Per quattro o cinque anni non ne ho voluto sapere di seguire le nuove uscite, e mi sono concesso una pausa che ha sicuramente avuto degli effetti collaterali, tipo prendere a recensire di tutto inclusi dischi prenotati anzitempo dal Messicano. È intorno all’uscita di Surgical Steel, o forse un annetto prima, che ho lentamente ritrovato la voglia: ammetto di non aver letto news dal biennio 2007/2008, e che dunque non erano tanto i titoli a mancarmi, quanto il riuscire ad apprendere la mutazione di usi e costumi legati al marketing dell’ambiente metallico. L’aspetto peggiore e più irrinunciabile della musica che ascoltiamo, per intenderci.
Tutti vorremmo assistere al trionfo della puttanata secondo la quale un album, se di ottimo valore, si farà pubblicità da solo grazie al semplice passaparola, figuriamoci nell’epoca dei social network. Non è così, anche se ci sono situazioni in cui questo può certamente accadere e, in certi casi, perfino funzionare. Ma generalmente non sarà mai così. Se è assodato che nel mondo della musica non girano più i quattrini degli anni Ottanta e Novanta, ci sono etichette discografiche che lentamente hanno cannibalizzato un mondo intero: lasciate perdere le label di settore a cui vi eravate affezionati, perché i tempi trascorsi a ragionare del lavoro svolto da Earache o Peaceville sono definitivamente fottuti.
Oggi se vuoi essere un colosso non dovrai più scegliere una strada e battere soltanto quella – purché lo si faccia nella miglior maniera possibile – ma sarà necessario che tutti lavorino per te. Non per qualcun altro, proprio per te: fanculo la concorrenza e fanculo le etichette specializzate. Motivo per cui me ne ritorno a seguire le nuove uscite, e la prima cosa che mi salta all’occhio è: dai, i Kreator non sono più su SPV, hanno firmato per Nuclear Blast. Che poi è la stessa casa discografica, vado in ordine alfabetico, di Accept, Blind Guardian, Death Angel, Dimmu Borgir e dei nostri Fleshgod Apocalypse. I Grand Magus, Cristo, i Grand Magus. Oltre agli In Flames ed ai Meshuggah, oppure i Nightwish buttati nello stesso calderone dei Soulfly. Ci sono pure quei giocherelloni dei Therion, che mi hanno fatto perdere tre ore moltiplicate per più di un intero ascolto dietro all’ultimo disco, e naturalmente non mancano all’appello i Vader. Su qualunque aspetto del metal andrai a puntare il mirino, individuerai gente che è sotto contratto con l’etichetta fondata da Markus Staiger: vi ricordate le loro storiche compilation, e di cosa si occupavano precisamente? Il problema è che poi una casa discografica finirà col determinare delle linee comuni da seguire per rendere più accattivante e vendibile la propria proposta, tipo, far suonare i gruppi secondo certi standard o canoni, e lasciando magari una maggiore libertà artistica soltanto ad alcuni di questi. Come per fortuna è accaduto ai Paradise Lost.
