosse il loro album migliore, e io non esitai: Keeper of the Seven Keys part II.

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helloweenkeeperera

Gli Helloween non sono i Manowar, eppure il discorso è in un certo senso intercambiabile. I miei Helloween sono quelli di Walls of Jericho, Better than Raw, Time of the Oath: non necessariamente i primi, ma nemmeno quelli di Kiske. Quando consigliai Keeper II non lo sapevo, ma in loro presenza lo avrei riascoltato a oltranza, per intere settimane. Fino alla cosiddetta saturazione. Un titolo che prescindeva dalla cattiveria e dall’aggressività, e che non si opponeva a un cazzo di niente: ai credenti, al capitalismo, all’ipocrisia e nemmeno alla società in senso generico. Keeper II era gente contenta con lo sguardo rivolto al cielo, presa dal canto corale e in attesa d’essere annaffiata da una nuvola carica d’acqua santa (e doppi sensi) spedita in loco dal Cristo redentore, mentre Glen Benton, costretto in una gabbia, sbraitava, imprecava e si rompeva le costole urtando l’acciaio delle sbarre, non potendo porre alcun rimedio all’orrendo scenario che gli si stava manifestando davanti. Keeper era ed è tutto quello che non ho mai voluto nell’heavy metal, neanche da lontano, e il profondo fastidio che il ritornello di Dr. Stein riesce a procurarmi viene sormontato solo dal clima parrocchiale che regna in Rise and Fall. Ma ci rifletto sempre, come con i Manowar, più che con i Manowar.

Eppure, che cosa ho risposto quando mi hanno chiesto un consiglio musicale? Ho risposto Walls of Jericho, e cioè un album che non si sarebbero cacati neanche di striscio? Ho risposto Time of the Oath? No, ho detto loro la verità. Ho abbracciato il fastidio estremo del secondo Keeper, il disco più bello degli Helloween. Conosco o non conosco a menadito Eagle Fly Free, il suo testo, ogni singolo passaggio che la compone? Certo che sì, e allora cattiveria e aggressività di cosa? Black Album un cazzo. La ruffianeria aveva già vinto nel 1988, tempi non sospetti in cui roba neppure destinata a regnare sul grande schermo venne creata, plasmata, ripensata per rendere appetibile, talvolta in maniera estremizzata e indigesta, il nostro genere musicale preferito. Oggi il fattore mediatico è stato in tutto e per tutto sostituito dal narcisismo, ed eccovi servita la roba di cui scrive Traversa.

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Apro YouTube, nello specifico un videoclip dei Jinjer: trentasei milioni di visualizzazioni, più una, la mia. Un baule di metalcore, un pochino di djent negli arrangiamenti, un pubblico talmente vasto che t’immagini sotterranei pieni di bambini ucraini, legati e imbavagliati davanti a sudicie postazioni pc, obbligati a fare selvaggiamente click su quei video, cambiando IP ad ogni minuto grazie all’ausilio di sofisticate applicazioni fornite dalla Napalm. La città cinese di Chongqing vanta trentasei milioni di abitanti, e non riesco a teorizzare come un numero simile di persone abbia voluto aprire, in pochi anni, un video dei Jinjer senza che sia avvenuta la totale privazione del libero arbitrio.

L’heavy metal è da sempre predisposto all’appeal mainstream, devi solo saper abbinare le due cose e proprio per questo non può essere il caso dei Jinjer. Gli Accept di Eat the Heat finirono per prendersi a pugni in faccia perché non avrebbero dovuto sconfinare oltre Udo, e la loro ricetta priestiana per un pubblico che si ciba di crauti. Ozzy Osbourne dovette attendere Zakk Wylde per ritrovare la strada giusta, quella di singoloni come No More Tears. Ma il successo dei Jinjer e mio fallimento nell’ascoltare questi ultimi prescinde dalle problematiche di quegli anni.

