Vi sarà capitato plurime volte di riferirvi a qualcosa o qualcuno che delude le vostre alte aspettative o non risponde appieno ad un potenziale evidente con queste due parole: “che spreco”.
C’era una volta, in un paese di muschi, licheni, foreste, alto tasso di suicidi e uso di droghe pesanti, un ragazzo dal volto angelico e le guance paffute, un vulcano di idee artistiche e soluzioni melodiche sempre attivo e fumante, più piroclastico che fluttuante magma e detriti. Più come l’esplosivo monte Sant’Elena (punto di riferimento visivo di quella stessa regione buia e piovosa di cui si diceva poco sopra) che come il famosissimo Kilauea, con i suoi lenti fiumi di fuoco che scorrono costanti.
La scena di Seattle, che oggi viene considerata giustamente come una delle capitali mondiali del rock, ad inizio della cruciale decade degli anni Ottanta faceva schifo al cazzo. A parte i Queensryche o i Metal Church e qualche gruppetto più o meno degno di nota come i Fastbacks o i 10 Minute Warning, dediti ad un hardcore vecchia maniera e in cui militò per un periodo anche Duff McKagan, il quale decise poi a ragione di muoversi verso altri e più attivi poli musicali come quello della fiorente scena street/glam di Los Angeles, non c’era davvero nulla degno di nota, e la città del caffè soffriva la pressione del trovarsi tra due “luoghi sacri” del punk come furono appunto L.A. e la più sorniona ma ugualmente importante scena di Vancouver, ancora più a nord. Si dovrà aspettare fino a metà decennio per vedere qualcosa accadere nel nord-ovest, e principalmente grazie ad una manciata di nomi come Green River, Screaming Trees, Melvins, U-Men o gli straordinari Skin Yard di Jack Endino, principe dell’underground che tanti dei primi demo/EP produsse all’epoca. Questi avrebbero illuminato la via a chi ben sapete.
C’era però un altro nome che circolava da tempo nella scena, e che non produsse nulla di tangibile fino a quando tutto il materiale registrato esistente di tale band non venne raccolto e pubblicato nella raccolta Return to Olympus da Stone Gossard intorno alla metà del decennio successivo. Questa band si chiamava Malfunkshun ed era un culto assoluto di tutti i club di Seattle e dintorni, specialmente grazie ad un bizzarro maestro di cerimonie, che si faceva chiamare a volte Landrew, altre volte Love God o più semplicemente Love Child. Era un ragazzo che aveva sempre la battuta pronta ed un sorriso per tutti, Andrew Wood. Un ragazzo cui la musica scorreva nel sangue e che imparò a scrivere canzoni già da bambino, su di uno sgangherato pianoforte compratogli dai genitori in tenerissima età, distrutto durante il trasporto dal negozio a casa sul pick-up del padre e in seguito rimesso insieme alla meglio.
Andrew era un ragazzo gioviale che però, cosa comune a molti di quelli che amano rendere allegro il prossimo, nascondeva gli umori più cupi e tristi, che cercava di mitigare con un pesante uso di droghe, iniziato in età precocissima e sfociato in una devastante tossicodipendenza, che finì ovviamente con il compromettere in maniera irrimediabile i rapporti con le persone che gli stavano intorno, in un contesto familiare disastrato. Come ricorda il fratello Kevin, che militava nei Malfunkshun assieme ad Andrew, “ad un certo punto nostra madre era l’unica persona sobria in casa”
Fece anni di gavetta sui palchi e sviluppò una presenza scenica magnetica, caratterizzata da bizzarri costumi e monologhi deliranti, che però non riusciva mai a far passare in secondo piano la sostanza, ovvero un’abilità nello scrivere e interpretare bellissime canzoni forse senza pari in quel di Seattle e zone limitrofe. Ad un certo punto, dopo una delle numerose disintossicazioni e quando già militava nei Mother Love Bone (secondo il sottoscritto la migliore band mai venuta fuori dall’epoca del “grunge”), si trasferì a casa di Chris Cornell, dove i due si scambiavano pareri e idee su canzoni e composizioni, in un sana e costruttiva rivalità tra due veri giganti del rock. Ecco, immaginate queste due leggende in una casetta di pochi metri quadri, che discutono su come arrangiare pezzi che poi sarebbero entrati nella Storia e avrebbero venduto milioni di copie.
Andrew ci ha lasciato in eredità le più belle ballate degli anni Novanta. Punto. Roba come Bone China, Chloe Dancer o Crown of Thorns, e influenzato tutto ciò che sarebbe venuto dopo, ovvero la creatura nata per mano di Stoney Gossard e Jeff Ament dalle ceneri dei MLB e diventata Pearl Jam.
Poi un giorno perse la battaglia con i suoi demoni, che teneva ben nascosti, e la cosa gli fu fatale. Successe poco meno di trent’anni fa, il 19 marzo del 1990, e fu una tragedia per tutta una città. Un’overdose lo stroncò e lo costrinse a stare attaccato un respiratore artificiale per giorni, fino a quando non ci fu altro da fare che staccare la spina. Beffa tra le beffe: morì senza nemmeno vedere uscire il primo full della sua band, quell’Apple che ad oggi rimane un capolavoro che mette i brividi, soprattutto pensando alla vita di un ragazzo che ha dato tutto per la causa, artista vero e rifinito, già maturo e chissà di cosa ancora capace.
Innumerevoli i tributi, su cui spicca ovviamente l’album dei Temple of the Dog, nome preso in prestito da una frase contenuta in un altro capolavoro di Andrew, la canzone Man of Golden Words. Tributo che contiene due pezzi, Reach Down e Say Hello 2 Heaven, che davvero suonano come un commovente omaggio di un compagno di stanza ad un amico perduto, e che sono ancora oggi tra le più belle cose scritte da Chris Cornell, tra i numerosi e indimenticabili pezzi di un’artista che andrà a trovare il vecchio amico giusto ventisette anni dopo la sua scomparsa.
Andrew era uno che non si accontentava ed ambiva sempre al meglio, musicalmente parlando, traendo probabilmente linfa vitale e creativa dalla sua disastrosa vita privata, e viene spontaneo pensare a cosa avrebbe potuto fare se non si fosse spento nel letto di un ospedale a soli ventiquattro anni.
Ecco ora lo posso dire anche io: che maledettissimo, strafottutissimo spreco. (Piero Tola)