Lo straziante trattamento iniziale che le grosse etichette hanno riservato ai gruppi di punta, è stato quello di plastificarne il suono: puoi essere Gene Hoglan oppure Mike Mangini, ma il tuo rullante nel 2019 suonerà con buona probabilità nella stessa e identica maniera, la cassa farà ancora peggio, e il tuo stile celebrato anni addietro da album come Time Does Not Heal verrà nascosto dietro ad una sorta di filtro. Ma soprattutto mi è ignota la causa di tutto ciò: costa di meno produrre una batteria così, oppure è l’audience contemporanea che richiede sul serio un prodotto simile? Ne ho già parlato in un altro articolo e quindi non mi dilungherò su questo argomento, ma ci tenevo a ribadirlo. Un’altra cosa preoccupante è l’associazione di un marketing spinto alla promozione degli album, e sinceramente non me lo ricordavo così privo di freni inibitori a metà del decennio scorso: oggi ci sono i documentari in più puntate sulla realizzazione degli album. Ripeto, i documentari. In una puntata parlano dei testi, nella seguente c’è il cazzeggio in studio, laddove tu, la band, mi elencherai i motivi per i quali chi ti finanzia vuole che il tuo nuovo prodotto suoni identico a quello dei Destruction. Ma seriamente fate questo per trecento copie in più? Oggi i soldi girano sui concerti o al limite sul merchandising, dovreste provare semplicemente a realizzare il miglior disco che vi esce fuori e non a badare a queste puttanate in serie, che tanto non è un’idea vostra ma la sola standardizzazione di un metodo promozionale che interesserà a quattro gatti. Come se non fossero bastate le copiose interviste, tutte quante uguali, che abbiamo letto per venticinque anni: parlami del vostro nuovo album, presentami il nuovo bassista. Sì, è il più potente e melodico che abbiamo realizzato, Fred è un ottimo interprete del suo strumento, ci siamo subito trovati fottutamente bene, ma sto omettendo che tra un anno lo butterò fuori perché si sarà fatto succhiare il cazzo dalla mia donna.
E poi ci sono i Machine Head che registrano da capo Burn My Eyes e andranno in giro a suonarlo per intero: ma sul serio volete sbattere la testa su una cosa lavorata da Colin Richardson nel 1994, in pieno boom del metal su MTV? Perché fare una figura di merda così grossa, e perché togliere l’anima a un titolo come Burn My Eyes? Un conto è remixare Enemies Of Reality perché suonava come una lavatrice piena di jeans imbottiti di monetine, un altro è andare a scomodare esattamente Burn My Eyes in cui non c’è sostanzialmente niente, proprio niente, che non vada benissimo.
In attesa che qualche ambientalista squarti la pancia di una Tama e vi rinvenga qualche chilo di plastica non digerito, leggo che gli Alcest hanno firmato anch’essi per Nuclear Blast. Piccola parentesi: che cosa diavolo c’entrano gli Alcest con Nuclear Blast è la domanda a caldo. La risultante a freddo è che probabilmente corrispondono a dei criteri di selezione tra cui numero di copie vendute sia fisiche sia digitali, bacino di utenza sui social, tipologia di attività live e relativo responso che ne deriva. Tra dieci anni nessuna band in grado di produrre un album che sia perlomeno decente – ma ammetto che la musica di Stephane Paut mi ha sempre preso fino ad un certo punto, cioè pochissimo – sarà fuori da quelle tre enormi etichette in grado di potersi permettere tutti i nomi che contano, anche se questi contano relativamente poco. Band del genere se le aggiudicheranno quelli come Nuclear Blast, livellandone il modo di suonare, il pensiero, e la tipologia di puttanate da dire ai social quando sta per uscire qualsiasi cosa che duri più di un EP. Faranno uscire un videoclip testuale perché le parole che scorrono riducono i tempi di girato necessari, e di conseguenza i costi di produzione, e cose così. La nostra musica che parla di Caproni, mutilazioni e gatti in calore che urlano in una notte nebbiosa, ridotta a una sequenza di input ed output degni di uffici gestiti da cinquantenni, che, nel lontanissimo 1990, sicuramente vomitavano contro un muro fetido dopo averci dato troppo dentro con la Bière Du Demon, e in sottofondo Spectrum Of Death dei Morbid Saint. Da quel giro rimarranno fuori quei gruppi death metal tutti uguali agli Incantation, e qualche frangia definibile come underground la cui musica non interessa a certi Colossi per evidenti motivi. Vent’anni fa, l’esistenza di un numero spropositato di etichette poteva sembrare un problema; oggi, molte di queste chiuderebbero nel giro di sei mesi, sempre e comunque per evidenti motivi.
Ma con il più potente e melodico, che cosa intendono? Mille Petrozza me lo disse sul serio, era la prima volta che lo sentivo e mi fece malissimo. A breve distanza me lo ripeté la Gossow, fu così che iniziai a pensare si trattasse di una Setta. (Violent Revolution, 2001)