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Che cosa si sia interrotto nella lunga catena che per anni ha fatto funzionare l’heavy metal come entità commerciale, dai Type 0 Negative di Black no. 1 ai Sentenced di quel capolavoro dell’easy listening che fu Crimson, fa parte di un argomento molto più ampio. Ma forse la cattiveria, l’aggressività, l’epicità, il forte sentimento che hanno mosso questo genere musicale per intere decadi, al momento di mutare pelle sono rimaste – come caratteristiche e peculiarità – ben insite all’interno degli artisti che crebbero in quegli anni, ed oggi le abbiamo gradualmente sostituite con la ricerca scrupolosa del rumore misto a pulizia sonora, del make-up cattivo abbinato all’esaltazione della bellezza, e con una serie di contraddizioni ben peggiori dell’heavy metal sorridente che mi fece amare ma un po’ odiare un album capace di insegnarti a mente March of Time o I Want Out, senza che fra le due canzoni ci fosse un solo attimo per rifiatare. (Marco Belardi)

Career suicide (is not real suicide): un’ode a Tuomas Holopainen

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Ora innalzeremo i nostri boccali a Tuomas Holopainen, perché Tuomas Holopainen è uno di noi. Non perché il nuovo Nightwish sia un disco della madonna, ovviamente, dato che è tutt’al più definibile come la classica cacatina di mosca: a rifletterci troppo su ti fa anche ribrezzo, ma non c’è modo che tu ti accorga della sua presenza. No, Tuomas Holopainen è uno di noi perché è uno che insegue la sua passione e i suoi sogni a testa bassa, con ostentazione suicida, running through life with blindfolds just for the right to be wrong. Uno che, in termini di vendite e notorietà trasversale, poteva far diventare il suo gruppo l’unico vero erede dei vari idoli degli anni Ottanta che stanno avviandosi sempre più rapidamente verso la pensione e la morte. Arrivato ad un certo punto era un obiettivo facilissimo. Quel punto era il 2004, con l’uscita di Once, la vetta della loro notorietà: Dark Chest of Wonders, Wish I Had an Angel, Nemo, Romanticide, Ghost Love Score, tuttora i maggiori cavalli di battaglia dei Nightwish e potentissimi metodi di rimorchio nei confronti di una fetta decisamente alta di pubblico metal femminile. In quel momento Tuomas Holopainen aveva raggiunto tutto ciò che poteva desiderare, come musicista. Nominatemi un gruppo metal continentale che negli anni Duemila aveva il successo dei Nightwish. E un successo trasversale, attenzione. Oltre a esibirsi in arene decisamente grandi per un gruppo di quel genere, erano uno dei più colossali gruppi di ingresso mai esistiti nella storia del metal, molto più dei connazionali Children of Bodom, che per qualche tempo hanno incarnato la definizione stessa di gruppo di ingresso. Aveva tutto, Tuomas Holopainen. A tal punto che, nonostante tutto quello che ha razionalmente sbagliato dopo Once (spoiler: qualsiasi cosa), continua a riempire qualsiasi arena o palazzetto in cinque minuti netti.

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I miei Nightwish sono quelli dei primi tre album. Adoro Wishmaster, che questo mese fa vent’anni, e ho un sacco di bei ricordi legati a quel disco. Oceanborn è fantastico, e del primo parlai qui. Già Century Child non riuscii mai ad ascoltarlo per intero, e proprio con Once decisi di metterci una pietra sopra e azzerare qualsiasi futura aspettativa. Lo dico per dovere di cronaca, non è questo il punto e giustamente non frega un cazzo a nessuno. Quello che importa è che il successo assurdo, planetario dei Nightwish li ha resi uno dei gruppi più influenti della storia del metal, in assoluto. Direte: ma hanno influenzato solo gruppi di merda. Certo, ma li hanno influenzati. E ne hanno influenzati a centinaia, migliaia, a un livello talmente profondo che la maggior parte di questi manco se ne rende conto. Tutto il symphonic metal degli anni Duemila, quella roba ributtante tra Epica, Within Temptation e porcherie simili, fino ad arrivare al power metal sinfonico in stile Sabaton e a tutta quella sentina degli orrori che costituisce il serbatoio per il Sanremetal di Traversa. Ragazzi, io spesso cazzeggio per Youtube per suggerire gruppi a Traversa, e non avete idea di quanta merda di quel genere c’è. Credetemi: non avete idea. Voi siete brave persone, ascoltate la musica decente, e se leggete Metal Skunk di sicuro non prendete sul serio neanche per un instante quella monnezza. Ma ce n’è a bizzeffe, di gruppi del genere. E senza i Nightwish questa roba semplicemente non esisterebbe. 

Sia chiaro che i Nightwish sono infinitamente meglio di tutti i suddetti gruppi messi insieme, ci mancherebbe. Per una lunga serie di ragioni, tra cui il fatto che i Nightwish avevano Tarja Turunen e gli altri no. Tuomas Holopainen si è preso un cazzo di soprano a cantare, e mica un soprano qualsiasi: una tizia con una voce irriproducibile, drammatica, come un macigno da una tonnellata che ti faceva pensare ma questa che cazzo di voce ha? E non in senso positivo o negativo, eh, senza giudizi di valore: pensavi semplicemente ma che cazzo di voce è questa? Ma sul serio stanno facendo? E l’ha messa a cantare quei dischi bellissimi power metal di inizio carriera, e poi con la svolta sinfonica ne ha valorizzato tutti gli aspetti solenni e sublimi, mettendola al servizio di robe come Deep Silent Complete che, qualsiasi cosa uno possa pensarne, comunque ascoltandola dici sta roba non potrebbe farla nessun altro, e non potrebbe cantarla nessun’altra.

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La cima dell’Everest. A quel punto Tuomas Holopainen avrebbe potuto fare quello che avrebbe fatto il 99% della popolazione mondiale, e cioè guardare giù, sbottonarsi i pantaloni e pisciare sulla testa di tutti quelli che stavano sotto. A questo punto però accade l’imponderabile. Tarja va via, pensa che se sono sulla vetta del mondo è merito suo, e molla il gruppo per cantare canzoncine di Natale e diventare una triste celebrità nazionalpopolare finlandese, e sparisce dalle scene. L’esistenza di Tarja Turunen, quella che poteva essere la diva suprema del metal dei successivi decenni, finisce in quel momento. Tuomas Holopainen allora che fa? Prende la cantante più insipida, svociata, senza nerbo, carisma e personalità che riesce a trovare. Tale Anette Olzon, fino a quel momento sconosciuta al di fuori del suo condominio. Tira fuori due dischetti di canzoncine stupidine che non hanno nulla della maestosa grandeur di Once, a stento tirando fuori un paio di singoli canticchiabili. Una scelta incomprensibile, e neanche minimamente paragonabile a quella fatta da Steve Harris con Blaze Bayley; perché Blaze era un gran cantante, con una storia dignitosa dietro e che avrebbe fatto dei dischi dignitosi anche dopo: il suo problema era che era inadatto ai Maiden, come del resto la grandissima parte dei cantanti del mondo. Annette Olzon no: non era proprio buona a fare un cazzo. La tipa è talmente fuori contesto che smettono di suonare Ghost Love Score dal vivo. Qualche volta però ci provano, e vi invito a controllare il risultato dai video su Youtube. Passa qualche anno, la gente continua ad affollare i concerti dei Nightwish perché sì, la tipa ingrassa, i fan continuano imperterriti a richiedere Ghost Love Score e a un certo punto Annette viene cacciata via in malo modo. Era inevitabile. Non puoi tirare troppo la corda. A questo punto Tuomas Holopainen dice senti, vaffanculo. Qual è la cantante migliore sulla piazza? Prendiamo quella: chiunque verrebbe a piedi scalzi sui cocci di vetro a cantare nei Nightwish, chiamo chi mi pare a me. E prende Floor Jansen, fisicamente un incrocio tra Brigitte Nielsen e Brock Lesnar ma con una voce della madonna capace di cantare qualsiasi cosa, persino i pezzi di Tarja Turunen in maniera più che dignitosa. Certo, non è Tarja. Nessuno lo è. Ma la valchiria col nome da detersivo per pavimenti sinceramente spacca, ed è forse la cantante migliore sul mercato. Il risultato è questo:

Prima ho detto che la vetta dei Nightwish fu Once. Forse la vera vetta fu questo monumentale concerto al Wacken, durante il tour di presentazione di Floor Jansen. Il sentimento comune è uno solo: i Nightwish sono tornati, e si riprenderanno tutto. Un concerto del genere era simbolico: sul palco grande del Wacken, il sancta sanctorum del metal continentale, tra fuoco e fiamme, davanti a ottantamila persone, con questa spuntata fuori da quel gruppo del cazzo a nome After Forever che non sbaglia una nota e si prende il palco da sola stando ferma, con quella presenza fisica da lottatrice di wrestling, e loro che rifanno mezzo Once e tutti i pezzi più amati dal pubblico. Cosa poteva andare storto? La gente è prevedibile, quindi anche Tuomas Holopainen sarà prevedibile allo stesso modo, no? Ora inizierà a fare dischi in serie, operatici e bombastici come tutti si aspettano da lui, e questi diventeranno gli Iron Maiden degli anni Dieci, degli anni Venti e chissà, se non schiattano prima pure dei Trenta.

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E invece no. I passi successivi di Tuomas Holopainen sono, nell’ordine: l’ingresso nel gruppo di un tizio inglese che suona gli zufoli coi piedi; il disco solista incentrato su un concept su Zio Paperone; una roba a nome Endless Forms Most Beautiful, in cui Floor Jansen viene mortificata a cantare canzoncine gnegnegnè manco fosse Annette Olzon, appunto; e ora questo Human. :||: Nature., dischetto cretino dal nome ancor più cretino che sembra una colonna sonora in cui non si sente la chitarra, non si sente il basso, a stento si sente la batteria e soprattutto è concentrato sulla parte orchestrale relegando Floor Jansen quasi ad un angolino. Non è potente, non è bombastico, non è operatico, non è melodrammatico, non è romantico, non è niente di tutto ciò che ha reso i Nightwish la macchina da soldi che ha raggiunto la sua apoteosi in quel concerto del 2013 al Wacken. Ha pure un titolo che sembra fatto apposta per non essere scritto, come a rendere difficile pure la scrittura, oltre che l’ascolto.

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Il concetto, amici del vero metal, è che a Tuomas Holopainen quella roba non piace più. Una volta lessi una definizione perfetta dei Nightwish: è come essere cullati in un letto di marshmallows sotto uno stormo di cigni che volano verso la luna piena. Quindi che non gli piaccia più è perfettamente comprensibile, visto che è maggiorenne nonché di sesso maschile. La cosa strana è che non si presti più a comporla, e che neanche ci si sforzi. A lui piacciono le colonne sonore, e vaffanculo lui compone le colonne sonore. Ad altri la fama, ad altri la rogna di comporre dischi per il solo gusto di compiacere i fan: lui fa quello che gli pare a lui, che sia il concept su Zio Paperone, il sodalizio artistico con lo zufolatore o i dischi del cazzo come Human blabla Nature. Crepassero tutti, crepasse il mondo, a me mi piacciono le colonne sonore e scrivo quel cazzo che pare a me, e lo zufolatore coi piedi lo faccio pure cantare perché a me piace così, e se non ti piace fatti il gruppo tuo. Che dire se non HAIL TUOMAS HOLOPAINEN. Metal Skunk ti sostiene pienamente e ti considera un vero modello ideale per i giovani dei nostri tempi, tutti infrociti come sono, coglionazzi dalla testa ai piedi che riescono ad ascoltare cose persino peggiori dei Nightwish, ed è complicato, mannaggia a chi vi è stramorti. Non è da tutti rinunciare alla fama mondiale, quella vera, per inseguire la propria passione; e non fa niente se la propria passione produce porcherie, non è questo il punto. Il punto è la dignità, il punto è rendere felice il sé stesso sedicenne, quello che davvero ardeva di passione e diceva voglio arrivare al punto di permettermi quello che mi pare a me, e della gente non me ne frega niente, perché la gente mi fa schifo. E allora niente più arcobaleni di marshmallows color rosa confetto, niente più stormi di cigni che cantano languidi amori di ninfe diafane sulla riva di leggiadri ruscelli, niente più unicorni al galoppo con i crini argentei che brillano al chiaro di luna. A lui piacciono le colonne sonore e continuerà a suonarle finché non gli garberà: saranno sempre meno ad ascoltarle e saranno ancora meno quelli in grado di scriverne il titolo correttamente, ma sai quanto gliene frega a lui. Kiss my ass if you don’t like me, I don’t care. Tuomas, qui a Metal Skunk magari ci faremmo sparare in un ginocchio piuttosto che ascoltare i tuoi fantastici dischi, ma ti rispettiamo come raramente abbiamo rispettato qualcuno. Tu sei l’orgoglio del te stesso sedicenne e fai ciò che tutti noi avremmo voluto fare, ma che forse non avremmo avuto il coraggio di fare. Sei infinitamente più metal tu di tutti quei gruppi che poi il metal lo suonano per davvero. Per noi quella cima dell’Everest non l’hai mai lasciata, è lì ti stagli maestoso sopra tutti quegli indegni esserucoli che schifano la tua musica e nel contempo venderebbero la propria madre per avere un decimo della fama che tu disprezzi. Persta, Tuomas, in ista ratione propositi. (barg)

Niente gingilli, niente bischerate, qui si assegna la COPPA LIBERTADORES

Mentre assumete investigatori privati per rivelare al mondo chi si occupa degli accoppiamenti nei mondiali del metallo, portando i Metallica più radiofonici a vedersela con i Mortician, ritornerò sulla scena estrema sudamericana di cui già scrissi a febbraio, concentrandomi, nell’occasione, sul solo Brasile.

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Overdose

E ripartirò proprio dal paese di Belo Horizonte e Manaus, o meglio, della Cogumelo records, avendo omesso i buoni Overdose pur di non dilungarmi troppo. Come i Dorsal Atlantica, anche loro tentarono la via del thrash ritmato intorno a metà anni Novanta e indovinate il risultato: si sciolsero. Le migliori cose degli Overdose uscirono in concomitanza con gli ultimi anni Ottanta, periodo in cui tutti, proprio tutti, erano occupati a prendersela con il Cristo, istigati da I.N.R.I. e dagli altri classici contemporanei. I nostri ricalcavano uno stile decisamente americano, non distante dal power/speed dell’epoca e caratterizzato da interessanti assoli di chitarra, un ottimo basso ed un gusto melodico per nulla trascurabile. Col seguente Addicted to Reality abbracciarono in tutto e per tutto le tematiche sociali tipiche di chi pagava Ed Repka (o suoi emuli) per la copertina, virando dalle parti del thrash metal e perdendo gran parte dei connotati per cui furono “celebrati”: partirei dunque dal secondo You’re Really Big!, certamente il più rappresentativo della prima fase. Occhio anche alle prime copertine, e in particolar modo saprete dirmi perché dopo aver dato un’occhiata a quella di …Conscience…

Ci spostiamo in Messico sfruttando per tramite il power/speed, tanto che suggerirò a Timo Tolkki di ripassare gli storici, caratteristici e folkloristici messicani Luzbel, al fine di potersi ambientare in modo più credibile e non a fini esclusivamente donnaioli. Per quanto abbia dei limiti personali nell’accettare il metal cantato in spagnolo, e credo che non li supererò mai, devo riconoscere a quest’album di debutto una rilevante importanza: per qualche motivo Pasaporte al Infierno uscì su Warner Bros. E, sempre per qualche motivo, suonava sufficientemente maturo da non sembrare affatto un album di debutto; facile quando si entra in studio di registrazione con un simile colosso alle spalle, meno facile entrando in merito ad arrangiamenti e personalità: Hijos del Metal il brano che in assoluto preferisco, con un basso pulsante a dettarne l’incidere e un finale semplicemente da urlo. In seguito allo scioglimento, il frontman Arturo Huizar proseguì con il moniker Lvzbel, mentre altri di loro, anni dopo, si sarebbero tenuti la vocale: ma queste sono storie che noi europei conosciamo fin troppo bene per dibatterne ulteriormente.

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L’ultima formazione dei messicani Luzbel

In Argentina crebbero perlopiù band di culto, incapaci, ahimé, di spingersi oltre le primissime pubblicazioni non ufficiali. Qualcuno superava lo scoglio ma lo faceva completamente fuori tempo massimo, come gli Abaxial, un quartetto sotto shock anafilattico da …and Justice for all che nel 1994 produsse il suo unico album, Samsara, riprendendone la voce di James Hetfield, le chitarre compresse e la batteria secca e sovrastante. Peccato fossero trascorsi sei anni, e che di quel genere di thrash metal non importasse più a nessuno. Se devo consigliarvi un gruppo argentino interessante allora vi dico di ascoltare i Depredador. Anch’essi formatisi a tempo ormai scaduto, ovvero sul finire degli Ottanta, per poi debuttare nella seconda metà del decennio successivo con Suplicando Furia, un titolo che era di per sé una ficata assoluta e che venne riservato a un album sì sconosciuto ai più, ma anche dotato di un tiro pazzesco. Di base era strutturato sui riff dei Sepultura di Chaos A.D., anche se meno cupi e con una maggiore tendenza all’accelerazione. Non molti giorni fa mi sono riascoltato i nostrani In.Si.Dia, che sono un ottimo termine di paragone per stile, velocità ed atmosfere, eliminando però la spigolosità tipica delle chitarre del gruppo di Guarda Dentro Te.

Passiamo ora a qualcosa di decisamente più estremo. Nel periodo in cui mi fracassavo letteralmente le orecchie con i Sarcofago, spulciando ogni paese sudamericano alla ricerca di qualcosa di vagamente simile, mi imbattei in due gruppi cileni. I primi erano i Dorso e ne ho già scritto all’interno della dimenticata rubrica Le delizie dello scantinato, ma in quel momento cercavo qualcosa di sfacciatamente estremo, piuttosto che all’avanguardia. Giunsero in mio aiuto i Death Yell, autori di uno split con i Beherit e di una ghiotta demo tape che, nel 1989, aveva portato alla luce del materiale tanto estremo da sembrare inconcepibile. Erano gli anni in cui chiunque spediva la sua roba in Norvegia per capire se Euronymous se la sarebbe filata, sdoganandola presso il continente più prestigioso a cui il metal estremo potesse ambire: i Death Yell presero parte di quel carrozzone giusto il tempo d’una firma su una compilation, uscita però su Turbo music e intitolata Triumph of Death, in compagnia di formazioni che un giorno chiunque avrebbe conosciuto come Samael e Carcass. Ma dovete partire dalla demo Vengeance from Darkness del 1989: la loro magia risiede tutta lì e non c’è band con un minimo di esperienza o lezioni teoriche e tecniche alle spalle che possa essere in grado di riproporre un qualcosa di così primordiale.

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Death Yell

La Colombia è un incredibile corollario di band estreme, a partire più o meno dal Duemila. In particolar modo suonano tutti thrash e black metal, la cui fusione genera facilmente il war metal con un impegno minore rispetto a quello che dedicheremmo a mischiare latte e caffè per ottenerne un cappuccino decente. Ma devo impegnarmi per ricordarmi d’un gruppo colombiano che abbia ascoltato più di una volta. Rimanendo in territori decisamente estremi mi vengono in mente i Witchtrap, che conobbi in seguito a un poco chiacchierato split con i Nunslaughter. Si parla dunque di metà del decennio scorso, ma i Witchtrap, sì, pure loro, risultano attivi fin dai primi anni Novanta. Potrei consigliarvi sia Sorceress Bitch che Vengeance is my Name, due prodotti piuttosto recenti di una formazione statisticamente storica: il secondo è maggiormente quadrato, a fuoco, ma la sensazione che pervade entrambi è che i colombiani abbiano ascoltato e riascoltato i Kreator delle prime annate, diciamo fino allo sfinimento. Nel caso doveste trovarli eccessivamente melodici per i vostri standard, potrebbe essere una valida idea quella di virare sugli storici Parabellum: coloro che reputano Schizophrenia un album dominato da un fastidioso fruscio di sottofondo si ricrederanno all’istante, dopo essere transitati per quell’EP, intitolato Sacrilegio, dalla durata concentrata in un misero quarto d’ora.

Concludo con il Perù, e con esso ritorno al thrash metal. Parto con i Necropsya, una band attiva da una vita e che, come molte altre descritte in quest’articolo, è riuscita a debuttare solo di recente: memorizzate questo dettaglio ricorrente perché lo approfondirò tra pochissimo, e non è affatto un caso se l’ho scritto di volta in volta. Il loro album che mi convince maggiormente è Made With Evil, poiché qui gli strumenti sono meglio integrati fra di loro: il precedente Devastated by Time ha una batteria in un certo senso sovrastante, che massacra l’ottimo lavoro in fase di composizione dei riff e gli arrangiamenti di chitarra. Lo screaming del cantante, Gustavo Bermudez, è un altro elemento discutibile e che con il tempo è andato pian piano assestandosi. Bravini insomma, e soprattutto in fase costantemente crescente. Aggiungo in conclusione i Mudra, nati negli anni Novanta centrali e da sempre a confronto con il loro riuscito e intenso album di debutto, datato 2002, il cui nome è Habitos de Guerra. Se vi appassiona Point Blank dei Nailbomb allora avete trovato il gruppo giusto con cui trascorrere la fase tre, ignari della folla che si riversa per strada per ricordarsi com’era il gelato artigianale, o cose simili. Il problema viene allo scoperto con la discografia seguente, troppo nei ranghi produttivi tipici degli anni recenti, e di conseguenza un po’ priva d’anima o meglio di contatto “reale” con lo strumento.

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Mudra

Perché queste formazioni mi appassionano così tanto? È semplice, perché non avevano niente, almeno nella stramaggioranza dei casi. Molti dei paesi elencati hanno tenuto i loro cittadini sotto dittatura o simili forme governative fino agli anni della modernità, mentre città come Medellin si fregiavano dell’appellativo di aggloberato urbano con il più alto tasso di criminalità. Questa gente è cresciuta in mezzo allo spaccio, alle dispute tra gang, in linea di massima in mezzo alla merda, osservando i loro idoli nordamericani ed europei crescere, prender parte ai primi tour mondiali e raggiungere uno smisurato successo. Sarebbe facile parlare dei gruppi sudamericani odierni, tutti con un computer, una connessione a internet e lo stretto necessario per portare a casa le stesse e identiche cose che porteremmo a casa in Italia: ma nel 1987 il divario era enorme, pur rammentando che anche la nostra situazione discografica si basava sulla Contempo e pochi altri marchi ufficiali. Sono da sempre affezionato alla Cogumelo poiché emerse e si affermò in un contesto difficile, che era comunque meno difficile di quello che avremmo potuto individuare in altri paesi. Come questi qua. Molti di questi ragazzi, infatti, non andarono oltre le prime demo-tape o il primo album, in seguito al quale la mancanza di riscontro ha costretto parecchi musicisti ad affrontare una vita normale, fatta di lavoro ordinario e di tutti i cazzi che ben conosciamo. Non è un caso che numerosi gruppi si siano riformati dopo il Duemila, con la strada già spianata e un feeling, un mood, ora difficilissimi da ricreare. Eccovi spiegato perché penso e ripenserò sempre a loro. (Marco Belardi)

In ricordo di un’estate tormentata dal death metal olandese

Le cose non avvengono mai per caso. Eventi rilevanti, talvolta a catena, vengono innescati davanti ai vostri occhi e non darete il minimo peso alla causa dello sfacelo. Nel settembre del 2010 fui letteralmente soffocato dal death metal olandese, dopo che, per un’intera estate, non avevo creduto di voler ascoltare altro. Dovetti procedere a ritroso nel tempo per ritrovare il

Così nacque la scena estrema italiana – parte 2: thrash metal

Alcune bancarelle delle fiere del disco avevano una caratteristica a me gradita, ovvero una suddivisione non casuale del materiale esposto, che ciascun compratore avrebbe poi mescolato come peggio poteva in seguito a una rapida occhiata. In un tavolino organizzato a scomparti poteva esser presente la sezione dedicata all’Italia: una volta portati a casa Schizo, Negazione e Raw Power, e poi

Su Napster i Metallica avevano ragione. Ma fu impossibile non odiarli

Ognuno ha la sua religione: a me, da adolescente, la via la indicarono i Metallica. Per quanto gli Slayer si fossero rivelati coloro che meglio incarnavano l’aggressività che andavo ricercando nel thrash metal, i Metallica rimasero i Metallica. Di loro possedevo libri, videocassette, bootleg, cd e musicassette, gli originali e i non originali, compilation autoprodotte con criteri tutti miei e

BIG FOUR: giù le mani dagli Anthrax

Quando si parla dei quattro grandi del thrash americano c'è sempre lo snob che sostituirebbe gli Anthrax con gli Exodus o i Testament. Al toscano nun je sta bene che no

Come i DRAGONFORCE cambiarono per sempre il power metal

Ci tenevo a fare un articolo gemello rispetto a quello pubblicato ieri da Gabriele Traversa non perché io sia un grandissimo fan dei Dragonforce (non lo sono), ma perché, avendo ahimè una decina d’anni più di lui, ho vissuto in maniera diversa l’arrivo sulle scene del gruppo di Herman Li, con tutto quello che ne è derivato. Gli stessi concetti

La sinistra riparta dai Grorr

Sono francesi, suonano death tecnico misto djent e scrivono concept sui formicai in chiave comunista. Come non parlarne...

Musica per sopravvivere all’inverno: ARX ATRATA

La Gran Bretagna non è mai stata terra troppo feconda per il black metal. Dall’underground qualcosa di interessante però arriva.

L’evoluzione della specie: gli OBITUS

Un gruppo di cui non si sa quasi nulla, che sparisce e riappare all'improvviso, e che è la trasposizione musicale perfetta della violenza distruttiva.

Dalla Russia con dolore: DRYOM

La morte che ti chiama e ti dice che d’ora in poi per te saranno solo gran cazzi amari: sotto il nome Dryom/Дрём si cela uno dei migliori progetti di funeral doom degli ultimi anni.

Speciale NOCTE OBDUCTA, storia e gloria di una magia (prima parte)

La prima parte di un enciclopedico speciale in tre atti sui Nocte Obducta, uno dei gruppi tedeschi più sottovalutati di sempre.

L’architettura della vita moderna fa schifo (ma non troppo) e David Gold l’aveva capito

Nove anni fa ci lasciava David Gold dei Woods of Ypres, e certe cose le capiamo solo adesso.

Speciale NOCTE OBDUCTA, storia e gloria di una magia (seconda parte)

La seconda parte dello speciale sui Nocte Obducta, uno dei gruppi black metal più sottovalutati di sempre.

Quando il gotico non è pipparolo: speciale DECORYAH

Riscopriamo questa band finlandese dal grande talento, dedita a un gothic metal visionario e originalissimo e scioltasi all'improvviso dopo appena tre dischi.

Speciale NOCTE OBDUCTA, storia e gloria di una magia (terza parte)

Terza e ultima parte dello speciale sui Nocte Obducta, con l'ultima parte della loro discografia da Verderbnis a Totholz.
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